Che fatica, per i cattolici, sopportare il linguaggio grillino!
di Pier Lugi Leoni
Il Movimento 5 Stelle, vivace rampollo del connubio fra il palcoscenico e l’informatica, si sta gonfiando come un lago artificiale a monte di una diga che però non ha intenzione di crollare. Ancora resistono le tre grandi culture politiche che si scontrano e s’incontrano da oltre un secolo e mezzo nella società italiana: la cattolica, la liberale e la socialista. Dell’incontro tra la cultura cattolica e quella liberale ricordiamo l’ormai mitico periodo degasperiano; dell’incontro tra cattolicesimo e socialismo ricordiamo, oltre alle splendide, profetiche e troppo avanzate esperienze ideate a promosse da Adriano Olivetti e don Lorenzo Milani, l’esperienza del centro-sinistra, che ha tenuto in piedi l’Italia democratica nel periodo di massimo sviluppo economico e ha sconfitto il colpo di coda del marxismo rivoluzionario. Poi tutto s’è ingarbugliato, ma le tre culture hanno, bene o male, gestito l’impatto con la mondializzazione dei mercati. Ebbene, non avendo alcuna voglia e intenzione di rinnegare la mia appartenenza alla cultura cattolica, che determina anche una certa sensibilità, mi hanno colpito le osservazioni del prof. Marco Olivetti su “Avvenire” del 26 aprile. Il professore osserva che stride con la sensibilità cattolica la polemica antieuropea del M5S.
Infatti “le istituzioni europee sono il frutto anche della scelta di tre grandi leader democristiani del dopoguerra: la triade composta da Adenauer, De Gasperi e Schuman.” Inoltre stride con la sensibilità cattolica l’obiettivo del M5S “di eliminare due cardini della democrazia contemporanea: la rappresentanza politica e i partiti”. Ma ciò che più stride è il linguaggio dei grillini: irridente, sarcastico, demolitorio, carico di risentimento, frustrazione e livore. “Ora, premesso che la politica è fatta anche di queste cose, e che nessuno ne è del tutto immune, cosa c’è di più lontano dalla cultura politica dei cattolici italiani di un linguaggio e di un universo morale basati sul risentimento e sulla frustrazione sociale?” Chi è abituato, aggiungo io, allo stile di De Gasperi, Moro, Fanfani, Rumor, Andreotti e Zaccagnini come fa a digerire l’eloquio di Grillo e dei suoi allievi Di Battista, Taverna e Di Maio?
L’opinione di Barbabella
Io non credo che siano agri solo per i cattolici gli argomenti e il linguaggio dei dirigenti pentastellati, in particolare quelli grillini. Tutte e tre le culture politiche fondamentali della storia repubblicana dell’Italia sono oggi messe sotto accusa come se ad esse dovessero essere imputati solo danni, malefatte e fallimenti. È vero il contrario: limiti, errori, ritardi, e se si vuole tutti i vizi delle umane genti, sì, ma insieme a risultati innegabili su diversi fronti, dalla salvaguardia delle istituzioni democratiche allo sviluppo economico e civile e agli sforzi di modernizzazione.
Il fatto è che loro sembrano convinti che il Paese, governato da sempre da una manica di mascalzoni, è allo sfascio, in un mondo dominato da sanguisughe e in un’Europa organizzata per tartassare i popoli. Non è che non ci siano ragioni per pensare tutte queste cose, ma si tratta, ammesso che sia un pensiero autentico, di una convinzione manichea che allontana il movimento dalle visioni immaginifiche del primo Gianroberto Casaleggio (quello strampalato ma in qualche modo irrazionalmente affascinante di GAIA) e lo avvicina ai settori sfascisti che si agitano da diverse parti e in molti luoghi.
Questo atteggiamento contrasta, lo ripeto, con tutte le culture democratiche della tradizione politica italiana, non solo con quella cattolica. E tutto dice però che c’è un aggancio, oltre che con il classico manicheismo, con quel filone della cultura cattolica che nei secoli ha predicato la salvezza estirpando le radici del male. Insomma, si intravede uno sfondo similreligioso su cui si innesta un interesse molto terreno e spregiudicato ad agganciare un’esasperazione diffusa per problemi reali e gravi facendo balenare soluzioni certe, rapide e definitive. Da questo punto di vista i pentastellati non fanno altro che continuare la tradizione delle false rivoluzioni che il nostro Paese ha conosciuto nel Novecento, roba vecchia che però, con operazioni abili da società di massa e da epoca mediatica, ancora rende bene. Unico avvertimento: nell’epoca di Internet i rovesciamenti di orientamento sono sempre più rapidi, per cui conviene poco affannarsi a rincorrerli.
Non ci si può stupire dunque che ne derivi sia un attacco frontale alla democrazia rappresentativa che ai partiti organizzati (che, bisogna ammetterlo, hanno fatto del tutto, soprattutto alcuni, per renderlo possibile). Tanto meno può apparire strano che il loro linguaggio sia aggressivo, o anche volgare e violento. Anche per questo verso, infatti, continuano anche loro la lunga e radicata tradizione delle contrapposizioni frontali che ha infestato la vita pubblica sia a livello nazionale che a livello locale di questo nostro Paese, felice e infelice allo stesso tempo.
Penso si possa sostenere anche l’altra semplice verità che in settant’anni di vita repubblicana non si è riusciti, nonostante l’ispirazione e la lettera di una Costituzione tra le più avanzate del mondo, ad improntare lo spirito pubblico e la pratica politica ad un autentico pluralismo. Di fatto, ciò che davvero sembrano aborrire i dirigenti pentastellati è proprio il pluralismo, sia all’interno che nelle relazioni con gli altri soggetti politici.
Com’è ormai oscuro solo a chi non vuol vedere, la democrazia diretta referendaria mediatizzata è esattamente il contrario di ciò che dichiara di voler essere, per diversi motivi, ma in primo luogo per la ragione essenziale che non richiede informazione, riflessione, confronto aperto e consapevolezza, con possibilità di rovesciare i punti di vista. Infatti, sia nel proporre i temi, sia nel dare il via alle iniziative, sia nel prendere le decisioni finali, sia nel dire ciò che è giusto e ciò che non lo è, sia nella scelta di chi rappresenta il movimento nelle diverse istanze, sceglie solo un gruppo ristrettissimo e in realtà poi solo il capo, senza il cui assenso “non si muove foglia che dio non voglia”.
Ci dovrà essere qualcosa di serio perché questo degrado generale possa essere fermato. Non inseguimento ridicolo degli atteggiamenti di chi oggi appare e si sente sulla cresta dell’onda, ma una più efficace capacità di interpretare il mondo e una spiccata capacità di interpretare i bisogni e di governare e risolvere i problemi senza chiacchiere e infingimenti. Roba difficile, ma ciò che deve essere fatto se si vuole ragionare non solo sull’oggi ma su un domani che si prepara oggi.
Il sistema di delegittimazione è un pericolo per tutti
di Franco Raimondo Barbabella
Chi volesse documentarsi sulle secolari attività di manipolazione della memoria e in particolare sull’uso politico dell’analisi storica in Italia può leggere il bel libro di Paolo Mieli pubblicato due anni fa con il titolo “L’arma della memoria. Contro la reinvenzione del passato”. Una costante, la reinvenzione del passato, nient’affatto innocua, giacché la deformazione della memoria produce deformazioni nel presente: vale sempre il principio che chi non fa i conti con il passato se lo ritrova indigerito tra i piedi. Tra i tanti esempi, basti citare il modo in cui sono state a lungo spiegate le origini del fascismo, che ha pesato non poco sui settant’anni di storia repubblicana.
Di questa pratica di manipolazione fa parte integrante l’attività finalizzata a condizionare e orientare le coscienze da quando si è affermata nel Novecento la società di massa con le relative tecniche di comunicazione. Si tratta di quello che Galli della Loggia ha definito “il grande sistema di delegittimazione italiana novecentesca”.
Cominciò il fascismo, che presentò se stesso come una rivoluzione, una rottura con tutto ciò che era e rappresentava la società liberale. Come logica conseguenza, i suoi intellettuali e i suoi rappresentanti politici diffusero l’idea che gli altri non erano né portatori di valori né degni di rispetto. Ne derivarono la “manipolazione dell’identità morale e politica” dei non fascisti, la delegittimazione e la persecuzione che sappiamo. Non esistevano avversari, ma solo nemici da combattere e da annientare.
Il sistema di manipolazione e di delegittimazione fu adottato però anche dall’antifascismo, soprattutto nel lungo periodo in cui questo fu sostanzialmente egemonizzato dal partito comunista. Al rango di nemici non furono elevati solo gli eredi del fascismo ma tutti coloro che rappresentavano gli altri da sé, in particolare i socialisti e più in generale i liberaldemocratici. Così, mentre gli eredi del fascismo delegittimavano la sinistra, i comunisti e qualche compagno di strada delegittimavano chi non era dei loro, a destra (tutti fascisti) e a sinistra (traditori socialfascisti o voltagabbana). Insomma, esistevano solo due categorie possibili, o omologati o traditori.
Il risultato è che il sistema di denigrazione e delegittimazione si è consolidato ed è diventato nel tempo un sistema “normale”, a tal punto che manipolare la verità è diventata una delle tante pratiche alla portata di tutti. Ciò che ha reso “democratico-popolare” questa attività è stata ovviamente la diffusione delle tecnologie informatiche e dei social. Ma il retroterra storico c’era già ed era quello che ho detto. Così, a fianco di un sistema privato anch’esso collaudato dove più dove meno, continua indisturbato e si aggrava, usando modalità più raffinate ed efficaci, il sistema pubblico di delegittimazione organizzata dell’avversario politico.
Ieri si sono esercitati in questo prevalentemente ambienti della sinistra, con alcune varianti a seconda che “i diavoli” fossero individuati a turno in Craxi, Andreotti o Berlusconi. Oggi vi si esercitano in diversi: i pentastellati contro tutti, i piddini contro se stessi (preferibilmente contro Renzi), i salviniani contro chiunque osi dire Europa o migranti, ecc. ecc. Ed è tutto un fiorire di nemici da delegittimare. Ragionamenti? Quando mai! Dialoghi costruttivi? Dio ce ne guardi! Rispetto della verità anche quando è palese? Non scherziamo! Rispetto dell’avversario? Termini sconosciuti. Se è consentito, senza dover essere accusati di esterofilia, possiamo dire che Macron per come si rapporta agli avversari rappresenta una sferzata di civiltà? Almeno in questo cerchiamo di non farci umiliare dai nostri cugini d’oltralpe!
L’opinione di Leoni
Col termine “manicheismo” si designa una setta religiosa dei primi secoli dell’era cristiana; ma anche l’atteggiamento di chi non sa rassegnarsi alla contraddittorietà della realtà che conosciamo. Siamo un po’ tutti intrisi di manicheismo e, per non rinunciare a capire il senso del male, lo attribuiamo a una volontà malvagia, divina o umana, individuale o collettiva.
Gli odi fra persone, famiglie, partiti, culture e nazioni nascono da un atteggiamento manicheo. Non sempre esso trova sfogo nella violenza, perché l’istinto di conservazione individuale e della specie può ritualizzarlo in polemiche nei bar, scontri sportivi, talk show televisivi, dibattiti parlamentari ecc.
In Italia abbiamo ridotto, almeno per il momento, lo sfogo violento del manicheismo a qualche incidente di piazza, ma la violenza delle parole imperversa. Tanto di cappello ad analisi raffinate come quelle di Paolo Mieli, che possiede un’abilità particolare nel dare dignità storiografica alla scoperta dell’acqua calda, ma la natura umana continua ad annaspare nel tentativo d’imitare il Creatore; cioè di riprodurre l’evidente, incombente, provocatoria armonia dell’universo in realtà infime come la famiglia, la città, la nazione, l’umanità.