Il segreto del successo della democrazia rappresentativa
di Pier Luigi Leoni
C’è un aforisma di Karl Kraus (1874-1936) che illumina una realtà che tutti conosciamo, ma che non è politicamente corretto riconoscere: «Il potere dell’agitatore è di rendersi stupido quanto i suoi ascoltatori, in modo che questi credano di essere intelligenti come lui.» L’agitatore, che oggi vien chiamato populista, cerca di tenere sotto scacco la classe politica, accusandola di curare i propri interessi invece di quelli del popolo che l’ha eletta. Il senso è che il popolo verrebbe turlupinato. Si tratterebbe allora di informarlo, in modo che si decida a sostituire la classe politica corrotta con una nuova classe politica scelta con strumenti di democrazia diretta, nel presupposto che l’elettore sia in grado di esprimere, cliccando, chissà quale forma di intelligenza e di moralità. In effetti, anche se non si potrebbe dire, perché la democrazia vive anche di indispensabili ipocrisie, la classe politica al potere non è più stupida e immorale del popolo che l’ha eletta. Per esempio, il livello di istruzione scolastica dei parlamentari è, mediamente, di gran lunga superiore a quello dei cittadini elettori. Nessuno avrebbe il coraggio di sottoporre i parlamentari al test per il quoziente di intelligenza, perché ne risulterebbero umiliati i comuni cittadini. E, quanto all’etica, non è che il popolo italiano sia un esempio di moralità pubblica e privata. Certo, c’è molta gente che è convinta della propria specchiata onestà, che non si fa raccomandare per passare avanti agli altri nelle prestazioni ospedaliere o per superare gli esami scolastici o per vincere un concorso pubblico; che non intrallazza per vincere una gara d’appalto; che non copia la tesi di laurea o non scopiazza negli esami scritti; che esige sempre la fattura dal professionista e la ricevuta dal commerciante; che denuncia i ricatti mafiosi e le vessazioni degli usurai; che paga le imposte fino all’ultimo centesimo; che non si droga e non si ubriaca; che non parcheggia in doppia fila; che non gioca d’azzardo; che rispetta le donne; che divide il pane coi poveri eccetera. Ma c’è molta più gente che si comporta peggio dei politici al potere. Ebbene, il fatto, molto complicato da spiegare, che la classe politica sia sempre mediamente a un livello superiore, per intelligenza e moralità, della media del corpo elettorale giustifica il successo e l’insostituibilità della democrazia rappresentativa.
Non c’è da aggiungere molto a quello che dice qui Pier Luigi. Abramo Lincoln nel 1863 concluse il Discorso di Gettysburg con queste parole: “che l’idea di un governo del popolo, dal popolo, per il popolo, non abbia a perire dalla terra”. Si riferiva appunto alla democrazia rappresentativa, che si fonda sul potere di delega che il popolo esercita attraverso libere elezioni. Un sistema certamente imperfetto, ma altrettanto certamente il migliore finora inventato.
La classe dirigente con esso espressa non può non rispecchiare la formazione, gli interessi, i valori o i disvalori, gli orientamenti, le speranze e la paure del popolo. Normalmente si eleva al di sopra della media, ma se non è così è comunque espressione legittima del popolo e perciò legittimata a prendere le decisioni secondo le regole stabilite. Le malefatte sono possibili e ne abbiamo contezza. Gli errori sono inevitabili e se ne possono elencare tanti. Ma il sistema consente aggiustamenti e cambiamenti.
Che esista un modo per designare una classe dirigente perfetta è solo un inganno. Anzi, è un grave pericolo: guai a credere che possa esistere una classe di perfetti, sarebbero dittatori feroci. Il massimo teorico della democrazia diretta, Rousseau, non solo disprezzava il popolo ma era il primo a ritenere impossibile la realizzazione di questa forma di governo se non in piccole comunità. E Ginevra, che aveva sperimentato la forma di democrazia diretta calvinista, si era accorta a sue spese di quanto quella forma di governo potesse essere lontana dal rispetto delle più elementari libertà.
Chi oggi afferma che gli stati contemporanei, così articolati e complessi, possono essere governati meglio e più democraticamente con forme di democrazia diretta perché lo consentono le tecnologie informatiche sa di turlupinare il popolo non una ma due volte: una perché le democrazie moderne sono troppo complesse per non richiedere un sistema molto sofisticato di intermediazione interna ed esterna, e un’altra perché dietro la facciata del governo diretto ci sarebbe inevitabilmente qualcuno che pilota le decisioni e cioè alla fine decide per tutti. Ne abbiamo già evidenti certezze in quello che accade oggi ad opera di chi predica la democrazia diretta. Perché dovremmo farci ingannare addirittura con il nostro consenso?
Che cosa ci insegna Omero con il soldato Tersite
di Franco Raimondo Barbabella
Michel Houellebeck, lo scrittore francese noto anche in Italia per i suoi romanzi, ultimo dei quali tradotto con il titolo Sottomissione, in una recente intervista sul Corriere della sera ha sostenuto di essere un convinto populista e di preferire la democrazia diretta con la conseguente inutilità del Parlamento, che sarebbe pertanto da abolire. Gli ha risposto Ezio Mauro su La Repubblica con un articolo il cui titolo, Dio salvi il Parlamento, è già di per sé esaustivo del suo contenuto. Ma la risposta più interessante a me è sembrata quella che ha articolato Massimo Adinolfi su Il Mattino di Napoli. Adinolfi si rifà all’episodio narrato da Omero nel Libro II° dell’Iliade e noto come “Tersite e Ulisse”.
Ecco come lo riassume e come lo interpreta: «Parla Tersite, e inveisce contro il duce supremo, Agamennone, mosso solo da sete di oro e di giovani donne da conquistare. Parla Tersite – il gaglioffo Tersite, brutto e deforme, calvo e con la gobba – e non ha tutti i torti, perché quando mai c’è stata una guerra al mondo, a cui non si sia stati spinti per brama di potere, di gloria o di ricchezza? Non ha tutti i torti Tersite, ma uno, fondamentale, lo ha: non sa che sta parlando non solo contro Agamennone e gli altri capi achei, ma anche contro l’Iliade e l’epica stessa. Non lo può sapere, perché lui sta proprio dentro l’Iliade, è dentro la narrazione delle guerra troiana, essendo di quella epopea soltanto un personaggio. Lo sa però Omero, che dopo avergli lasciato libero sfogo per qualche verso lo fa percuotere e zittire dal glorioso Ulisse. E ci consegna l’unica difesa possibile del senso umano della storia dal tersitismo, il primo nome che ha preso il populismo nella storia occidentale.»
Ed ecco come commenta e conclude: «Se la ragione è di Tersite, e di Tersite soltanto, non ci sarà infatti più nessuna guerra di Troia, ma anche nessun valore, nessuna causa, nessun canto, nessun senso delle vicende umane diverso dal riso, dallo sberleffo e dallo scherno. Non ci saranno eroi nel tempo degli eroi, ma nemmeno poeti nel tempo della poesia, e uomini di Stato nel tempo degli Stati. Tersite non racconta; deride. Ha ragione, ma non ha tutta la ragione; vede il basso e se ne compiace persino, con la sua sguaiataggine, ma così non riconosce nessuna possibile altezza per la figura umana. Houellebecq dirà allora: cosa però c’è di più democratico di Tersite? Dobbiamo stare con gli uomini del popolo o con la casta dei tronfi capi achei? Ma questa domanda è frutto di un equivoco, frutto dell’idea che democratico sia solo lo scurrile e il plebeo, e dunque solo il movimento che abbassa e degrada, e non anche il movimento che sale verso l’alto, che forma e trasforma anche il vile ed anche il plebeo. Democrazia è questa seconda cosa qua: è la costruzione di un popolo sovrano, non la distruzione di ogni possibile sovranità.»
Poco c’è da aggiungere, io credo, ad un modo di argomentare come questo. Mi viene in mente solo, per restare alla Francia, che nel 1895 lo scrittore, scienziato e filosofo, Gustave Le Bon pubblicò un libro, Psicologia delle folle, che avrebbe influenzato il modo di pensare di molti protagonisti della storia del Novecento (certamente Mussolini, Roosvelt e De Gaulle, forse Anche Hitler) e che meriterebbe di essere letto ancora oggi per capire i comportamenti nella società di massa. Mi viene in mente per due aspetti che Le Bon mette bene in luce.
Il primo è il fatto che nella società di massa, quando l’individuo si mette insieme ad altri e diventa massa, il suo modo di pensare e di agire tende all’omologazione, per cui la massa diventa come un individuo che si muove con una personalità propria, diversa da quella degli individui che la compongono. Gli individui acquistano una psicologia comune, “un’anima collettiva”. Con la conseguenza, dice Le Bon, che una massa di sradicati e ignoranti non si comporterà in modo sostanzialmente diverso da una massa di individui colti e inseriti nella struttura sociale: “Le decisioni di interesse generale prese da un’assemblea di uomini illustri, ma di specializzazioni diverse, non sono molto migliori delle decisioni che potrebbero esser prese in una riunione di imbecilli”.
Il secondo è il fatto che, secondo Le Bon, le folle hanno bisogno di avere una guida: “La folla è un gregge che non può fare a meno di avere un padrone”. Egli in realtà non amava il culto dei capi anche perché considerava rari quelli da definire grandi sia per la personalità che per le opere, e certamente non amava i dittatori, ad esempio i due Napoleoni, che avevano approfittato della democrazia e delle folle rivoluzionarie per imporre su di esse il loro potere personale con la scusa di interpretarne la volontà e i bisogni. Così infatti definiva la maggior parte dei capi politici: “retori sottili, che mirano all’interesse personale e cercano il consenso lusingando i bassi istinti”. Ammoniva però la borghesia del tempo che se voleva evitare la dittatura doveva preoccuparsi di governare con intelligenza le masse.
Credo che basti, anche perché per capire che cosa sta succedendo intorno a noi non ci sarebbe nemmeno bisogno di così tanto impegno di citazione di ragionamenti articolati e di pensieri profondi: basterebbe il vecchio buonsenso. Resta da capire perché al contrario non solo non vale nemmeno il buonsenso, ma sono proprio i ragionamenti ad essere visti come nemici e di fatto si preferisce affidarsi al capo che decide per conto di tutti. Un moderno Tersite che nello stesso momento contesta le élites e si affida ad un capo. La schizofrenia del nostro tempo da cui sarà difficile risollevarsi.
Quello che adesso chiamiamo “populismo” ha poco a che fare col movimento politico-culturale russo della fine dell’Ottocento, che proponeva una sorta di socialismo rurale in opposizione all’industrializzazione. Più propriamente dovremmo parlare di demagogia (dal greco demos = popolo e aghein = trascinare), cioè di sobillazione delle masse, illudendole con false promesse, allo scopo di conquistare il potere. Nel mirino della demagogia ci sono le classi politiche nazionali ed europea, che si presumono indegne delle giuste aspirazioni dei popoli. Sebbene i popoli europei siano abbastanza alfabetizzati e smaliziati, perché la demagogia ha tanta presa? Perché molta gente si fa prendere per i fondelli? Il fatto è che la voglia di vivere degli esseri umani è continuamente insidiata dalla paura, a cominciare da quella di temere per il pane proprio e dei propri figli. Mi sembra evidente che le società europee si stiano mangiando certe relative sicurezze che lo sviluppo economico aveva finanziato, come l’assistenza sociale e sanitaria e le pensioni. Così alla crescente povertà di molti si somma la paura di altra povertà. In Italia, anche se abbiamo poca dimestichezza coi numeri e con le statistiche, abbiamo tutti capito che il misero incremento del prodotto interno lordo non basta a ridurre l’enorme debito dello Stato e che, per molti anni, andremo avanti così, se non molto peggio. Prendersela con la classe politica è dunque uno sfogo, ma spero che la maggior parte degli italiani abbiano la saggezza per comprendere che, passato sfogo, si debba passare a una decente gestione della realtà affrontando i relativi sacrifici.