La femina acabadora e il suicidio assistito.
di Pier Luigi Leoni
Ogni tanto, per esperienza personale o per iniziativa dei mezzi di comunicazione sociale, ci troviamo di fronte alla sofferenza estrema di esseri umani, ai quali non si può che augurare la morte. Allora possono tornarci in mente i versi del Metastasio: Non è ver che sia la morte / il peggior di tutti i mali; / è un sollievo de’ mortali / che son stanchi di soffrir. I temi dell’accanimento terapeutico e dell’eutanasia sono regolati in vario modo dagli ordinamenti giuridici moderni, ma con la tendenza alla legalizzazione dell’eutanasia. In Italia si sta discutendo in parlamento del cosiddetto testamento biologico, ma vi sono forti pressioni anche per l’introduzione dell’eutanasia legale, per lo meno nella forma del suicidio assistito. Così come avviene nella confinante Svizzera, dove si recano, o vengono accompagnati, gli sventurati che non hanno la forza fisica, o la forza psichica, di suicidarsi… e possono permettersi la spesa. Nel bailamme delle culture morte e contemporanee, se ne sono viste e se ne vedono di tutti i colori. Tanto per non andare lontano, persiste la leggenda, che forse proprio leggenda non è, della femina acabadora (s’accabadóra, “colei che finisce”, derivante dal sardo s’acabbu, “la fine”), la vecchia vestita di nero che, in certe contrade della Sardegna, veniva chiamata a mettere fine, con una mazzetta di legno d’olivo, alle sofferenze estreme degli incurabili. Nel parlamento italiano pare che non esista la maggioranza per legalizzare l’eutanasia, e ciò dipenderebbe dalla forte pressione della Chiesa cattolica che, per adesione sincera delle coscienze di molti parlamentari, e non esclusi casi di opportunismo, difende la sacralità della vita umana. Gli acattolici e gli anticattolici accusano la Chiesa di frenare l’evoluzione della legislazione italiana, come tentò di fare senza successo nel caso della legalizzazione dell’aborto procurato. Credo che i cattolici abbiano il diritto e il dovere di cercare far valere le loro ragioni contro il materialismo che, senza il freno dell’influenza, spesso misconosciuta, della civiltà cristiana, potrebbe portare, come è già successo, all’aborto selettivo, all’eugenetica, alla soppressione di coloro che costituiscono un peso economico ed emotivo per la società e ad altri ripugnanti misfatti.
Il racconto della femina acabadora è interessante, ma allarghiamo per un attimo la visione, perché spesso la storia ci viene in aiuto se vogliamo capire il comportamento umano di fronte ai problemi fondamentali, come la vita e la morte. Le antiche civiltà, non ossessionate dalla vita ad ogni costo, avevano un rapporto positivo con la morte, intesa come inizio del viaggio dell’anima in uno stato privo di sofferenze e si preoccupavano che il morituro fosse assistito dal medico e dagli amici in modo che il passaggio fosse il più possibile dolce.
È ben vero che il Giuramento di Ippocrate stabiliva che al medico era vietata la somministrazione di farmaci per il suicidio del malato, ma è anche vero che il suicidio era ammesso, sia in Grecia che a Roma, come morte nobile. Talvolta era ordinato dall’autorità statale come modalità privilegiata concessa al condannato a morte. È il caso, in Grecia, del grande filosofo Socrate, condannato a bere la cicuta, ciò che egli fece conversando serenamente essendosi rifiutato di fuggire di prigione come lo sollecitava a fare l’amico Critone. Ed è il caso, a Roma, dell’altro grande filosofo Seneca, condannato a suicidarsi da Nerone, ciò che anche lui fece tagliandosi i polsi e lasciandosi morire assistito dal suo medico e dagli amici più cari.
Dunque le civiltà antiche conoscevano il suicidio e la morte assistita. Ho citato i casi più noti delle classi sociali elevate. Non sappiamo come la dolce morte fosse vista negli strati più poveri e deboli della società, ma è molto probabile che la cosa fosse vissuta in tutt’altro modo, giacché la violenza, le malattie, la fame e le guerre erano di casa e la morte non poteva essere sentita come passaggio raffinato da preparare e accompagnare nella dolcezza degli affetti.
Il cristianesimo ha introdotto il concetto di sacralità della vita, che tuttavia, com’è noto, non ha impedito ai cristiani né di mancarle di rispetto né di farle violenza. Insomma, non basta fare professione di fede cristiana per rispettare quella sacralità che teoricamente si afferma. Altre religioni hanno fatto anche peggio. Ma non è questo in discussione ora.
In discussione è se lo stato oggi, dopo i secoli della modernità, deve o no farsi carico della dolce morte. Soprattutto, dopo la vicenda di DJ Fabo, ci si chiede se ciò che ha fatto lui andando in Svizzera avrebbe dovuto essere permesso in Italia. Io penso che la discussione, come sempre avviene qui da noi, sia troppo farcita di elementi ideologici aprioristici e non riesca a cogliere per questo né l’essenza delle questioni né le possibili realistiche soluzioni.
Che lo si voglia o no la morte è cosa completamente, assolutamente, personale. Se la vita perde del tutto senso o diventa insopportabile il dolore lo sente e lo sa solo la persona interessata, e se questa non vuole o non può essere aiutata, ciò che alla fine decide, lucidamente, serenamente, o disperatamente, appartiene a lei e solo a lei, e l’unico atteggiamento legittimo degli altri è il silenzio e il rispetto. C’è però anche il caso di persone incurabili che non possono decidere direttamente. Per questo sarebbe il caso di consentire il testamento biologico e chiarire finalmente ciò che ciascuno investito della decisione può o deve fare.
Tornando al ruolo dello stato rispetto al suicidio assistito, potrebbe essere utile consultare quanto recentemente è stato deciso in Sassonia, dove tale forma di eutanasia è stata semplicemente depenalizzata. Non risultano lotte feroci tra credenti e non credenti.
Per me tutti hanno diritto di professare i propri convincimenti, religiosi o laici che siano, ma nessuno ha il diritto di sostituirsi a me né in caso di gioia né in caso di dolore. Al massimo potrei consentirgli di sostituirmi nella morte. Immagino però che subirei un rifiuto.
Non vi sembri strano, ma a Di Maio e a Emiliano preferisco Leopardi
di Franco Raimondo Barbabella
Mi capita abbastanza spesso di trovare in autori del passato stimoli e indicazioni per riflettere sul presente. È accaduto anche pochi giorni fa. Leggevo su alcuni quotidiani (mi piace sfogliare quelli in formato cartaceo più che quelli on line, come mi piace leggere un libro sentendo tra le mani la consistenza della carta piuttosto che facendo scorrere le pagine con Kindle o altro e-reader) di questi inquietanti personaggi che occupano le piazze mediatiche e che ogni giorno ci ammorbano con le loro evanescenti professioni di fede nelle verità cangianti della deriva populista. Se non è Grillo sono i suoi seguaci, se non è Giletti è Emiliano, se non sono costoro è qualcun altro: sembra un inseguimento verso l’approdo del nulla.
Il vicepresidente della Camera Luigi Di Maio, uomo di punta del grillismo d’assalto, è davvero fantastico: a proposito dei vitalizi grida: “Aboliteli, o portiamo il popolo sotto al Parlamento!”; “Ci vogliono cinque minuti!”; “Sarà l’Armageddon dei partiti”. Naturalmente omette di dire non solo che la proposta pentastellata non incide sulle situazioni pregresse, ma che “dal 30 gennaio 2012 esiste l’assegno pensionistico, calcolato con il sistema contributivo, che i parlamentari ricevono alla fine del mandato e non prima di aver compiuto il 65esimo anno di età” (David Allegranti).
Ma tra i piddini ci sono quelli ancor più fantastici, non si sa bene se per incoscienza o per sfrontatezza o per vocazione turlupinatrice o per tutte e tre. Si distingue tra tutti il megagovernatore della Puglia Michele Emiliano, di professione magistrato e politico per scelta, che in un conato non episodico di sfrenato grillismo va oltre lo stesso Grillo e lo stesso Di Maio, anzi supera tutti, e prorompe così: “Sono per l’eliminazione totale degli stipendi dei politici. Li vorrei eliminare completamente. Nella Costituzione cubana è previsto”. Un caro amico direbbe: “Amico mio, siamo al top, siamo assolutamente al top!”. Io credo che ogni persona dotata di buonsenso dovrebbe scolpirsi in testa queste parole come sulla pietra, poiché esse, che lo si voglia o no, riassumono lo stato di degrado morale e intellettuale della nazione.
La ragione è presto detta. Da una parte c’è Di Maio, colui che viene allevato come futuro candidato alla guida del Paese in caso di vittoria elettorale dei pentastellati. Egli esprime in continuazione posizioni estremiste e ingannevoli per soddisfare istinti popolari anticasta, e questo, se con tutta evidenza non lo giustifica, almeno però gli dà una patente di logicità rispetto all’obiettivo. Dall’altra c’è il governatore della Puglia, candidato anche alla segreteria del PD e di conseguenza alla carica di Presidente del Consiglio. Egli non esprime solo una posizione estremista e ingannevole, ma anche del tutto illogica e contraria ai principi fondamentali della democrazia, almeno per due ragioni: da una parte riafferma le logiche castali (solo i ricchi e i privilegiati possono così fare politica) e dall’altra si spaccia come paladino delle crociate anticasta continuando nel contempo ad appartenere a quella che oggettivamente può essere definita la casta per antonomasia. Il che è francamente troppo anche per uno spirito tollerante a prova di Voltaire.
Dunque ecco perché, leggendo gli arzigogoli di questi tipi che affollano il presente mi viene istintivamente voglia d’altro e cerco il soccorso in Leopardi. Voi direte: ma sei pazzo, che relazione può esserci tra un Di Maio o un Emiliano e Leopardi? Appunto, nessuna. Un altro piano, distanza siderale. Però serve a capire meglio come siamo messi. Ecco infatti Leopardi, quasi due secoli fa, Zibaldone 22 ottobre 1820: “Non bisogna estinguer la passione colla ragione, ma convertir la ragione in passione; fare che il dovere la virtù l’eroismo ec. diventino passioni. Tali sono per natura. Tali erano presso gli antichi, e le cose andavano molto meglio. Ma quando la sola passione del mondo è l’egoismo, allora si ha ben ragione di gridar contro la passione”.
Capite? La ragione che non lascia il posto all’egoismo ma ai sentimenti forti e positivi, che diventano passioni capaci di liberare il mondo dalla cappa che lo fa ottuso e innaturale. Che volete farci, a Di Maio ed Emiliano preferisco Leopardi. Pensieri di due secoli fa, ma che modernità, che freschezza! Lui si un uomo del futuro!
Ci vuole tutta la civile indignazione di Franco per scomodare Leopardi allo scopo di cantarla chiara a questi politicanti cialtroni. Ma il genio di Recanati, quando scriveva il suo Zibaldone, sapeva che i suoi lettori erano i pochi dotti in circolazione. Mentre Di Maio, Emiliano e compagnia bella, quando parlano, si rivolgono alla massa votante e devono abbassarsi al suo livello se vogliono conquistarne i favori. Magari qualche volta esagerano, a proprio danno, come quando Michele Emiliano si barcamenava tra chi usciva dal Partito Democratico e chi restava. Proprio come quel personaggio del Metastasio:
Se resto sul lido, / se sciolgo le vele, / infido, crudele / mi sento chiamar. / E intanto confuso / nel dubbio funesto, / non parto, non resto. / Ma provo il martire / che avrei nel partire, / che avrei nel restar.
Anche Leopardi, quando doveva conquistarsi i favori di qualcuno non ci andava leggero, come dimostra questo stralcio di una lettera al cardinal Consalvi:
Eminentissimo Principe. Incoraggiato dai luminosi esempi di sua generosa benevolenza verso quei sudditi Pontificii che in qualche modo si affaticano per li progressi de’ buoni studi, supplico l’Eminenza Vostra Reverendissima a rivolgere anche sopra di me i suoi benefici sguardi. Essendomi finora applicato alle lingue classiche e a quelle materie che più direttamente dipendono dalle medesime ho pur troppo conosciuto che dovrei rinunziare a ogni speranza di ulteriori avanzamenti se continuassi a vivere in Recanati mia patria.
Due secoli fa erano i cardinali ad avere il potere. Adesso è il popolo. E, se vogliamo godere i vantaggi della democrazia, dobbiamo sopportarne gli svantaggi.