La spia di una società malata: quando avanza l’ignoranza avanzano anche le pretese (e i danni) degli incompetenti
di Franco Raimondo Barbabella
Le vicende della vita mi hanno portato a contatto con tante persone, di diverso orientamento ideale, diversa condizione sociale, diversa professione, diversa sensibilità, e anche di diverso colore e diversa lingua. Alcune le ho conosciute abbastanza bene, altre appena, altre solo fugacemente, ma almeno nelle frequentazioni più ricorrenti e approfondite sempre mi è apparso chiaro se avevo di fronte una persona preparata o no, curiosa o no, disponibile o no, diciamo in generale intelligente o no, e anche approssimativamente in quale ipotetica gradazione.
E devo dire in generale che non ho mai provato fastidio per chi mi è apparso lontano dalla mia sensibilità culturale e tanto meno per i diversi da me per tutti gli altri aspetti. Ho provato fastidio solo per gli ignoranti che trasformano l’ignoranza in presunzione, per gli incompetenti che pretendono di capire e saper fare ciò di cui non sanno nulla. E si può dire che ho passato una vita a lottare contro costoro. Forse inutilmente. D’altronde a quanto pare in buona compagnia.
Tempo fa mi ha parecchio colpito infatti l’articolo di Thomas Nichols (professor of national security affairs at the U.S. Naval War College and an adjunct at the Harvard Extension School) pubblicato su Il Magazine de Il Sole 24 Ore il 17 febbraio scorso con lo stesso titolo del suo ultimo libro non ancora pubblicato in Italia, The Death of Expertise (La fine della competenza). Gli stessi argomenti sono stati poi trattati nell’intervista che lo stesso Nichols ha rilasciato a Marilisa Palumbo pubblicata su La lettura del Corriere della sera del successivo sabato 19 febbraio.
Alcune frasi tratte da questi due interventi consentono un sintetico assaggio del suo pensiero. La prima. “È il paradosso dei nostri tempi: l’accesso alla conoscenza non è mai stato così facile, ma la resistenza all’apprendimento non è mai stata tanto forte. Mi spaventa l’inconsapevolezza quando non addirittura l’orgoglio dell’ignoranza”. La seconda. “Le persone con scarse conoscenze, anche se molto ricche, hanno paura delle persone istruite. E sviluppano un’ostilità attiva al sapere”. Una terza. “Convinti di essere più informati degli esperti, di saperne molto di più dei professori e di essere molto più acuti della massa di creduloni, costoro sono gli “spiegatori” e sono entusiasti di illuminare noi e tutti gli altri su qualunque tema, dalla storia dell’imperialismo ai pericoli connessi ai vaccini”. Questi tipi li troviamo dappertutto, infestano giornali e tv, imperversano soprattutto sui social.
Trasportato tutto ciò sul piano politico, la conseguenza è che “gli elettori sono così insicuri e narcisi che invece di eleggere qualcuno che li spinga a migliorarsi vogliono sul palcoscenico pubblico gente che sia al loro livello. I politici a loro volta non cercano più i loro consiglieri tra i migliori in accademia o nel privato, ma li scelgono per lealtà. È un meccanismo pericoloso …”. Ma “i politici non sono lì per fare automaticamente qualunque cosa chiediamo loro, devono esercitare il loro giudizio, operare una mediazione. L’uguaglianza politica non è uguaglianza reale: godiamo degli stessi diritti ma non significa che abbiamo gli stessi talenti e le stesse conoscenze”. Non c’è da commentare molto, tutto è così evidente! Ovvio, l’ostilità attiva al sapere diffusa nella società fa il paio con il degrado della vita pubblica.
Naturalmente l’ostilità di massa contro chi è sapiente (nel senso che sa ed è competente, in generale e/o in qualche settore) ed è anche riconosciuto come tale è cosa antica, basti pensare ad Atene e alla vicenda di Socrate. In democrazia poi la messa in discussione del sapere consolidato, la sfiducia nell’autorità intellettuale, può essere indice di salute del sistema. E qui viene in mente naturalmente la descrizione che già nel 1835 Alexis de Tocqueville faceva dell’atteggiamento mentale del cittadino americano in “La democrazia in America”: “Nella gran parte delle operazioni della mente ogni americano fa esclusivamente appello allo sforzo individuale della propria comprensione”: nessuna autorità può rendersi indiscutibile e intoccabile (sennò si cade o nel diritto divino dei re o nel potere di un dittatore) e nessun sapere può trasformarsi in atto di fede (scienza e religione non sono piani sovrapposti). Questa è la democrazia, questa è la libertà moderna!
Ma quando la fiducia in se stessi non è fondata se non sulla spregiudicatezza e sulla presunzione, quando l’ignoranza diventa motivo di vanto e di successo, quando le funzioni pubbliche vengono affidate per fedeltà e non per capacità, quando il potere diventa appannaggio degli incompetenti, allora si apre la via proprio al tradimento della democrazia e della libertà moderna. Anzi, è spianata la strada verso la decadenza, e alla fine verso il vero e proprio sfascio di tutto ciò che distingue la civiltà dal suo contrario.
Io credo che questa analisi critica così radicale non sia né un lamento di intellettuali scontenti né una minaccia di visionari impossibile a realizzarsi. Credo invece che da alcuni decenni, passo dopo passo, il processo attraverso cui l’incompetenza è venuta occupando gangli vitali e comunque sta connotando il clima della vita collettiva delle nostre società cosiddette avanzate è ormai in pieno svolgimento. Basta guardarsi un po’ intorno e ne troveremo segni probanti a tutti i livelli. Non tutto è perduto, ma il processo avanza e si consolida.
Si possono capire gli interessi incrociati e la prudenza, ma non si può ammettere come normale la pigrizia mentale che diventa acquiescenza protratta fino all’indifferenza, un atteggiamento che definire irresponsabile è davvero troppo poco. Perché lasciare campo libero all’incompetenza è tradire sia i sacrifici delle generazioni che ci hanno preceduti sia il diritto al migliore futuro possibile dei nostri figli.
Io non me la sento di far finta di niente. Perciò sento di dovere ricordare che, se le cose non cambieranno, l’esercito degli ignoranti crescerà e con esso il clima di prepotenza e il degrado della vita collettiva. Bisognerà reagire con decisione e in modo organizzato. Intanto però facciamo nostre le parole di Tom Nichols, il minimo sindacale della responsabilità civica: The University of Google doesn’t count. Remember: having a strong opinion about something isn’t the same as knowing something (L’Università di Google non conta. Ricorda: avere un’opinione convinta su qualcosa non è lo stesso di sapere qualcosa).
L’opinione dei Leoni
Le malattie della nostra società c’inquietano e la prospettiva di un loro possibile aggravamento ci angoscia. Così rischiamo di dimenticare il passato e di non riuscire più a fare i relativi paragoni. Allora, limitandoci alla nostra Italia, è forse bene riflettere che, fino alla scorsa generazione, vivevamo in un Paese molto meno sicuro. Gli omicidi erano molto più numerosi e le mattanze in Sicilia e in Calabria erano dieci volte più tragiche. Oggi solo la Campania riesce a tenere il passo. Rischiamo di dimenticare che masse di italiani emigravano per sottrarsi alla povertà, mentre oggi se ne vanno soprattutto giovani istruiti in cerca di positive avventure lavorative. Rischiamo di dimenticare che la corruzione che oggi tanto ci scandalizza era profondamente radicata e tutelata da frequentissime amnistie. Quanto alle classi dirigenti di alcune decine di anni fa, la loro qualità è raccontata dalle periferie dei grandi e piccoli centri, dallo scempio delle coste marine, dal dissesto idrogeologico, dall’ILVA di Taranto e via dicendo. Per non parlare dell’enorme debito pubblico che sta frenando lo sviluppo e vanificando ogni speranza di una imminente ripresa. Che l’Italia condivida con l’Occidente la scempiaggine odierna segnalata da Franco è fuor di dubbio; ma penso che sia bene riconoscere che viviamo meno peggio di qualche decennio fa e che viviamo più a lungo, con molto più tempo a diposizione per lamentarci.
Un vizio sempre più di moda: il gioco d’azzardo
di Pier Luigi Leoni
Il caso di una bambina di 9 anni ricoverata in ospedale a Varese per malnutrizione dovuta al vizio del gioco d’azzardo dei genitori ha destato un certo interesse, ma non ha sorpreso nessuno. Non solo i giocatori sono vittime del loro vizio, ma anche le loro famiglie, soprattutto i bambini. E non si tratta solo di indigenza provocata da questo diffusissimo vizio, ma anche di una specie di imprinting che subiscono i bambini quando assistono al gioco dei genitori o quando, come figli di gestori di sale da gioco, si abituano all’idea che quello dei genitori sia un bel mestiere. Non è facile tutelare questi bambini perché possono essere sottratti alle potestà genitoriali solo quando siano maltrattati o abbandonati, ma alla loro contaminazione da parte del vizio del gioco non c’è praticamente rimedio. Orbene, quella del gioco d’azzardo è una piaga dell’umanità da cui sono stati e sono tuttora affetti anche personaggi di grande sensibilità umana e di alto valore artistico. Gli Stati, consapevoli che è inutile tentare di sradicare questo vizio, cercano di arginare il suo dilagare nella clandestinità, legalizzandolo e regolamentandolo. Ma anche ricavandoci notevoli entrate. Gli abbienti vengono incanalati nei casinò, mentre al popolino sono riservate una miriade di slot machine in sale da gioco annesse o meno a pubblici esercizi. E poi c’è tutto l’ambaradàn dei gratta e vinci, del lotto, delle lotterie e via dicendo. Un mare magnum che dimostra la fragilità dell’umanità di fronte alle infinite tentazioni e dipendenze. L’importante è non arrendersi e cercare di salvare il salvabile: un lavoro immane per i genitori, per la scuola, per le istituzioni, per il volontariato e per le chiese. Un lavoro da sostenere con l’informazione e con l’osservazione critica di ciò che avviene ogni giorno sotto i nostri occhi.
L’opinione di Barbabella
Quello della ludopatia e delle sue conseguenze personali e familiari è davvero un grave problema, e non passa giorno che non si abbia notizia di qualche episodio più o meno eclatante che ne dà testimonianza. Non ho granché da aggiungere a quanto afferma Pier Luigi. Mi sembra opportuno solo sottolineare che, mentre ancora in epoca non lontanissima la condanna sociale colpiva pesantemente chi aveva il vizio del gioco e/o quello del bere, da qualche tempo di questi fenomeni non si ha né vergogna né si danno segni di netta svalutazione, fino a che qualcuno vicino non ci casca. Allora scatta un sentimento di commiserazione che si traduce magari anche in aiuto, ma essendo atteggiamento episodico non determina cambiamenti nel sistema valoriale. Io credo che il gioco d’azzardo sia una delle manifestazioni più chiare di quanto incida la debolezza psicologica nella difficoltà personale a reggere l’impatto dei momenti di crisi. Per cui sarebbe molto importante sviluppare sistemi di prevenzione e di assistenza, e non lasciare sole le famiglie e le scuole, né affidarsi solo alla generosità del volontariato.