di Mario Tiberi
L’editoriale a mia firma della scorsa settimana, incentrato sul tema del binomio Lavoro e Libertà, ha suscitato svariate reazioni tra le quali, non poteva che essere così, quelle di coloro che mi hanno rimproverato di saper denunciare ma di non proporre. Non volendomi sottrarre al dovere morale della proposta, mi proverò a formulare un’indagine filosofico-introspettiva dalla quale trarre spunti progettuali concreti: scriverò, quindi, di lavoro, della sua etica, dei suoi drammi e delle sue prospettive.
Seduti dietro ad una scrivania o davanti a un computer oppure correndo frettolosamente, di qui e di là, conversando con frenesia al cellulare; immersi in una classe di bambini urlanti o di ragazzi non sempre diligenti ed educati; sorridenti e affaticati allo stesso tempo tra i tavoli di un ristorante o dietro il bancone di un bar o di un negozio; taciturni ad aggiustare il motore di una macchina, un filo elettrico, una tubatura o un elettrodomestico od, anche, a costruire e vendere immobili; ingessato e un po’ costretto nel suo vestito, giacca e cravatta, a dirigere la propria azienda: queste ed altre le numerose occupazioni che svolgono quotidianamente gran parte degli italiani come, del resto, gran parte degli abitanti il pianeta chiamato Terra.
Una infinita varietà di figure professionali accomunate, probabilmente, da un unico bipolare stato d’animo: noia e apatia, prevalentemente intellettuale, da una parte; stress e una sorta di angosciante agitazione, dall’altra. Soggiacere, giorno dopo giorno e per anni e anni, sempre alle stesse incombenze porta con sé monotonia, stanchezza, insofferenza, insoddisfazione, appiattimento, inibizione della curiosità e di interessi volti al nuovo, assenza di stimoli, rassegnazione.
Alla frequente non volontà dei “veterani” del lavoro, se così si può definirli, corrisponde parallelamente il desiderio e la predisposizione naturale delle nuove generazioni a volersi affacciare alle realtà dell’impegno lavorativo con entusiasmo, grinta e dedizione. E’ pur vero, però, che una consistente fetta dei giovani d’oggi, un po’ per propria responsabilità e un po’ perché viziati e resi intellettualmente apatici da dinamiche socio-politiche non sempre limpide e attente alla formazione e crescita della loro identità personale e professionale, si trova nella condizione di essere disorientata, sfiduciata e quasi rassegnata di fronte a dirigenze politiche e metodi operativi che, solo saltuariamente, si accorgono della loro presenza e del loro valore.
Non si tratta di costruirsi degli alibi per nascondere o giustificare un’eventuale “noluntas” giovanile, poiché di giovani brillanti, carichi di energie e di idee da indirizzare nei canali del mondo del lavoro ve ne sono di certo in abbondanza, quanto piuttosto vi è da chiedersi il perché, inoccupati e frustrati, si ritrovano anche loro nell’abisso della noia scaturente dall’inoperosità e dal non poter utilizzare il proprio tempo gettando nella mischia tutte le proprie conoscenze e capacità.
Il paradosso è allora palese: dal “troppo fare” dei veterani del lavoro deriva quella noia che, similmente, nasce dal “non fare” dei giovani. Per i primi può probabilmente trattarsi di un momentaneo e più lieve stato d’animo provocato da fattori imponderabili che si ripetono meccanicamente sotto il segno della monotonia; per i secondi, invece, è possibile che sia una più profonda condizione esistenziale determinata da una disagiata situazione esterna, ma le cui radici affondano all’interno della più intima intimità dell’animo umano. Come uscire da tale “empasse”?
Certamente il problema non è di facile soluzione e attuabile in tempi brevi o soltanto in un’unica direzione; se, però, si iniziasse a considerare il lavoro sotto luci e prospettive nuove e plurime, se gli si attribuisse un valore aggiunto di natura etica e sociale, emergerebbe immediatamente che dietro ad esso vi sono uomini e donne con le loro competenze e con la loro personalità.
Il “darsi da fare”, allora, non può essere superficialmente giudicato alla stregua di un mero strumento per il sostentamento, come mezzo di arricchimento e di successo personale: questi ultimi sono sì degli incentivi, ma da soli provvedono solamente a soddisfare beni esclusivamente materiali che, come tali, sono destinati inesorabilmente a deteriorarsi. Al rovescio, il lavoro non deve, invece, essere considerato come contributo propositivo atto a perseguire e migliorare il benessere spirituale e lo sviluppo economico delle società e, in senso lato, dell’intera umanità?
E’ in questa direzione che possiamo convenire con Hegel che, attraverso il lavoro, “l’egoismo soggettivo si converte nell’appagamento dei bisogni di tutti gli altri”.
I veterani del lavoro potrebbero e dovrebbero tener sempre a mente il valore di ciò che stanno compiendo e, allo stesso tempo, permettere ai giovani di proporre le proprie idee mettendo a disposizione il loro sapere e la loro determinazione ad attuarle nella pratica concreta. Solo così può essere offerta vita ad un giusto equilibrio sociale al quale aspirare: l’esperienza e la saggezza accumulate dai più anziani a supporto dell’originalità e vivacità della giovanile esuberanza.
Il presente, nella sua essenziale fugacità e mutazione, può divenire in tal maniera il punto d’incontro tra passato e futuro, tra tradizione e innovazione. Il presente è un attimo quasi inafferrabile dall’umana percezione, ma può anche essere un attimo prezioso di congiunzione e continuità.
Non si lasci che la noia cancelli il passato e impedisca il futuro: la noia è la paralisi del tempo, è un eterno presente infecondo perché sempre uguale a se stesso.