di Franco Raimondo Barbabella
Il 2 giugno 2016 “Finanza & Mercati” de “Il Sole 24 Ore” riportava i dati dell’associazione mondiale del trasporto aereo IATA con questo titolo: “Anno di profitti record per le compagnie aeree: 39,4 miliardi di dollari di utili netti. Alitalia in rosso. Ball: «Bisogna agire velocemente»”. Ci si riferiva alle previsioni per il 2016, ma già il 2015 si era chiuso per il trasporto aereo mondiale con un attivo complessivo di ben 35,3 miliardi di dollari, in sensibile aumento rispetto ai 33,0 miliardi previsti nel dicembre precedente.
Risultati notevoli dovuti in generale soprattutto a due fattori: il sensibile abbassamento del prezzo del carburante e la crescita del numero dei viaggiatori. Poi naturalmente i risultati sono stati differenti per le diverse compagnie in ragione di altri fattori a partire dalla capacità del management di fare innovazione e garantire insieme efficienza, sicurezza e costi accettabili. Le compagnie migliori quelle americane, e a seguire quelle asiatiche ed alcune europee (il gruppo Iag e Lufthansa, Ryanair e EasyJet).
È incredibile, ma in questo contesto Alitalia ha continuato ad avere i conti in rosso, pesantemente in rosso. Il presidente Montezemolo il successivo 6 luglio dichiarava: “Alitalia perde 500 mila euro al giorno ma il nostro obiettivo è arrivare al pareggio nel 2017”. E di rincalzo l’a.d. australiano Cramer Ball aggiungeva che Alitalia è “concentrata sui costi, sui ricavi, sugli introiti ma la compagnia ha bisogno soprattutto di investimenti …; quest’anno intendiamo investire 400 milioni di euro …”. A distanza di pochi mesi si sa come sta finendo: faticoso accordo per la ricapitalizzazione in cambio di riduzione drastica dei costi e nuovo piano aziendale; referendum sindacale e voto contrario dei dipendenti; ipotesi di commissariamento, fase transitoria e liquidazione. Non credo che basti dire che si tratta di uno scandalo e non ci si può limitare a battute moralistiche all’italiana.
La vicenda Alitalia ci insegna infatti molte cose. Ad esempio che i manager, che siano pubblici o privati, non rispondono mai dei propri errori o delle loro conclamate incapacità, anzi, prendono una barca di soldi anche quando falliscono; che chi ha condizioni vantaggiose le difende ad ogni costo, anche a rischio del fallimento dell’azienda e della perdita del lavoro perché sa che in Italia il ricatto sul potere pubblico è sempre possibile; che nessuno è mai responsabile di qualcosa e che, appunto, alla fine paga sempre Pantalone. D’altronde una storia di decenni dice che la sequenza degli avvenimenti è stata sempre questa: gestione allegra, conti in rosso, pericolo di fallimento, intervento pubblico naturalmente con affermazione roboante che sarà l’ultimo, e poi daccapo con la stessa sequenza, fino ad oggi. Una storia che vuol dire (ministro Calenda) ben sette miliardi e quattrocento milioni di euro a carico dello stato, cioè di tutti noi.
Ma chi sono i tutti noi? Si certo, un po’ tutti, ma non proprio tutti. Si tratta di tutti coloro che pagano le tasse, in particolare dipendenti, salariati e pensionati, coloro che non evadono per la semplice ragione che non possono evadere e coloro che in tutti gli altri mestieri si guadagnano comunque onestamente da vivere. Allora tutti costoro oggi hanno il sacrosanto diritto, direi il dovere, di gridare no a qualsiasi ipotesi di intervento finanziario pubblico. Si faccia ogni sforzo per mantenere nei limiti del possibile i posti di lavoro, ma ci si misuri finalmente con le logiche di mercato. Il punto non è di chi è la compagnia, ma che il servizio funzioni. Comunque non ci si permetta più di caricare sui cittadini costi impropri, ingiustificati, del tutto arbitrari. E per favore senza referendum. Perché si può governare anche con il semplice buonsenso.