di Mario Tiberi
Nel procedere lungo la via della comprensione massima possibile dei fenomeni culturali posti alla base delle odierne strutture politiche e sociali, si insinua in me la lievitante convinzione che l’esercizio del pensiero politico, se decade nelle meschine schermaglie delle contrapposizioni ideologiche e della gestione atrofica del potere, rischia di tramutarsi in incubo ossessivo e, come tale, paralizzatore delle idee e delle visioni di prospettiva.
Ecco perché vorrei sottoporre, alla cortese attenzione degli amanti della lettura, una succinta teorizzazione sul profilo del pensatore moderno, filosofo e filologo al tempo stesso, custode dell’antica saggezza greca e originale costruttore di innovativi modelli rivoluzionari, esteta delle sensazioni e delle percezioni infinitesimali, propedeuta all’approccio delle relazioni umane avendo a cardini l’etica, quale bussola di orientamento, e la politica quale ago magnetico.
Le società contemporanee non brillano e, anzi, regrediscono a ragione del fatto che a degli incolti mediocri sono stati consegnati gli scettri dell’imperio su di esse e, in democrazia, al popolo che ha svenduto la sua sovranità non resta che recitare un doloroso atto di contrizione.
Dopotutto, non si tratta che di ciò: non tanto di contrastare e combattere la inadeguatezza degli immeritevoli, tentativo inutilmente filantropico, quanto di edificare una realtà socio-politica che impedisca loro di recare detrimento a se medesima. Se, infatti, potessimo misurare e rapportare l’attuale fase congiunturale con il miglior pensiero filosofico degli ultimi decenni, l’effetto finale sarebbe insieme straziante e comico.
La politica dell’oggi, screditata e delegittimata, tenta disperatamente di rianimarsi attraverso presenze dialogiche decrepite e, in fin dei conti, corroboranti solo per coloro che non possiedono più il senso della decenza e della dignità umana.
A costoro mi sentirei di replicare, innanzitutto, non rispondendo alle loro insulsaggini o, al massimo, invitandoli all’ascolto di Beethoven perché, udendo e gustando le sue magiche sinfonie, la meschinità viene spazzata via, il petto e l’orecchio rapiti si gonfiano di così vibranti sentimenti che la vita pur grama, proprio nella sua veemenza sconvolgente e nella sua terribilità, vale comunque la pena di essere vissuta compiutamente.
Non è necessario possedere spiccate qualità di raffinati cultori per comprendere che i suoni di Beethoven non provengono solamente dal suo immenso talento, ma da una dimensione che si trova al di là delle singole individualità e, cioè, dalla madre naturale di tutti gli esseri viventi.
Se si medita in profondità l’osservazione che precede si dovrà, anche se solo per un attimo, accantonare il filosofo e lasciare spazio al filologo. Il filologo è, infatti, colui che risale il più possibile alla dimensione inesprimibile della essenza vitale in quanto è un “grande amante” che, mentre osserva i bambini che camminano, sa scorgere attraverso il modo con cui essi muovono i loro primi passi, ancora incerti, l’individualità e la personalità negli stessi latente e come si svilupperà nel futuro, prossimo o più lontano che sia.
La filologia, dunque, come strada mistica e, se volete, estrema verso l’origine del tutto, prima che il tutto nelle sue forme individualizzate inizi a prendere forma. Se ciò ha una valenza di pensiero universale, bisognerà allora convincersi che le epoche storicizzate non esistono se non come superstiziose morfologie o generalizzazioni sociologiche e che, forse, a questo mondo non ci sono due che possono dirsi contemporanei.
Ora, dopo tali premesse, si potrà valutare appieno il bisogno ineliminabile di una rivisitazione della sapienza greca, platonica e aristotelica in particolare, del pensiero indagatore di se stesso, della ricerca dell’antico non come necessità strettamente filosofica, ma anche e soprattutto come tentativo di sfuggire alla cretineria dei tempi moderni.
Il filologo, del resto, si rivolge al sistema “Cultura” per soddisfare il suo insopprimibile desiderio di amicizie, rimasto inappagato dalla mediocrità del quotidiano.