di Gianni Marchesini
Potrei dire che il progetto di mobilità alternativa, vanto delle passate amministrazioni, è miseramente fallito. Gli orvietani del suburbio non sostano volentieri nei parcheggi posti ai margini della città. E’ una sorta di illegittima esclusione che non sopportano volentieri. La storia della città può confermarne il motivo.
Per secoli Orvieto ha funzionato come il polmone commerciale del suburbio, Piazza della Repubblica come una sorta di Wall Street per gli scambi degli abitanti il contado, il mercato è stato il terminal dei prodotti a chilometro zero provenienti dalle frazioni, le scuole raccoglievano i figli del circondario, il tribunale, gli impieghi…
Per secoli insomma Orvieto ha permesso il libero fluire di persone, di merci dal suburbio e dai territori circostanti radicando così un senso di appartenenza, una sorta di scontata appropriazione della città sulla Rupe che una ideologia dirigista e pianificata come quella ispiratrice della “mobilità alternativa” ha preteso di inibire secondo una politica rivolta alle teorie del Partito al potere piuttosto che alla reale collocazione economica, sociale, storica della città. Non c’è niente da fare, gli orvietani conservano la costante, pretesa antica di arrivare con qualsiasi mezzo, dal somaro in poi, a ridosso del Centro. E il luogo ideale, convenuto, dove ci si ferma, dove chiunque giunga dal suburbio si sente un orvietano di città, è Piazza del Popolo.
Forse sarebbe stato opportuno considerare il progetto del povero ingegnere Forbicioni (inascoltato) che prevedeva, già dagli anni ‘70, parcheggi sotterranei prossimi al Centro, anticipatore di una concezione moderna oggi applicata in molti centri storici secondo la quale si va a parcheggiare sotto il centro della città. Potrei dire che la posizione di Orvieto è davvero bizzarra. Per raggiungere il Lassù dal suburbio, occorre servirsi di un mezzo. Un viaggetto, insomma. Ma un tempo il forte fattore attrattivo del Centro era il bisogno. Trovavi tutto Lassù. Necessitavi di un abito, di una lampada, di un elettrodomestico, di una cornice? Dovevi fare un salto a Orvieto. Era anche un piacere. Ci si cambiava un po’, si prendeva il torpedone, l’auto utilitaria e si ritornava al paese con quell’aria scafata di chi era stato in città.
Insomma, una società rupecentrica. Poi è iniziata la deportazione. Le scuole se ne sono andate. Tutto se n’è andato. C’era una zona, con dei bellissimi capannoni di mattoni rossi, la Petrurbani, fatta apposta per insediarvi delle produzioni artigianali del cuoio, dell’abbigliamento, del ferro che fu, invece, smantellata per piazzarvi la Coop e per attrarre dei negozi orbitanti ora abbandonati in una landa buia e malfamatella dato che la Porta del potere d’Orvieto si è trasferita in un pianoro alluvionale nei pressi del casello di Orvieto e basta, perché quello Nord non ce l’hanno concesso. Via via che il contado sostituiva la Rupe come riferimento commerciale, il soddisfacimento dei bisogni traslocava dal centro storico al suburbio. Nacque così l’era della società Coopcentrica.
C’erano tutte le ragioni, allora, da parte della classe dirigente per abbandonare il piglio dirigista insieme al vezzo politico, assai dissennato per la verità, di applicare il Sistema modulare del partito post comunista, valido per qualsivoglia città e noncurante delle sue specifiche collocazioni storiche, sociali, logistiche.
La strategia errata e logorante è stata e permane quella, testarda, di lavorare sopra la città e non dentro la città. Tutte le decisioni calano dall’alto. Nulla viene intrapreso secondo un criterio di trasformazione, di adeguamento strutturale, di costruzione fattiva. Ogni atto appare come una fredda opera di regime. Così era inevitabile che il fattore attrattivo del centro storico fosse passato dal bisogno al nulla. La città non è stata condotta in modo che ai bisogni si sostituissero i desideri, che, per dirla in termini di marketing, si accompagnasse il mercato a trovare le giuste motivazioni. Quali sono allora i nuovi elementi attrattivi del Centro storico? La lotta tra cani? Le loro cacche? Le bacheche inutili con i fogli pendenti? Le vetrine dei negozi sfitti tempestati di locandine lacerate? Gli scatoloni ammassati fuori dei supermercati? I negozi che si estendono fino in mezzo alla strada? I tendaggi scomposti? I portoni dei palazzi pubblici spennellati e scrostati?
I parcheggi che costano una tombola? I fili a penzoloni dei palazzi ottimi per Tarzan? I mezzi pubblici che per salire aspetti un’ora? I taxi che non funzionano? I manipoli spagnoli che bivaccano su quella mensa all’aperto che è diventato il Centro? I furgoni che te li senti ansimare dietro a qualsiasi ora o le biciclette che ti sibilano accanto? Oppure quello stuolo di mendicanti che sono la vergogna per una città turistica e civile che ti assillano, ti braccano, spesso ti insultano e che sono i padroni della strada dove scorrazzano a piacimento sotto gli occhi soddisfatti del racket?
Potrei concludere che oggi, a mio avviso, si sta commettendo lo stesso errore.
Che si prefigura un’altra “mobilità alternativa” che si chiama “pedonalizzazione” calandola dall’alto con il solito dirigismo avulso sopra una città dove gli unici interventi puntuali ed efficaci sono le multe e dove persone, tecnici competenti dovrebbero essere chiamati a misurare, valutare se le variabili storiche, psicologiche, sociali, motivazionali, logistiche siano nelle condizioni di permettere una decisione destinata a influire in modo importante sulla sopravvivenza economica della città.
Calare su Orvieto sic e simpliciter una visione politica di città (forse anche giusta in assoluto) prima di avere la ragionevole certezza che la città sia stata adeguatamente preparata per assorbirla e per progredirla in ricchezza ambientale e economica è un doloroso errore che si aggiungerebbe ad altri, altrettanto dolorosi e che non può essere commesso da un sollecito, politicamente ispirato, giovane assessore.