di Mario Tiberi
Riprendendo il filo del discorso avviato con lo scritto della settimana appena trascorsa, è mia intenzione oggi, con le righe a seguire, di volerVi rendere partecipi che non tutta la mia speranza del “quindi uscimmo a riveder le stelle” si sia definitivamente esaurita e, quindi, irrimediabilmente smarrita e confinata nelle greppie dello sconforto e della rassegnazione.
Da quando, infatti, ho intrapreso il cammino della mia personale presenza sulla scena della vita pubblica orvietana, sto vieppiù riscoprendo il piacere e il desiderio interiore di ricercare amicizie fedeli con i vicoli, le vie, le piazze e i monumenti della nostra seppur arcana città.
Loro stanno lì da secoli e non attendono altro che i discendenti degli Etruschi, dei Romani, dei Rinascimentali, degli Illuministi e dei Romantici tendano ad esse/i la mano per una stretta robusta, fortificante e riconciliativa.
E sì, proprio riconciliativa! Perché ormai da troppo tempo le orvietane e gli orvietani sembrano aver perso il legame profondo che dovrebbe unirli alle icone-simbolo del masso tufaceo e, opino, sia giunto il pressante momento di ristabilire, solido e duraturo, il vincolo di collegamento affettivo e intellettuale con le strutture fisiche e metafisiche che, in città, ci avvolgono e ci connotano.
Allorché il clima lo consenta, vado volentieri a sedermi sulle gradinate ai fianchi del Duomo e, da quella visuale, ricevo in dono dalla Divina Provvidenza la sacra occasione di poter ammirare, incantato, il punto di congiunzione tra l’opera di Dio, il cielo e le stelle, e l’opera dell’Uomo, le guglie della Basilica Cattedrale e i tetti dei palazzi che la circondano.
L’altro pomeriggio, tra il lusco e il brusco, ho avvertito l’ardire di andarmi a posizionare sui sedili di basalto e travertino davanti alla facciata che, imponente, sovrastava la mia e le altrui industriosità di formichine alla ricerca di cibo per le proprie anime. Il sole, al suo calare, inondava di sparuti e pur vividi raggi le migliaia e migliaia di pietruzze di mosaico che, nel rifrangere la sua luce, si illuminavano così tanto da rapirmi fino a catapultarmi, con volo pindarico, nel porticciolo di Santa Lucia, a Mergellina, quasi a riprodurre il luccichio sfavillante del mare nelle notti di plenilunio.
Poi, d’un tratto, dalla facciata si è come materializzato un dito indice ammonente che mi ha posto con le spalle al muro mentre, vibrando, in tal guisa mi rimproverava: “Cosa, tu, hai fatto e stai facendo per me? E ancora, essendo il Duomo e Orvieto immedesimati e plasmati della stessa sostanza, è come se fosse stata la città intera a pormi quella domanda così secca e imperiosa.
Mi sono sentito in colpa e in difetto di debito per ciò che avrei potuto dare e non ho dato, per ciò che avrei dovuto offrire e non ho offerto. Come un bambino mortificato, quando è colto a gironzolare attorno al barattolo della marmellata, mogio mogio sono tornato a riguadagnare i gradini di fianco al Duomo.
In contemporanea passava di lì un illustre concittadino, da sempre amico di famiglia e mio personale, e con lui ho potuto liberarmi di parte della mia tristezza e del mio senso di colpa che, in confidenza, mi ha confessato di essere anche il suo. La nostra Orvieto chiama i suoi figli a raccolta nel momento in cui le sue ferite si fanno più dolenti e, a codesta vocazione, nessuno può e deve restare insensibile e, anzi, ad ognuno è affidato il compito di arrecare la sua produttiva contribuzione. Per quel che mi riguarda proseguirò, anche da voce isolata, il mio impegno civico al servizio gratuito e disinteressato della città che mi ha partorito e che, nonostante tutto, amo dal più profondo del cuore.