di Mario Tiberi
Quando nella mia prima gioventù mi aggiravo, con la cinghia che serrava compatti i libri di scuola tenuti sottobraccio, per le vie e le piazze della Orvieto della rinascita morale e materiale, dopo le disastrose vicende del ventennio fascista e di quelle belliche, mi sembrava di essere il ragazzo meglio baciato dalla dea bendata per una serie quasi infinita di ottime ragioni.
La gioia della vita serena e impegnata stendeva la sua mano benevola e benefica su ogni atto, su ogni passo del mio vivere quotidiano. Il futuro non ingenerava ansia e spavento anzi, al contrario, non si attendeva altro che bussasse alle nostre porte e si manifestasse. Anche ciò contribuiva a fornirmi il senso di vissuta e convita appartenenza a un popolo, quello Orvietano.
Sono stati i tempi dell’entusiasmo individuale e del dinamismo collettivo; la partecipazione agli eventi pubblici, sia politici che culturali, raggiunse vette così elevate tali da coinvolgere ogni strato cittadino e ogni fascia sociale; il fervore del “fare impresa produttiva” fu talmente contagioso da risvegliare sopite capacità e, di conseguenza, l’emergere di una miriade di iniziative artigiane e commerciali generò nuovo benessere e nuova ricchezza. A codesta effervescente epoca, l’era della fede e della fiducia nel credere senza la prova di conferma, ne è seguita un’altra, meno coinvolgente e più deludente, e che non è sacrilegio poter definire come l’epoca della gente divenuta tutta dei novelli “San Tommaso in miniatura”.
Per credere non bastava più la parola data; era necessario toccare con mano tutto ciò che sembrava sfuggirci e che non era contenuto all’interno del ristretto cerchio della nostra comprensione e delle nostre limitate conoscenze. Iniziarono, così, a serpeggiare le prime diffidenze e i primi sospetti, idonei ad incrinare la saldezza delle relazioni umane e dei rapporti interpersonali: l’altro non veniva più visto come un solidale e leale alleato, bensì come un potenziale ed ostile avversario da temere e contrastare.
Lo sgretolarsi, lento e inesorabile, della unitarietà d’intenti di una comunità societaria aveva avuto principio. Nell’attualità dell’oggi, un ulteriore peggioramento è doveroso segnalare: dal “se non tocco con mano, non credo” si è passati a quella che non è azzardato inquadrare come la “sindrome del simonidismo”. Simonide, tra mito e leggenda e tra i più tristemente famosi e perversi fattucchieri dell’antichità, è stato a ragione additato come uno dei primi e più fanatici eretici nella storia, reale o presunta, dell’Umanità. Non tanto perché eretico rispetto ad una ortodossia, ma perché eretico relativamente alle sue stesse eresie.
Mi spiego meglio: nell’ossessione della sfrenata ricerca di continue e permanenti abiure delle sue dottrine, non appena perveniva a formularne una immediatamente la rinnegava per, poi, approdarne ad un’altra opposta e contraria alla precedente e, così, fino alla fine dei suoi giorni. A me pare che, seppur in forme contenute, la sindrome del simonidismo qualche tossina acida l’abbia iniettata nelle arterie della odierna società orvietana. Altrimenti come spiegare la sfiducia dilagante, l’estraniarsi dalla vita pubblica, il criticare becero e lumacone, il rimettere costantemente in discussione anche i più angusti approdi, la permalosità diffusa e inibente la schiettezza delle relazioni sociali, la testardaggine nel non concedere o ricevere ascolto, la superbia di una infondata superiorità, l’ignavia della pigrizia accidiosa e, infine e peggiore di tutti, il cinismo del popolo minuto, eterodistruttivo e suicida al contempo?
Formazioni sporadiche di comitati spontanei, occasionalmente costituiti in sembianza corporativa, si manifestano solo allorquando si concretizza un provvedimento lesivo per il portafoglio del cittadino: ci si unisce nelle proteste, pur giuste e legittime, terminate le quali si assiste ad un malinconico e mesto ritorno nel proprio infertile privato; si è, invece e purtroppo, profondamente divisi e indifferenti nelle proposte che, se intelligentemente elaborate, dovrebbero possedere in sé la forza e l’energia sufficienti per meglio qualificare in positivo la presenza popolare nell’arena della vita comunitaria.
E i pubblici poteri, i partiti, la politica in genere, in quale dimensione organica pensano di collocarsi?
Spesso, troppo spesso, tendono a baloccarsi in interminabili dispute e controversie senza fondamento e costrutto, quando la principale finalità del loro agire dovrebbe, all’opposto, essere indirizzata alla ricomposizione di un unitario tessuto societario, oggi frantumato e colpevolmente disgregato. Il raggiungimento di una meta così ambiziosa, essenziale però per un estremo tentativo di salvataggio della nostra identità municipale, non sarà possibile fino a quando i responsabili della politica cittadina rimarranno arroccati e rinchiusi, quasi prigionieri di se stessi, nelle torri ottonate della loro beata, quanto settaria, incoscienza e spensieratezza.
Se non si invertirà subito la tendenza, se non si otterrà subito un radicale cambiamento di mentalità, non sarà solo inutile, ma del tutto impossibile, riconsegnare Orvieto agli Orvietani perché, nel frattempo, gli Orvietani non ci saranno più!