di Mario Tiberi
Diffondere, o più volgarmente, “dare in pasto” alle genti comuni, alle quali tutti apparteniamo, il pensiero delle proprie costruzioni ideali e filosofiche e il giudizio della propria coscienza su fatti e persone costituisce un grave rischio, foriero di poche soddisfazioni e di molte sofferenze.
L’ho provato sulla mia viva epidermide e continuerò a provarlo, non per masochismo, ma per dovere di testimonianza poiché non intendo affatto abbandonare la barra della pubblica esposizione divulgativa. Andrò, così, a principiare dalle sorgenti dei quotidiani accadimenti emozional-razionali. Di tempo per sedersi dietro alla propria scrivania per leggere, pensare e riflettere o per dedurre, concettualizzare e scrivere, ve ne è sempre meno. O, forse, è solo perché non lo vogliamo trovare in quanto stanchi, come siamo, della accelerata e stressante quotidianità, impigriti e narcotizzati dalla quasi totalità di programmi mediatici, visivi e non, del tutto privi di un qualsiasi contenuto rilevante per la vita intellettuale e morale delle donne e degli uomini dei nostri tempi.
L’epoca attuale, in quasi tutte le sue dimensioni e in quasi tutti i suoi mezzi di comunicazione e informazione, troppo spesso surrettiziamente calcolati e manipolati, sembra non fornire stimoli al nostro senso critico, unico in grado di discernere tra il vero e il falso, tra ciò che rientra nella sfera del giusto e ciò che ne rimane fuori.
E’ importante precisare che tale atroce meccanismo non si è innescato né per caso né all’improvviso e né tanto meno, aspetto questo da non trascurare, per insipienza delle plebi quanto piuttosto per una precisa volontà. Il distrarci continuo con chiacchiere ciarliere e non con argomenti, il tempestarci di messaggi pubblicitari che elogiano ed esaltano la società dell’iperconsumismo, il promuovere trasmissioni che altro non sono se non un insulto all’intelligenza e al decoro culturale, il valorizzare il falso principio dell’ottenere il massimo con il minimo sforzo, il confondere vicendevolmente realtà e apparenza affinché si rimanga in superficie onde limitarci a percepire l’omnia da un’unica prospettiva tanto da non vedere più le questioni irrisolte e il marcio che infesta i circuiti esistenziali, il non voler capire che il più fecondo investimento per rimanere competitivi, in vista di progresso e benessere, non è quello fondato sul denaro, bensì quello strutturato sulla ricerca e sulla cultura, tutto ciò caratterizza la nostra epoca.
Siamo probabilmente di fronte a un tentativo di imporci un adattamento necessario e forzato all’attuale “id quod plerumque accidit”, non creato collaborativamente da noi, ma costruito ad hoc da chi ci governa e pretende di comandarci. Così, passivamente, siamo portati a discernere, sentire e ragionare, tutti, allo stesso modo. E’ questa l’originaria essenza dell’uguaglianza? O della democrazia? Ovvero menti drogate e anestetizzate che “pensano” tutte, sempre e comunque, allo stesso modo?
Al contrario, la vera uguaglianza risiede nella libertà di pensiero e nella moltitudine dei punti di vista e di visuale, i quali, attraverso l’ascolto e la parola, si incontrano in funzione di un fine comune. J.G. Fichte nei “Discorsi alla Nazione Tedesca”, con risolutezza arrivò a dire: “Chiunque crede nello spirito, e alla libertà dello spirito, e vuole il progresso all’infinito dello spirito per mezzo della libertà, dovunque sia nato e qualunque lingua parli, egli è della nostra razza umana, egli ci appartiene, egli verrà con noi”.
Il timore è quello di essere di fronte ad un blocco inerme e paralizzante che può essere definito come “morte dell’intelletto”, in nome del quale la razionalità della razza umana viene soppressa: omicidio o suicidio intellettuale? In entrambi i casi la risposta non può risiedere nella rassegnazione, quanto piuttosto in una vigorosa e dirimente “battaglia delle parole pronunciate ad alta voce” e che si levino, coraggiose e veritiere, dalla gola di un popolo, il nostro, non più disposto a subire la dispersione della sua dignità e della sua fierezza.
La sfida consiste, quindi, nel riuscire a risvegliare le nostre più proprie e primigenie facoltà: la meraviglia e la curiosità per tutto ciò che ci circonda, il ragionare non per stereotipi inculcatici, il desiderio insopprimibile di essere i fautori di una conoscenza e di una coscienza totalmente libere. D’altronde già la lezione socratica, basata sul principio fondamentale del metodo del dialogo maieutico, ci insegna che la verità e il progresso conoscitivo trovano il punto di partenza in ognuno di noi. Allora, dunque, i nostri sforzi e il nostro impegno devono essere quelli di ridare vita ad un terreno razionale, fertile e rigoglioso: non possiamo permettere a nessuno di farci derubare della nostra più intima essenza e, cioè, il libero pensiero, il libero linguaggio, la libera capacità di agire.
E’ la mancanza della capacità di agire, in libertà e senza condizionamenti di esternità preconcettuale, che sta conducendo i reggitori dei popoli al nullismo e alla inconcludenza. La riscossa a tale deserto non può che partire da una risorta coscienza popolare la quale, costantemente, ci deve indicare la via maestra del non poter, del non dover mai rinunciare alla nostra identità personale, morale, intellettuale, culturale, sociale e politica, lasciando che essa venga forgiata e poi manipolata da chi ci vorrebbe più ebeti e servili.