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Home Politica

20 febbraio 2017 n. 27

Redazione by Redazione
24 Febbraio 2017
in Politica, LETTERE PROVINCIALI, Archivio notizie
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Italiano: la lingua che gli Italiani non riescono a digerire.
di Pier Luigi Leoni

Angelo Panebianco, sull’ultimo numero del settimanale SETTE del Corriere della Sera, conclude così un articolo intitolato “Aiuto, non sappiamo l’italiano”: Gli studenti che arrivano all’università senza padroneggiare la loro lingua si preparano a “infettare” il mondo delle professioni, sono portatori insani di un virus, sono pronti a spargere incompetenza e inefficienza in tutti gli ambiti sociali, quello politico incluso. Molto si può fare e si dovrebbe fare per rimediare a questa “infezione” della scuola, dei mezzi di comunicazione sociale, delle professioni e della politica. Lo Stato dovrebbe intervenire, come ha fatto quello francese, per arginare l’invadenza dell’inglese e dovrebbe pretendere dagli insegnanti e da tutti i dipendenti pubblici la perfetta conoscenza e il rigoroso uso della lingua nazionale. Altro che indovinelli per il superamento delle selezioni pubbliche! Ma non si tratta di un compito semplice, perché la lingua italiana è difficile e quasi tutti gli italiani pensano in dialetto e, quando sono costretti a parlare in italiano, devono sforzarsi  di tradurre. E poi c’è il fatto che la lingua italiana è nata in una determinata città, Firenze, e in una determinata classe sociale, quella colta. Solo i fiorentini colti, e chi ha l’umiltà di imitarli, parlano e scrivono in corretto italiano. Non posso quindi fare a meno di pensare che i successi e gli insuccessi del fiorentino Matteo Renzi siano anche dovuti al suo modo di parlare. Nel momento in cui scrivo, dentro il Partito Democratico si stanno ancora accapigliando e non si sa come andrà a finire; ma, comunque vada, nessuno mi toglie dalla testa che i più accaniti avversari di Renzi siano esasperati dal confronto tra il loro linguaggio e quello del fiorentino. A cominciare dal romano Massimo d’Alema che, nonostante la maturità classica, ha dimenticato il congiuntivo e spiccica quattro parole nel tempo in cui Renzi ne spara sedici. E che dire del lucano Roberto Speranza, lento nel parlare e a corto di sinonimi, e del barese Michele Emiliano, dal forte accento e dalla pesante retorica pugliese, e dell’emiliano Pier Luigi Bersani, la cui laurea in filosofia non ha scalfito l’accento e la cadenza vernacolari?  Matteo Renzi voleva far diventare il PD il Partito della Nazione, così come pretenziosamente s’intitola “La Nazione” il quotidiano di Firenze. Questi fiorentini! Sempre illusi di potersi fare voce di una nazione che non c’è.

L‘opinione i Barbabella

Per quanto mi riguarda, per Panebianco, uno dei firmatari dell’appello dei 600 per l’italiano, valgono le stesse considerazioni che ho fatto per tutti gli altri con l‘elzeviro di lunedì scorso. Visto comunque che ne ho l’occasione, dico qualcosa di più sulle cure che potrebbero dare qualche risultato in tempi brevi. Più che un freno artificioso all’uso dell’inglese (e allora perché non anche alle altre lingue straniere?) potrebbe essere una sfida che spariglia un triplo provvedimento immediatamente operativo: divieto di elettorato passivo per tutti coloro che, volendosi candidare a qualsiasi carica pubblica, non conoscano in modo perfetto l’uso del congiuntivo (sono incerto se includere anche l’uso del gerundio); licenziamento in tronco di tutti gli impiegati pubblici in servizio che, sottoposti ad apposite prove, dimostrino di non conoscere la funzione del punto e virgola e quella del neutro; infine, chiusura di tutti gli esercizi commerciali che abbiano insegne in lingua straniera o espongano cartelli in un italiano meno che perfetto. Non sarebbe una rivoluzione? Magari non proprio fattibile, non proprio razionale, ma certo di grande scena, tale da soddisfare tutti coloro che per lungo tempo hanno avuto il privilegio di essere distratti.

Magari potrebbe essere la prossima priorità di un Renzi di nuovo conio. Perché, parliamoci chiaro, sarà pur vero che le origini fiorentine gli hanno dato una marcia in più, ma semmai più per furbizia che per solidità linguistica: in verità lui possiede sì lo scilinguagnolo toscano, ma lo scilinguagnolo non compensa né le carenze di visione né quelle di pensieri convincenti capaci di generare azioni efficaci (referendum docet).

Non so se fosse davvero sua intenzione fare del PD il Partito della Nazione, ma se lo era, adesso (domenica) ha la possibilità di portare in porto l’operazione: basta depurare quell’aggregato da tutti quei fastidiosi gruppetti dissidenti e il gioco è fatto. Anche se lo farà (e ascoltandolo ieri sembra che lo vorrà fare), non sarà tuttavia perché vorrà dare voce ad una nazione che non c’è, perché la nazione c’è, mentre quello che semmai non c’è è la volontà (e la capacità/libertà) sia di interpretarne i bisogni e di valorizzarne le potenzialità, sia di interpretarla come interesse comune superiore all’interesse di parte. Una storia lunga ormai, non di Renzi ma di una vasta classe dirigente che stenta a porsi in atteggiamento mentale e pratico di esserlo. Che poi questa sia appunto una malattia storica, radicata e diffusa, non toglie nulla al fatto che la sua eliminazione dovrebbe essere vista proprio per tale ragione come obiettivo prioritario di un governo dichiaratamente e realmente riformatore.

Perché in M5s democrazia è un nonsense e perché è insensato sottovalutarne le conseguenze.

di Franco Raimondo Barbabella

Non sono tanto le dichiarazioni e le interviste post mortem (politica) di Muraro e di Berdini, o le baruffe di Grillo e Di Maio con i giornalisti che ci fanno capire la natura e le tendenze del Movimento 5s: queste sono increspature di superficie, segni di un magma che si agita, elementi utili a farsi un’idea ma non sufficienti a capire in profondità e a fissare un giudizio. Sono piuttosto le analisi che vanno in profondità sui fenomeni sociali, politici, tecnologici, antropologici e psicologici del nostro tempo a cui direttamente o indirettamente M5s può essere ricollegato o a cui consapevolmente i suoi capi si ricollegano.

Mi riferisco alle analisi di Emilio Gentile ne “Il capo e la folla”, con al centro “la genesi della democrazia recitativa”, a quelle di Lorenzo Castellani su come sarà “la democrazia 3.0”, e infine al saggio e alle interviste di Sabino Cassese su “La democrazia e i suoi limiti”, da cui si evince che, quando i limiti della democrazia danno luogo a tentativi di ascesa al potere di minoranze aggressive organizzate, la democrazia stessa corre seri pericoli.

Ma soprattutto mi è sembrata interessante la lettura incrociata della teoria del filosofo tedesco Peter Sloderlijk sulla funzione dell’ira nella storia umana da Omero ad oggi (importante il suo libro di 10 anni fa “L’ira e il tempo”) e dell‘interpretazione della natura di M5s che su tale base propone Giuliano da Empoli in un recentissimo articolo dal titolo emblematico: “La rabbia e l’algoritmo”.

Sloderlijk, partendo dal complesso concetto greco arcaico di Thymos (orgoglio, audacia, coraggio, voglia di affermarsi, domanda di giustizia, senso della dignità e dell’onore, indignazione ed energie guerriero-vendicatrici), aveva sostenuto la teoria che la rabbia è un sentimento insopprimibile che attraversa tutte le società. Se essa non ha uno sbocco in qualche modo comprensibile e coinvolgente, coloro che ritengono di non avere abbastanza, di essere esclusi, discriminati, non ascoltati, producono moti di ribellione individuale e/o collettiva.

Nel passato, una funzione efficace di canalizzazione della collera e della ribellione individuale e sociale l’hanno svolta per lungo tempo le religioni e, dopo la rivoluzione francese, i movimenti e i partiti della sinistra. In entrambi i casi si rinviava al futuro la soddisfazione dei bisogni e delle ambizioni (le chiese, nei paradisi celesti; i partiti della sinistra nella società che alla fine verrà).

Ma oggi non è e non può essere più così. Ecco quindi che la rabbia si riorganizza nelle diverse forme di populismo e nella galassia dei nuovi nazionalismi. Da qui parte Giuliano da Empoli per la sua analisi, molto documentata e argomentata, di ciò che è M5s al di là di apparenze e mistificazioni e anche di malevole ma superficiali interpretazioni. La riassumerei in estrema sintesi con questa frase: M5s è la traduzione politica della logica di Google (un apposito algoritmo intercetta le preferenze degli utenti e dà loro esattamente quello che vogliono), mentre in modo più articolato può essere esposta come di seguito.

“Gianroberto Casaleggio ha capito molti anni fa che internet avrebbe rivoluzionato la politica, rendendo possibile un movimento di tipo nuovo, guidato dalle preferenze degli elettori-consumatori come non era mai stato possibile prima di allora.  Ma si è anche reso conto del fatto che, da sola, la dimensione digitale era ancora troppo fredda e distante per dare vita ad un vero movimento di massa nel nostro Paese. Per questo ha cercato – e massicciamente investito sulla componente analogica che ha il volto di Beppe Grillo”.

E così dalla combinazione del populismo tradizionale con l’algoritmo è derivata una vera e propria macchina da guerra capace di influenzare gli orientamenti dei cittadini. Con due conseguenze: 1. “il M5S ha una vocazione esplicitamente totalitaria. Nel senso che ambisce a rappresentare non una parte, ma la totalità del “popolo”. Non un partito tradizionale da inserire nel gioco della democrazia rappresentativa, ma “un veicolo destinato a traghettarci verso un nuovo regime politico: la democrazia diretta”; 2. “proprio in virtù della sua ambizione totalitaria, il M5S non funziona come un movimento tradizionale, ma come il Page Rank di Google. Non ha cioè una visione, un programma, un qualsiasi contenuto positivo”.

Dunque tutto è possibile, valgono le posizioni più popolari, si può cambiare orientamento dalla sera alla mattina, si può dare un incarico oggi e domani toglierlo senza rimpianti. La parola coerenza diventa un flatus vocis e con essa anche i patti, che possono essere cambiati quando conviene. Ed è logico che sia così, perché il punto di partenza è quell’uno vale uno, che sembra il massimo della democrazia, mentre significa che ognuno è intercambiabile, cioè vale meno di zero. Sul ponte di comando bastano due, il popolo vota. Un criterio inequivocabilmente quantitativo. La “democrazia recitativa” trova qui la sua esaltazione.

Che cosa opporre ad una impostazione come questa, che come detto è puramente quantitativa? Ovviamente un’impostazione politica massimamente qualitativa, che sappia però essere, per caratteristiche personali, programmatiche ed operative, massimamente efficace, più efficace di un algoritmo sposato con il populismo. Cosa certamente possibile ma difficile, sia da pensare che da praticare. Tuttavia non sembrano esserci tante altre soluzioni, perciò sarà bene ricordare l’espressione latina Hic Rhodus, hic salta!

L‘opinione di Leoni

Che tante belle teste si preoccupino e si occupino di sviscerare il fenomeno M5S è comprensibile, dato che il Movimento ha gettato nel panico la classe politica tradizionale e preoccupa la grande maggioranza degli elettori, che ancora preferiscono gli scassatissimi partiti tradizionali agli entusiasmi e alle sparate dei grillini. Il M5S interpreta e cavalca il profondo scontento di quegli strati della classe media che la crisi economica sta spingendo verso la classe inferiore. Però va considerato che il Movimento, inventato da un informatico introverso e da un comico ipertimico (1), è decisamente  privo di ideologia  e tiene lontani dalla violenza molti giovani che potrebbero scoprire quanto sia sciaguratamente esaltante cercare di cambiare il mondo col piombo. È vero che molti attivisti del Movimento si trovano ancora nella fase di entusiasmo tipica dello stato nascente di ogni movimento, ma chi non si sente tranquillo guardi il volto giudizioso di Luigi Di Maio, quello sbarazzino di Alessandro di Battista, quello smarrito di Virginia Raggi e quello placidamente sabaudo di Chiara Appendino. Vi sembrano pericolosi? E vi sembrano tanto sprovveduti da illudersi di mettere a posto l’Italia da soli?

  • Per essere più chiaro, riporto la definizione del carattere ipertimico estratta dal “Dizionario della salute” del Corriere della Sera: Caratterizza un individuo allegro, esuberante, scherzoso, ottimista, senza preoccupazioni, autorassicurante, millantatore, megalomane, estroverso, alla ricerca di persone, pieno di energie, ricco di progetti, che ricerca attività rischiose, versatile, che ha molti interessi ed è molto coinvolto in attività, indiscreto, disinibito, alla ricerca di stimoli nuovi;  abitualmente dorme poco (meno di 6 ore per notte), è particolarmente resistente alla faticafisica e intellettuale, nella società tende ad assumere posizioni di leader e di comando,  brilla nelle arti recitative o di intrattenimento,  possono prevalere però la superficialità e la scarsa tenacia, per cui il soggetto è alla ricerca di progetti sempre nuovi senza condurre in porto i precedenti;  è raramente normotimico. Vi possono essere anche isolati momenti depressivi.

Italiano: la lingua che gli Italiani non riescono a digerire.

di Pier Luigi Leoni

Angelo Panebianco, sull’ultimo numero del settimanale SETTE del Corriere della Sera, conclude così un articolo intitolato “Aiuto, non sappiamo l’italiano”: Gli studenti che arrivano all’università senza padroneggiare la loro lingua si preparano a “infettare” il mondo delle professioni, sono portatori insani di un virus, sono pronti a spargere incompetenza e inefficienza in tutti gli ambiti sociali, quello politico incluso. Molto si può fare e si dovrebbe fare per rimediare a questa “infezione” della scuola, dei mezzi di comunicazione sociale, delle professioni e della politica. Lo Stato dovrebbe intervenire, come ha fatto quello francese, per arginare l’invadenza dell’inglese e dovrebbe pretendere dagli insegnanti e da tutti i dipendenti pubblici la perfetta conoscenza e il rigoroso uso della lingua nazionale. Altro che indovinelli per il superamento delle selezioni pubbliche! Ma non si tratta di un compito semplice, perché la lingua italiana è difficile e quasi tutti gli italiani pensano in dialetto e, quando sono costretti a parlare in italiano, devono sforzarsi  di tradurre. E poi c’è il fatto che la lingua italiana è nata in una determinata città, Firenze, e in una determinata classe sociale, quella colta. Solo i fiorentini colti, e chi ha l’umiltà di imitarli, parlano e scrivono in corretto italiano. Non posso quindi fare a meno di pensare che i successi e gli insuccessi del fiorentino Matteo Renzi siano anche dovuti al suo modo di parlare. Nel momento in cui scrivo, dentro il Partito Democratico si stanno ancora accapigliando e non si sa come andrà a finire; ma, comunque vada, nessuno mi toglie dalla testa che i più accaniti avversari di Renzi siano esasperati dal confronto tra il loro linguaggio e quello del fiorentino. A cominciare dal romano Massimo d’Alema che, nonostante la maturità classica, ha dimenticato il congiuntivo e spiccica quattro parole nel tempo in cui Renzi ne spara sedici. E che dire del lucano Roberto Speranza, lento nel parlare e a corto di sinonimi, e del barese Michele Emiliano, dal forte accento e dalla pesante retorica pugliese, e dell’emiliano Pier Luigi Bersani, la cui laurea in filosofia non ha scalfito l’accento e la cadenza vernacolari?  Matteo Renzi voleva far diventare il PD il Partito della Nazione, così come pretenziosamente s’intitola “La Nazione” il quotidiano di Firenze. Questi fiorentini! Sempre illusi di potersi fare voce di una nazione che non c’è.

L‘opinione i Barbabella

Per quanto mi riguarda, per Panebianco, uno dei firmatari dell’appello dei 600 per l’italiano, valgono le stesse considerazioni che ho fatto per tutti gli altri con l‘elzeviro di lunedì scorso. Visto comunque che ne ho l’occasione, dico qualcosa di più sulle cure che potrebbero dare qualche risultato in tempi brevi. Più che un freno artificioso all’uso dell’inglese (e allora perché non anche alle altre lingue straniere?) potrebbe essere una sfida che spariglia un triplo provvedimento immediatamente operativo: divieto di elettorato passivo per tutti coloro che, volendosi candidare a qualsiasi carica pubblica, non conoscano in modo perfetto l’uso del congiuntivo (sono incerto se includere anche l’uso del gerundio); licenziamento in tronco di tutti gli impiegati pubblici in servizio che, sottoposti ad apposite prove, dimostrino di non conoscere la funzione del punto e virgola e quella del neutro; infine, chiusura di tutti gli esercizi commerciali che abbiano insegne in lingua straniera o espongano cartelli in un italiano meno che perfetto. Non sarebbe una rivoluzione? Magari non proprio fattibile, non proprio razionale, ma certo di grande scena, tale da soddisfare tutti coloro che per lungo tempo hanno avuto il privilegio di essere distratti.

Magari potrebbe essere la prossima priorità di un Renzi di nuovo conio. Perché, parliamoci chiaro, sarà pur vero che le origini fiorentine gli hanno dato una marcia in più, ma semmai più per furbizia che per solidità linguistica: in verità lui possiede sì lo scilinguagnolo toscano, ma lo scilinguagnolo non compensa né le carenze di visione né quelle di pensieri convincenti capaci di generare azioni efficaci (referendum docet).

Non so se fosse davvero sua intenzione fare del PD il Partito della Nazione, ma se lo era, adesso (domenica) ha la possibilità di portare in porto l’operazione: basta depurare quell’aggregato da tutti quei fastidiosi gruppetti dissidenti e il gioco è fatto. Anche se lo farà (e ascoltandolo ieri sembra che lo vorrà fare), non sarà tuttavia perché vorrà dare voce ad una nazione che non c’è, perché la nazione c’è, mentre quello che semmai non c’è è la volontà (e la capacità/libertà) sia di interpretarne i bisogni e di valorizzarne le potenzialità, sia di interpretarla come interesse comune superiore all’interesse di parte. Una storia lunga ormai, non di Renzi ma di una vasta classe dirigente che stenta a porsi in atteggiamento mentale e pratico di esserlo. Che poi questa sia appunto una malattia storica, radicata e diffusa, non toglie nulla al fatto che la sua eliminazione dovrebbe essere vista proprio per tale ragione come obiettivo prioritario di un governo dichiaratamente e realmente riformatore.

Perché in M5s democrazia è un nonsense e perché è insensato sottovalutarne le conseguenze.di Franco Raimondo Barbabella

Non sono tanto le dichiarazioni e le interviste post mortem (politica) di Muraro e di Berdini, o le baruffe di Grillo e Di Maio con i giornalisti che ci fanno capire la natura e le tendenze del Movimento 5s: queste sono increspature di superficie, segni di un magma che si agita, elementi utili a farsi un’idea ma non sufficienti a capire in profondità e a fissare un giudizio. Sono piuttosto le analisi che vanno in profondità sui fenomeni sociali, politici, tecnologici, antropologici e psicologici del nostro tempo a cui direttamente o indirettamente M5s può essere ricollegato o a cui consapevolmente i suoi capi si ricollegano.

Mi riferisco alle analisi di Emilio Gentile ne “Il capo e la folla”, con al centro “la genesi della democrazia recitativa”, a quelle di Lorenzo Castellani su come sarà “la democrazia 3.0”, e infine al saggio e alle interviste di Sabino Cassese su “La democrazia e i suoi limiti”, da cui si evince che, quando i limiti della democrazia danno luogo a tentativi di ascesa al potere di minoranze aggressive organizzate, la democrazia stessa corre seri pericoli.

Ma soprattutto mi è sembrata interessante la lettura incrociata della teoria del filosofo tedesco Peter Sloderlijk sulla funzione dell’ira nella storia umana da Omero ad oggi (importante il suo libro di 10 anni fa “L’ira e il tempo”) e dell‘interpretazione della natura di M5s che su tale base propone Giuliano da Empoli in un recentissimo articolo dal titolo emblematico: “La rabbia e l’algoritmo”.

Sloderlijk, partendo dal complesso concetto greco arcaico di Thymos (orgoglio, audacia, coraggio, voglia di affermarsi, domanda di giustizia, senso della dignità e dell’onore, indignazione ed energie guerriero-vendicatrici), aveva sostenuto la teoria che la rabbia è un sentimento insopprimibile che attraversa tutte le società. Se essa non ha uno sbocco in qualche modo comprensibile e coinvolgente, coloro che ritengono di non avere abbastanza, di essere esclusi, discriminati, non ascoltati, producono moti di ribellione individuale e/o collettiva.

Nel passato, una funzione efficace di canalizzazione della collera e della ribellione individuale e sociale l’hanno svolta per lungo tempo le religioni e, dopo la rivoluzione francese, i movimenti e i partiti della sinistra. In entrambi i casi si rinviava al futuro la soddisfazione dei bisogni e delle ambizioni (le chiese, nei paradisi celesti; i partiti della sinistra nella società che alla fine verrà).

Ma oggi non è e non può essere più così. Ecco quindi che la rabbia si riorganizza nelle diverse forme di populismo e nella galassia dei nuovi nazionalismi. Da qui parte Giuliano da Empoli per la sua analisi, molto documentata e argomentata, di ciò che è M5s al di là di apparenze e mistificazioni e anche di malevole ma superficiali interpretazioni. La riassumerei in estrema sintesi con questa frase: M5s è la traduzione politica della logica di Google (un apposito algoritmo intercetta le preferenze degli utenti e dà loro esattamente quello che vogliono), mentre in modo più articolato può essere esposta come di seguito.

“Gianroberto Casaleggio ha capito molti anni fa che internet avrebbe rivoluzionato la politica, rendendo possibile un movimento di tipo nuovo, guidato dalle preferenze degli elettori-consumatori come non era mai stato possibile prima di allora.  Ma si è anche reso conto del fatto che, da sola, la dimensione digitale era ancora troppo fredda e distante per dare vita ad un vero movimento di massa nel nostro Paese. Per questo ha cercato – e massicciamente investito sulla componente analogica che ha il volto di Beppe Grillo”.

E così dalla combinazione del populismo tradizionale con l’algoritmo è derivata una vera e propria macchina da guerra capace di influenzare gli orientamenti dei cittadini. Con due conseguenze: 1. “il M5S ha una vocazione esplicitamente totalitaria. Nel senso che ambisce a rappresentare non una parte, ma la totalità del “popolo”. Non un partito tradizionale da inserire nel gioco della democrazia rappresentativa, ma “un veicolo destinato a traghettarci verso un nuovo regime politico: la democrazia diretta”; 2. “proprio in virtù della sua ambizione totalitaria, il M5S non funziona come un movimento tradizionale, ma come il Page Rank di Google. Non ha cioè una visione, un programma, un qualsiasi contenuto positivo”.

Dunque tutto è possibile, valgono le posizioni più popolari, si può cambiare orientamento dalla sera alla mattina, si può dare un incarico oggi e domani toglierlo senza rimpianti. La parola coerenza diventa un flatus vocis e con essa anche i patti, che possono essere cambiati quando conviene. Ed è logico che sia così, perché il punto di partenza è quell’uno vale uno, che sembra il massimo della democrazia, mentre significa che ognuno è intercambiabile, cioè vale meno di zero. Sul ponte di comando bastano due, il popolo vota. Un criterio inequivocabilmente quantitativo. La “democrazia recitativa” trova qui la sua esaltazione.

Che cosa opporre ad una impostazione come questa, che come detto è puramente quantitativa? Ovviamente un’impostazione politica massimamente qualitativa, che sappia però essere, per caratteristiche personali, programmatiche ed operative, massimamente efficace, più efficace di un algoritmo sposato con il populismo. Cosa certamente possibile ma difficile, sia da pensare che da praticare. Tuttavia non sembrano esserci tante altre soluzioni, perciò sarà bene ricordare l’espressione latina Hic Rhodus, hic salta!

L‘opinione di Leoni

Che tante belle teste si preoccupino e si occupino di sviscerare il fenomeno M5S è comprensibile, dato che il Movimento ha gettato nel panico la classe politica tradizionale e preoccupa la grande maggioranza degli elettori, che ancora preferiscono gli scassatissimi partiti tradizionali agli entusiasmi e alle sparate dei grillini. Il M5S interpreta e cavalca il profondo scontento di quegli strati della classe media che la crisi economica sta spingendo verso la classe inferiore. Però va considerato che il Movimento, inventato da un informatico introverso e da un comico ipertimico (1), è decisamente  privo di ideologia  e tiene lontani dalla violenza molti giovani che potrebbero scoprire quanto sia sciaguratamente esaltante cercare di cambiare il mondo col piombo. È vero che molti attivisti del Movimento si trovano ancora nella fase di entusiasmo tipica dello stato nascente di ogni movimento, ma chi non si sente tranquillo guardi il volto giudizioso di Luigi Di Maio, quello sbarazzino di Alessandro di Battista, quello smarrito di Virginia Raggi e quello placidamente sabaudo di Chiara Appendino. Vi sembrano pericolosi? E vi sembrano tanto sprovveduti da illudersi di mettere a posto l’Italia da soli?

  • Per essere più chiaro, riporto la definizione del carattere ipertimico estratta dal “Dizionario della salute” del Corriere della Sera: Caratterizza un individuo allegro, esuberante, scherzoso, ottimista, senza preoccupazioni, autorassicurante, millantatore, megalomane, estroverso, alla ricerca di persone, pieno di energie, ricco di progetti, che ricerca attività rischiose, versatile, che ha molti interessi ed è molto coinvolto in attività, indiscreto, disinibito, alla ricerca di stimoli nuovi;  abitualmente dorme poco (meno di 6 ore per notte), è particolarmente resistente alla faticafisica e intellettuale, nella società tende ad assumere posizioni di leader e di comando,  brilla nelle arti recitative o di intrattenimento,  possono prevalere però la superficialità e la scarsa tenacia, per cui il soggetto è alla ricerca di progetti sempre nuovi senza condurre in porto i precedenti;  è raramente normotimico. Vi possono essere anche isolati momenti depressivi.

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