La crisi economica e politica e la tentazione della demagogia.
di Pier Luigi Leoni
C’è una terribile frase latina che significa “l’uomo senza denaro è un po’ immagine della morte” (Vir sine pecunia quasi imago mortis est . Poiché ogni frase lapidaria è uno spunto di meditazione, cioè orienta a un significato più vasto di quello letterale, si può intendere che chi difetta di salute, abilità professionale e, in generale, condizioni di vita soddisfacenti, non ha piena dignità umana, è quasi moribondo. Questa è una opinione profondamente immorale e per questo affascinante. È l’avere che tende a prevalere sull’essere, con conseguenze nefaste, come filosofi, psicologi e sociologi cercano di avvertirci. Così un abile uomo d’affari, un bravo chirurgo, un campione sportivo, un artista di successo è invidiato e considerato un “signore” a prescindere dalle sue doti morali e, in ultima analisi, dalla sua capacità di amare se stesso e il suo prossimo. È per questo che chi non riesce (o non riesce più) ad assicurarsi una vita soddisfacente dal punto di vista del denaro e del successo può sentirsi frustrato e passare dall’umiliazione al rancore verso il prossimo e verso le autorità. Ma il benessere o il malessere percepito da ognuno di noi è relativo. Se ci sorpassa una Ferrari mentre viaggiamo sulla nostra scassata utilitaria proviamo una certa frustrazione. Ma se in strada sorpassiamo un vecchio a braccetto della sua badante non ci facciamo caso, come se fosse nostro diritto essere in buona salute e calzare buone scarpe. Così l’interminabile crisi economica, che determina la crisi della politica, incapace di portaci fuori dai guai, provoca largamente impazienza, rancore, rabbia e molti si aggrappano ai demagoghi di turno, quelli che sguazzano nelle frustrazioni delle masse. Così molti nostri connazionali (per fortuna non ancora moltissimi) non si rassegnano agli acciacchi e alla necessità della badante.
La svalutazione del denaro e in generale della ricchezza, si sa, ha accompagnato la storia dell’uomo man mano che si differenziavano le posizioni sociali e si accumulavano beni. C’è un’altra frase latina, di Orazio, meno forte di quella citata da Pier Luigi ma anch’essa carica di significati in direzione di ciò che ho or ora affermato: crescentem sequitur cura pecuniam (“al crescere della ricchezza seguono le preoccupazioni”). I più espliciti e drastici però furono i primi Padri della Chiesa: a loro risale infatti la frase “Il denaro è lo sterco del diavolo”, divenuta poi il mantra delle predicazioni medievali per giungere anche fino a noi (Papa Francesco l’ha citata di recente).
Ma il rapporto degli esseri umani con il denaro è stato sempre ambivalente. Un’altra frase latina, del tutto inequivoca, indica un atteggiamento opposto a quello descritto sopra. È pecunia non olet (“il denaro non ha odore”), che esprime appunto un rapporto con il denaro che potremmo dire laico in quanto, essendo esso uno strumento utile, ne considera l’uso cosa normale, non lo carica di significati morali. Una concezione che non a caso accompagna lo sviluppo dei commerci e della banca, dall’epoca classica ai nostri giorni, fino all’esaltazione della sua funzione prgressiva. Come non ricordare in questo senso l’inno al denaro del musical Cabaret (1972)? Money, Money, cantava Liza Minnelli: a mark, a yen, a buck or a pound – that clinking, clanking, clunking sound is all that makes the world go ‘round (“un marco, uno yen, un dollaro o una sterlina: è quel tintinnio che fa andare avanti il mondo”).
Questa ambivalenza si ripropone anche da un altro punto di vista, quello del rapporto tra ricchezza e felicità. È convinzione diffusa che alla crescita del benessere materiale non corrisponda quel benessere interiore che viene chiamato felicità. Ciò che sembra esser avvalorato dal “paradosso di Easterlin”, detto anche appunto “paradosso della felicità”, secondo cui all’aumentare del benessere economico la felicità aumenta solo fino ad un certo punto per poi calare seguendo l’andamento di una U rovesciata. Naturalmente il paradosso non ha scoraggiato nessuno che fosse intenzionato ad accumulare ricchezza, anzi, sembra che la gran parte delle persone sia convinta che il rischio meriti di essere corso. Non si dice forse normalmente che “il denaro non fa la felicità, ma l’avvicina”?
Un ultimo aspetto mi pare meriti attenzione rispetto a questo tema: il successo, l’attrattività, delle concezioni materialistiche, che da Democrito a Epicuro e Lucrezio, da Gassendi a La Mettrie, da Marx a Darwin, fino a molti scienziati del novecento e contemporanei di diversi campi di ricerca, hanno cercato spiegazioni ai fenomeni del mondo senza introdurre principi spirituali. Ciò che può non piacere, e in effetti a molti altri non è piaciuto e non piace, ma che può, se si vuole, spingere a pensare, a non adottare le soluzioni che appaiono di facile consumo.
Richiamare l’attenzione su questo aspetto non significa dunque né negare la funzione della morale e della religione né ignorare che il benessere interiore è aspirazione naturale, connessa alla natura dell’uomo, difficile da perseguire e legata a situazioni personali e di contesto. Tantomeno significa accettare il rinsecchimento delle chiusure egoistiche, delle paure dell’altro, e la fuga sotto l’ombrello del capo che pensa per conto di tutti. Significa invece un richiamo costante a non ridurre le questioni complesse ad una sola questione, che così non può che apparire insufficiente e precostituita, e perciò un invito ad accettare una realtà dalle facce diverse e a coltivare la solidarietà tra gli umani.
In definitiva, se non possiamo ridurre con Feuerbach l’uomo “a ciò che mangia”, non possiamo nemmeno ignorare che senza il soddisfacimento dei bisogni primari tutto il resto non esiste. Ecco perché i beni spirituali, il sapere, l’educazione, la libertà, la ricerca della felicità, il perseguimento della solidarietà, non sono astrazioni ma parti di quel complesso groviglio di fattori che definiscono la vita e non consentono separazioni artificiose.
Non c’è limite al peggio (parlo di politica)
di Franco Raimondo Barbabella
Continuo con i detti popolari che, seppure non siano esattamente quei condensati di saggezza che qualcuno vorrebbe spacciare per verità, tuttavia qualcosa ci dicono sulle cose della vita. Questa volta mi ispira “Non c’è limite al peggio”, perché mi sembra che fotografi in modo convincente la situazione politica di questo nostro tempo, che ogni giorno ci sorprende per il passo che ci fa fare appunto verso il peggio.
Ricordate che cosa si diceva del regime cattocomunista? Tutti uguali, non cambierà mai niente, basta con questi partiti corrotti. Poi è venuto peggio. Dopo Tangentopoli e la crisi dei partiti, è arrivato il ventennio berlusconiano e l’ascesa politica della magistratura. E così è successo di tutto e di più, compresi vent’anni di antiberlusconismo. Si sa com’è andata: prima repubblica che non muore, nuovi vizi che crescono sui vecchi, spirito pubblico ancora più giù. Poi è arrivata la crisi, forte e lunga, e con essa lo stop a Berlusconi, le meteore Monti e Letta. Ed ecco finalmente il fenomeno Renzi, l’uomo solo al comando, le riforme piegate all’ascesa personale, la parabola veloce della crescita e del tramonto.
Che cosa resta di tutto ciò? Una sgradevole sensazione di classe dirigente inadeguata e ripiegata su se stessa, una politica politicante, una difficoltà seria ad affrontare le emergenze, un impoverimento e un allentamento dei legami sociali, in sintesi un degradare della vita collettiva. La crisi politica di inizio anni ’90 del secolo scorso si era espressa con la nascita, da una parte del berlusconismo e dell’antiberlusconismo, e dall’altra del fenomeno leghista. La crisi politica di inizio anni ’10 di questo secolo si è espressa a sua volta con la nascita, da una parte del renzismo e dell’antirenzismo, e dall’altra del fenomeno pentastellato. In entrambi i casi l’incapacità della politica di autoriforma ha prodotto l’antipolitica, sempre più aggressiva, sempre meno capace di passare dalla protesta alla proposta e alla responsabilità di governo.
Beninteso, per antipolitica si intende la politica di chi attacca la classe di comando esistente per diventare a sua volta classe di comando. E questo sarebbe normale, se non avvenisse con modalità che nulla hanno a che vedere con l’interesse di quel popolo in nome del quale si conducono battaglie con il coltello tra i denti. E le conseguenze già si vedono.
Il vento populista, con l’aiuto dei mass media e segnatamente dei social media, ha cambiato il linguaggio, il modo di elaborare e di comunicare concetti e opinioni, il rapporto tra il dire e il fare, il modo di discutere. Carattere unificante: fregarsene altamente delle conseguenze. La personalizzazione della politica, che sembrava un fenomeno tutto berlusconiano con poche e momentanee propaggini, in realtà è diventato un carattere stabile della politica, che con Grillo e Renzi ha assunto i connotati del capo che arringa le folle, qualcosa che somiglia ai meneurs de foules di Gustave Le Bon.
Si pensava che il populismo fosse un fenomeno destinato a essere riassorbito nella logica istituzionale, come aveva a suo tempo dimostrato la vicenda leghista. Si pensava anche che l’antipolitica si sarebbe mantenuta dentro i recinti delle forze antisistema. Si pensava che fossero fenomeni contingenti, legati agli sconvolgimenti della lunga crisi e ai sommovimenti mondiali della globalizzazione e delle migrazioni.
Si pensava male. L’impressione è che gli stati maggiori dei partiti più grandi, in crisi di identità e di coraggio politico, abbiano deciso di inseguire i movimenti antisistema sul loro stesso terreno, con ciò di fatto legittimandoli e rafforzandoli. Ha scritto Francesco Cundari: “Il problema di fondo è che l’uso spregiudicato, nella lotta interna, dei metodi usati dalla Casaleggio Associati contro gli avversari, ha prodotto il peggiore degli esiti: la grillizzazione del Pd”.
La grillizzazione naturalmente non è solo del Pd, ma con Renzi raggiunge punte quasi poetiche. L’ultima è la sparata contro i vitalizi per accelerare la corsa al voto, un traguardo per lui da raggiungere ad ogni costo (e lo scopo è talmente chiaro che non vale nemmeno la pena dirlo), al punto da non costituire una preoccupazione dover stringere alleanza con Grillo, Salvini e Meloni, ossia le forze antisistema. Ma volere le elezioni ad ogni costo, senza preoccuparsi dell’oggi e soprattutto della situazione che ne deriverà, come dovrebbe essere definito se non offesa alla logica e atto di irresponsabilità?
E poi, i vitalizi non erano stati aboliti? In realtà non si tratta dei vitalizi, quanto piuttosto del recupero dei contributi versati da ognuno per la pensione che scatta a 65 anni, somme che se non si superasse la metà di settembre verrebbero perdute. Si tratta dunque di somme versate, e allora dove sta lo scandalo? In ogni caso, invece di fare le elezioni, perché non si toglie anche questo diritto, visto che a tutti i cittadini ne sono stati di fatto tolti tanti, se il problema è questo?
Sarà dunque legittimo chiedersi dove si pensa di andare con il sistema dell’inganno continuato e aggravato. È ben vero che tendenze di questo tipo sono ormai europee e mondiali, ciò che però non ne attenua il significato, che è quel “non c’è limite al peggio” da cui siamo partiti. Dovremo forse acconciarci a fare politica al modo messo in chiaro da Beppe Grillo? Un modo che può essere riassunto così: “chi vuole aprire bocca deve chiedere il permesso al capo, ripetere quello che dice il capo, dire che il capo ha ragione, oppure trovarsi un altro partito” (Cundari).
Credo che bisognerà reagire sul serio: pensiero contro istinto, verità contro bufale, politica vera contro inganno. Le migliori forze unite contro il degrado, per ricostruire, dovunque e comunque. Altrimenti non ci rimarrà che dire “augh” o “si, buana”, oppure prendere atto che, come cantava Fabrizio De Andrè, “Signore, il pozzo è profondo più fondo del fondo” e farci gli auguri.
La colpa è tutta dei Romani, che hanno cominciato con Romolo e Numa Pompilio e sono finiti con Ignazio Marino e Virginia Raggi, dopo aver fondato un impero che si è fatto fottere da barbari di svariate etnie, tanto che gli unici nostalgici dell’Impero Romano sono rimasti i Romeni. Ma, a parte gli scherzi, non andrebbe mai dimenticato che la penisola italiana, come del resto la Grecia, si allunga in quel grande lago che è il Mare Mediterraneo e sul quale si affacciano prevalentemente nazioni che non sono fiori di democrazie e con le quali dovremmo più strettamente convivere. Purtroppo l’abbiamo dimenticato, nonostante la lucidità di Giulio Andreotti. Anche se gli attuali maneggi del ministro Minniti con quel che resta della Libia, suscitano qualche pallida speranza. Poiché viviamo in un mondo dove tutto è relativo, dovremmo consolarci col fatto che ce la passiamo ancora meglio non solo della Libia, ma anche della Tunisia, dell’Algeria, dell’Egitto, della Turchia e della Grecia. Certo, la situazione economica e politica dell’Italia è quella che è, ma non facciamo finta di essere inglesi e cerchiamo di vedere gli aspetti positivi. Abbiamo un governo, mentre la Spagna per più di un anno ha dovuto farne a meno. Abbiamo sterilizzato i nostalgici del fascismo affidandoli a una brava madre di famiglia come la signora Meloni. Abbiamo sbaragliato i comunisti, tanto che si sono frantumati in tanti partitini che, a contarli, se ne dimentica sempre qualcuno, come per i sette nani di Biancaneve (la battuta non è mia). Abbiamo un democristiano come Renzi che, superati gli sbalzi di testosterone (la constatazione non è mia), cerca di ragionare con le teste di coloro che, nel suo contorno, hanno conservato la capacità di ragionare. Abbiamo un comico come Grillo, che gioca ancora a fare il politico agitando masse di scoglionati che lo applaudono con tanta foga da spellarsi le mani. Ma le mani dei sostenitori sanguinano e cominciano a fare male, mentre gli antagonisti si stanno organizzando per fregarlo con una legge elettorale da fare con calma. Intanto il conte Gentiloni Sjlveri governa. E il presidente Mattarella lo conforta sussurrando.
La vignetta in home page è di Walter Leoni, diffusa su FB.