C’è qualcosa di malato nel successo di certi politici
di Pier Luigi Leoni
Non voglio atteggiarmi a psicologo, ma, dato che questa non è una rubrica specialistica, mi concedo il lusso di fare qualche confidenza affidandomi al buon senso mio e dei lettori. Vi sono dei personaggi politici che suscitano entusiasmo o repulsione, ma in qualche modo captano l’attenzione della gente. Sono convinto che nessuno comprerebbe una macchina usata (e nemmeno nuova) da un venditore che avesse la faccia e lo scilinguagnolo di Matteo Renzi, o l’aspetto e la sicumera di Silvio Berlusconi, o la strafottenza di Matteo Salvini, o l’aggressività verbale di Beppe Grillo.
Eppure questi signori, grazie soprattutto alla televisione, riescono a fare della politica uno spettacolo che attrae le masse. Quando pontificano nelle interviste televisive e nei talk show, gli indici d’ascolto schizzano in alto. C’è chi li ama e c’è chi li detesta, ma tantissimi ne sono attratti. C’è qualcosa di malato nel rapporto tra questi soggetti iperattivi, affetti da evidente narcisismo, e le masse. Per fortuna gli anticorpi di cui ormai è dotata la nostra democrazia matura impediscono che di questi megalomani agitati ne resti solo uno e prenda tutto il potere, come è successo in passato e come succede ancora in alcuni paesi del mondo. Ma ciò non toglie che nel successo di certa gente c’è qualcosa di malsano di cui è bene parlare e da cui è bene guardarsi.
L’opinione di Barbabella
Pier Luigi annota un fenomeno interessante da molti punti di vista, la fenomenologia del rapporto tra le masse e i capi nell’epoca della comunicazione televisiva e massmediatica. Com’è noto (anch’io me ne sono occupato parlando del bel libro di Emilio Gentile “Il capo e la folla. La genesi della democrazia recitativa”), il rapporto cambia con l’ingresso delle masse nella storia, che avviene già alla fine dell’ottocento e diventa travolgente con la prima guerra mondiale, la prima guerra di massa. Il tema diventa da allora centrale, e ne studiano natura e conseguenze studiosi di diversi ambiti, letterati e filosofi, sociologi, antropologi e psicologi.
Uno degli studiosi più interessanti e capaci di cogliere le novità del fenomeno fu (anche di questo ho detto più volte) Gustav le Bon, che con il suo “Psicologia delle folle” (1895) propose la prima interpretazione organica del rapporto tra il moderno capo e le masse, intese non a caso come folle. Secondo Le Bon il moderno capo deve cogliere i desideri e le aspirazioni delle folle e proporsi come colui che è capace di realizzarli. L’illusione è più importante della realtà, perché ciò che conta non è realizzare i sogni quanto piuttosto far credere di esserne capaci. Le folle infatti pensano per immagini, e più che dai ragionamenti si lasciano influenzare da ciò che di meraviglioso può offrire un racconto di fantasiosa realtà. Ieri come oggi questo sembra ciò che identifica il fenomeno.
Molti dei capi del novecento, sia dittatori (ad es. Hitler e Mussolini) sia democratici (ad es. Roosvelt, Churcill, De Gaulle) hanno letto Le Bon e ne sono stati influenzati. I capi attuali, quelli italiani in particolare, non hanno certo bisogno di leggere Le Bon: loro si avvalgono di altro, soprattutto dell’atmosfera di instabilità collettiva creata dall’illusione che tutti possono dire cose importanti e decisive se messi davanti ad una telecamera o avendo in mano una tastiera elettronica. Certo, ognuno di questi più ne inventa e più resta in piedi, più le spara grosse e più si fa notare, ma difficilmente governa. Non ne resta solo uno al comando non solo (forse) perché siamo in democrazia matura, ma perché essi hanno bisogno gli uni degli altri per fare sarabanda e apparire uno meglio dell’altro così da avere l’applauso momentaneo delle folle. Applauso mobile, ma finché dura ti fa stare al centro del quadrato. Le conseguenze sono sotto i nostri occhi.
La speranza viene dalla filosofia. Cerchiamo di agganciarla!
di Franco Raimondo Barbabella
Quando al termine degli studi liceali, dopo aver flirtato per qualche tempo con medicina e architettura, scelsi di iscrivermi a filosofia, non pensavo certo che quel tipo di studi con le competenze ad esso connesse ad un certo punto potesse diventare di moda. Scelsi quel percorso, insieme ad altri amici (Adriano, Paolo, Pino, don Marcello), senza pensare troppo alla sua utilità; semplicemente mi piaceva l’esercizio del pensiero critico che già allora caratterizzava l’aspetto concreto del fare filosofia. Di fatto andavamo controcorrente, giacché la vulgata, peraltro ancora oggi largamente presente, si riduceva alla notissima convinzione che “la filosofia è quella cosa con la quale o senza la quale si rimane tale e quale”. La realtà ha poi dimostrato esattamente il contrario, finché oggi assistiamo ad una vera esplosione di interesse sia per la sua intrinseca importanza culturale che per le sue implicazioni pratiche in campi diversi tutti connessi con l’esigenza di creatività ed insieme di rigore logico.
Non è un caso, credo, che il MIUR abbia scelto per la prova di latino dell’esame di stato 2017 quel passo di Seneca tratto dalle “Lettere a Lucilio” in cui il grande filosofo esalta il valore pratico della filosofia: “La filosofia non è una strategia per mettersi in mostra: è costituita non di parole ma di fatti. E non si pratica per questo, cioè per passare la giornata in una forma qualsiasi di piacere … : dà forma all’animo e lo costruisce, dà ordine alla vita, governa le azioni, indica con chiarezza ciò che si deve fare e ciò che non si deve, siede al timone e mantiene la rotta attraverso le onde che colpiscono da una parte e dall’altra. Senza di essa nessuno è in grado di vivere senza paura, nessuno senza affanno. Ogni singola ora accadono infiniti eventi che richiedono un consiglio, che dev’essere chiesto a lei”, ecc. Non è un caso, ripeto, perché in giro per il mondo si moltiplicano le attività che hanno a fondamento proprio la filosofia.
Ad esempio, sul penultimo numero de La Lettura del Corriere della sera si può leggere un trafiletto come questo: “Influencing è la nuova parola d’ordine: la capacità d’influenzare gli altri, indirizzarne le scelte e quindi il comportamento, è oggi riconosciuta come misura del potere tra gli individui e le istituzioni. Ben più della pubblicità diretta. Solo chi ha più opportunità di influire sulle idee altrui fa la differenza. Il denaro passa in secondo piano, spodestato sul trono dopo secoli di primato assoluto. La società moderna era passata dalla supremazia del ceto sociale a quella della ricchezza economica, propria della borghesia, del commercio e dell’impresa”.
È la smaterializzazione della società che procede a grandi passi, ed è ovvio che essa comporti la consapevolezza della centralità delle forze umane e dei cervelli. Lo avevano capito benissimo già i sofisti duemilacinquecento anni fa nella loro rappresentazione delle possibilità di successo individuale mediante il padroneggiamento delle tecniche della persuasione. Oggi questo stesso discorso viene fatto nell’ambiente delle aziende hi-tech. Non che questo voglia dire “niente di nuovo sotto il sole”; all’opposto, vuol dire piuttosto che le scoperte filosofiche sono così vitali che con gli opportuni adattamenti funzionano anche a distanze temporali notevoli e in contesti molto diversi.
Si possono trovare anche servizi specialistici con titoli ad effetto di questo tipo: “Socrate lavora alla Apple”, e riassunti così: “La filosofia pratica è l’ultima passione dei capitani d’azienda della Silicon Valley. La crisi economica ha fatto crescere la necessità di interlocutori ‘spirituali’ nei colossi tecnologici della California. Si ridefinisce il concetto di successo: il valore delle persone non sta più nello status di leader”. Non ci si può meravigliare dunque anche di diversi altri fenomeni che appartengono alla stessa atmosfera.
Uno di questi è la riscoperta dell’umanesimo, giacché, come ha scritto Michele Ciliberto, “oggi stanno cadendo gli architravi del vecchio mondo … e il problema dell’uomo e del suo destino è ridiventato centrale per tutti”. Ed ecco allora che Einaudi pubblica una straordinaria antologia degli “Umanisti italiani” con un bellissimo saggio di Massimo Cacciari, nel quale si delinea un Umanesimo non più armonico e pacificante, ma al contrario dal sapore tragico e anti-dialettico, appunto senza che le polarità opposte possano conciliarsi. Un sapore che possiamo apprezzare particolarmente con il palato di oggi.
Un altro è la diffusione dei festival di filosofia, che stanno arrivando anche nelle località più periferiche. L’ultimo è “Ciclopica” di Amelia, una bella rassegna di tre giorni, alla quale ho avuto modo di partecipare nella sua giornata conclusiva di quest’anno, traendone la sensazione di un oceano di temi e suggestioni che rendono tra loro compatibili iniziative che possono sorgere anche in realtà tra loro geograficamente vicine.
Qui ad Orvieto si è così pensato, a seguito del successo della “Decade kantiana” (l’iniziativa per la celebrazione del trecentesimo anniversario della nascita di Immanuel Kant, partita tre anni fa in ambito UniTre con il coinvolgimento delle scuole superiori), di dar vita ad un festival intitolato non a caso “Orvieto a due voci” per affrontare i temi fondamentali del nostro tempo con il taglio del confronto dialogico e con la partecipazione al massimo livello possibile dei filosofi del nostro tempo e il coinvolgimento delle scuole superiori sia della città che di altre realtà. Il progetto è stato elaborato e presentato. I suoi sviluppi su diversi piani (culturale, educativo, imprenditoriale, turistico) se potesse partire in modo convincente, possono essere straordinariamente rilevanti.
Speriamo che i soggetti a cui ci siamo rivolti in questa fase di avvio ne siano convinti. Ne va anche della possibilità della creazione di occasioni di riflessione non occasionali per i nostri giovani. E le occasioni che stimolano la capacità di riflessione sono oggi forse il contributo più importante che possiamo offrire ai nostri giovani, sia in termini di libertà di pensiero e di responsabilità civica che in termini di possibilità di lavoro e di successo personale inteso come realizzazione di soddisfacenti progetti di vita.
L’opinione di Leoni
Mamma mia! Non avevano altro da fare i commissari ministeriali che stuzzicare, con la versione dal latino, i cervelli dei filosofi e degli studiosi di filosofia? Come se la può cavare un povero burocrate a riposo, chiamato a dire la sua? Non posso che chiedere aiuto al mio amato Alessandro Manzoni che definì la filosofia come “la scienza dei sottintesi”. Nel senso che siamo tutti filosofi, perché ogni essere umano, fino a quando fa la scelta di rimanere in questo mondo, imposta tale scelta sulla convinzione che è meglio vivere che morire. E da tale convinzione derivano i ragionamenti che la confermano e l’arricchiscono.
Almeno fino a quando non si abbatte su di noi una sciagura che non riusciamo a sopportare; e allora o ci si ammazza, come fecero Socrate, Seneca e tanti altri, oppure ci si fa ammazzare, come fecero Cicerone e tanti altri, oppure ci si lascia semplicemente morire, come tutti prima o poi saremo costretti a fare. “Non è ver che sia la morte | Il peggior di tutti i mali; | È un sollievo de’ mortali | Che son stanchi di soffrir” scrisse quel fine poeta che fu Pietro Metastasio. Ma, per i filosofi che si occupano scientificamente di filosofia, la definizione del Manzoni è riduttiva, perché la vera filosofia deve tendere a costruire un sistema dove tutto si tiene. E, nel mondo occidentale, fin dai tempi dell’antica Grecia, alcuni esseri umani dotati di efficienti cellule grigie, di salute, di tempo e di pazienza sono riusciti a costruire dei sistemi filosofici grandiosi, affascinanti e coerenti, che però hanno il difetto di essere destinati a esseri superati, dopo aver contribuito a rendere, se non più felice, almeno più ricca l’umanità.