Care classi dirigenti dell’Umbria sudoccidentale, vi siete accorte dell’operazione politico-culturale che si sta svolgendo sopra le vostre teste?
di Franco Raimondo Barbabella
Nel gennaio scorso l’AUR (Agenzia Umbria Ricerche) ha presentato ufficialmente il “Rapporto Economico e Sociale 2016-17” intitolato “L’Umbria tra Toscana e Marche”. L’iniziativa ha avuto larga eco sulla stampa regionale, mentre è passata praticamente inosservata a livello locale, come se queste cose fossero lontane e ininfluenti. Stupisce, si fa per dire, in particolare che se ne ritengano estranee tutte le realtà della provincia di Terni, per le ragioni che tra poco vedremo.
Nel rapporto con le altre due regioni in vista dell’ipotetica confluenza in una macroregione dell’Italia centrale, l’Umbria partirebbe notevolmente svantaggiata. Simile alle Marche per certi aspetti, è significativamente indietro rispetto alla Toscana e alle aree più dinamiche del Centronord e ovviamente lontana dall’Europa più sviluppata. Ecco il giudizio di sintesi: essa “ha definitivamente perso quella omogeneità che in passato l’aveva caratterizzata”.
Alcuni dati significativi non possono non preoccupare: il Pil, già in discesa dal 1995 al 2007, negli anni della crisi 2007-2015 è sceso ancora a -2,1 in media all’anno (quasi altri 15 punti % in meno); la produttività del lavoro è calata a picco: di 10 punti dal 1995 al 2007 e di altri 5 dal 2007 al 2015, mentre nello stesso periodo quella delle Marche è restata sostanzialmente costante e quella della Toscana è cresciuta anche nel periodo della crisi; le condizioni minime economiche, la sicurezza, l’ambiente e la partecipazione culturale sono al di sotto della media; è diffusa la sfiducia verso la politica e le istituzioni.
La crisi dunque “ha fatto esplodere tutte le fragilità”, più dell’Umbria che delle Marche, mentre la Toscana “è riuscita a distinguersi per una capacità reattiva maggiore” vicina a quelle di Emilia e Lombardia. Non tutto va male, ché anzi per alcuni aspetti l’Umbria è messa meglio di altre realtà, e comunque possiede potenzialità non sfruttate nei territori che l’Aur chiama “territori della grande bellezza” (un mix di patrimonio artistico e paesaggistico, tradizioni artigiane e imprenditorialità legata alla cultura, ai prodotti tipici e alla creatività), dove vivono due terzi degli umbri. Da qui converrebbe ripartire per una nuova politica di sviluppo compatibile.
Centrale però è proprio la questione istituzionale. Diciamolo chiaro: data la situazione di partenza, se l’idea di macroregione dovesse andare avanti così come è stata impostata, l’Umbria ne uscirebbe con le ossa rotte. Il fatto è che la proposta è nata sbagliata, sia perché frutto di una decisione politica verticistica portata avanti in ambito PD, sia perché non tiene conto dell’essere la nostra una regione piccola e plurale proprio perché posta in mezzo ad altre regioni. E poi, anche questo va detto, risponde ad una visione dell’Umbria ormai vecchia e velleitaria, quella che con brutto termine è stata sempre definita peruginocentrica, intendendosi con questo indicare l’idea che tutta la storia passa per gli ambiti territoriali della provincia di Perugia.
Ma l’Umbria è altro e, se si vuole guardare avanti facendo centro sulle sue potenzialità di sviluppo, bisogna allargare lo sguardo a tutti i territori della regione e alle specifiche potenzialità di ciascuno di essi. Non si può dunque non tener conto del fatto che l’Umbria sud-occidentale dialoga da sempre con i territori del Lazio, il Reatino e il Viterbese, oltre che della Bassa Toscana. Ciò che può essere preso come elemento concettuale e operativo che stimola una seria riforma è l’idea proposta dall’AUR, questa sì interessante, dell’organizzazione della regione in distretti in cui lavorare con logiche di sistema.
L’Umbria può essere una costellazione di distretti tematici e polivalenti (magari non proprio i 14 dell’AUR) che dialogano ciascuno con i territori contermini delle altre regioni e fanno sistema sulla base delle caratteristiche specifiche storicamente consolidate e le innovazioni possibili e necessarie. Si tratta di governare la costellazione adeguando l’assetto istituzionale a questa logica che premia la capacità di intrapresa territoriale e non aspetta più soluzioni magiche dall’alto. Si tratta anche di adeguare a questo la funzione delle province e di spingere verso le unioni dei comuni non con la sola logica del risparmio ma con quella dei servizi per lo sviluppo e la qualità della vita.
Detto sommessamente, sarebbe anche il caso di rivedere l’improvvida legge elettorale regionale con cui si sono tenute le ultime elezioni andando in questa direzione di valorizzazione dei territori e rompendo anche per questo verso un centralismo che è oggettivamente un ostacolo allo sviluppo, perché tra l’altro riduce la lotta politica a scontro di potere tra persone e cordate, induce dipendenza, in definitiva impigrisce le classi dirigenti.
Per tante ragioni non mi meraviglia il fatto che questi problemi siano assenti dal dibattito locale e in particolare da quello che normalmente si svolge nella provincia di Terni; mi meraviglierebbe il contrario. Il fatto è che le classi dirigenti dell’Umbria si sono specializzate in strategie di difesa più che in coraggiose strategie di innovazione. Non solo, ma si continua a coltivare l’illusione che ci si difende meglio chiudendosi: in fondo, l’idea che la macroregione sia da concepire senza la parte del Lazio che ha rapporti storici consolidati con il Ternano e l’Orvietano è ancora la vecchia idea difensiva solo più larga.
Ma così non si va da nessuna parte. Credo che in diversi posti converrà darsi una bella svegliata. Sia chiaro, non perché sia imminente qualche decisione in una direzione che io ritengo sbagliata, ma perché si sta consolidando una cultura politica ancora ottusamente conservatrice, pericolosa per il futuro di diverse realtà locali (anche potenziali distretti interregionali) e complessivamente per la stessa regione dell’Umbria, che potrebbe trarre un vantaggio strategico solo dalla sua capacità di far giocare ai suoi diversi territori un ruolo di ponte con le regioni contermini trasformando finalmente in vantaggio quella sua caratteristica che storicamente è stata una palla al piede, il suo particolarismo.
L’opinione di Leoni
L’Umbria porta l’ornamento delle sue città ricolme di storia e di cultura, ma anche lo svantaggio di una vitalità limitata dalla sua esclusione dal mare e dalle grandi linee di comunicazione. La lontananza dal mare l’ha salvata dallo scempio della cementificazione, ma anche dalla spinta economica di un dinamico settore edilizio. La esclusione dalla grandi arterie ferroviarie e autostradali ha ritardato e rallentato il suo sviluppo economico e ciò la svantaggia anche oggi nel confronto con le regioni confinanti. Che questo stato di cose sia superabile con progetti di ingegneria istituzionale e programmi di razionalizzazione dell’uso delle risorse culturali è non solo un auspicio e una speranza, ma anche un dovere di riflessione e d’impegno per i singoli e per le istituzioni. Ben vengano dunque le riflessioni, le proposte e le iniziative. La cosa peggiore è stare seduti e lagnarsi. Chissà che il peso della crisi economica, a parte l’ennesima constatazione che non c’è nulla di stabile sotto il sole, non stimoli energie finora assopite nella nostra regione.
Non c’è niente di più importante che educare la gioventù
di Pier Luigi Leoni
In un recente convegno, Nicola Gratteri, procuratore capo di Catanzaro, si è rivolto ai giovani studenti con le seguenti parole: «Dovete studiare, comportarvi bene, essere educati. A 18 anni donare il sangue e andare a trovare gli anziani nelle strutture. Solo da voi può giungere il vero segnale di cambiamento della Calabria! Noi ce la stiamo mettendo tutta». L’insegnante Claudia Pepe, commentando su “Huffington Post” le parole del magistrato, ha trovato che l’invito di Gratteri assomiglia all’appello di Gramsci che diceva ai ragazzi: «Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il vostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la vostra forza. Studiate, perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza.»
La signora Pepe ne deduce che “non tutti avevano capito l’importanza di quelle parole, infatti ci troviamo davanti a un Paese devastato dalla corruzione, da politici indagati, da mazzette che aprono le porte della malavita, un Paese che poteva essere un grande Paese, ma distrutto dalla mancanza di eticità e di morale. Il ruolo dell’Auditel, è diventato sovrano su ogni significato corretto che il mezzo televisivo dovrebbe trainare. La sua influenza su menti fragili può portare a pensare che lo status-quo di un ragazzo, debba essere il bullo, lo sfrontato, lo sbruffone.
Quello che noi costruiamo a scuola viene preso a picconate da una fiction qualsiasi.” Come dire che è tutta colpa della televisione non gramsciana, nonostante gli sforzi degli insegnanti. Qualcuno si offende se cito Don Giovanni Bosco? Il santo prete, quasi un secolo prima di Antonio Gramsci, scriveva: «Volete fare una cosa buona? Educate la gioventù. Volete fare una cosa santa? Educate la gioventù. Volete fare una cosa santissima? Educate la gioventù. Volete fare una cosa divina? Educate la gioventù. Anzi questa, tra le cose divine, è divinissima.» Non è il caso di riflettere anche sulla scuola?
L’opinione di Barbabella
Sono sempre parole sante quelle che richiamano tutti al dovere di educare i giovani, che per definizione sono il futuro. Sono sante quelle di Gramsci e Don Giovanni Bosco come quelle di Nicola Gratteri e di Claudia Pepe.
Il fatto però è che questo aspetto così essenziale della società, tale che senza di esso sono perduti la possibilità e il senso stesso della sua esistenza, viene in mente e di esso si parla, tralasciando gli ambienti ristretti degli specialisti, ormai solo in occasione dei drammi che arrivano sui media e sui social.
Allora e solo allora sembra che di educazione si debbano occupare tutti: la famiglia, la società, la scuola, gli stessi mass media. E regolarmente, ogni volta, arriva l’accusatore che ha capito tutto, si interpella l’esperto, il giornalista fa il suo bravo pezzo. Poi, dopo due giorni, tutto torna come prima, ognuno convinto di avere fatto il possibile e soprattutto che le responsabilità di ciò che è accaduto stanno da un’altra parte.
Ma la verità è che educazione non coincide con istruzione, le attività che ne caratterizzano il percorso non si limitano al periodo che va dall’infanzia all’adolescenza anche se questo è il suo momento di massima concentrazione, i soggetti che ne sono protagonisti sono molti e diversi: individui, istituzioni, la società come tale. Figuriamoci dunque se non se ne debba occupare la scuola.
Vediamo allora per l’essenziale come si pone il problema. La Costituzione, all’art. 3, parla di “pieno sviluppo della persona umana” con riferimento al compito della Repubblica di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che lo impediscono. È chiaro però che il pieno sviluppo della persona, di ogni persona, non può realizzarsi nell’ignoranza e nell’incoscienza di principi e regole di comportamento. La scuola, che ha come suo compito costitutivo l’istruzione, non può tenersi fuori anche dal compito di educazione.
Ma che cosa vuol dire in concreto esercitare come scuola un compito di educazione? Sono tre gli aspetti che in esso per un verso si distinguono e per un altro si congiungono: l’educazione cognitiva, l’educazione civica e politica, l’educazione emotivo-affettiva. Va detto con grande chiarezza: non solo si pratica in troppi casi malamente la prima, ma la seconda di fatto da anni è stata espunta (quella politica poi, che non è certo indottrinamento, non si sa nemmeno cos’è e comunque è come belzebù) e la terza è da sempre fuori dall’orizzonte, per cui ogni tentativo di farne apprezzare l’utilità, se non è ostacolato esplicitamente, lo è con mille sotterfugi, come sempre con le ovvie eccezioni.
È evidente che siamo lontani dall’obiettivo di una società organizzata per dare ai giovani ciò che loro spetta in termini di diritto al futuro. Non è questione solo di scuola, ma è anche questione di scuola, e per certi aspetti essenzialmente di scuola. Ma risulta che parlare di scuola che funzioni sul serio per soddisfare le esigenze dette interessa a qualcuno? Risulta che sia in atto una politica generale e locale che se ne occupi in modo sistematico? Domanda conclusiva: risulta che al centro delle preoccupazioni prevalenti oggi in ogni ambiente ci siano i giovani?