L‘Italia sgrammaticata
di Franco Raimondo Barbabella
Nei giorni scorsi ha fatto notizia la lettera aperta promossa dal “Gruppo di Firenze per la scuola del merito e della responsabilità” e firmata da 600 docenti universitari e intellettuali, con cui si denuncia il “declino dell’italiano a scuola” (grammatica, sintassi, lessico). In verità, nel merito la notizia può sorprendere solo chi vive sulla luna, mentre la sorpresa è che dimostrino di essersene accorti personaggi importanti per ruolo specifico e notorietà.
Tutti, infatti, sapevano che questo problema esiste ed è grave da anni e anni. Lo sapevano quei dirigenti, quei docenti e quegli operatori culturali che, pur avendo spesso le armi spuntate, non si sono limitati a parlarne ma hanno agito sia nel posto di lavoro che fuori, singolarmente e tramite le loro organizzazioni, per limitarne i danni. Lo sapevano quelli che notavano la montante ignoranza delle fondamentali regole linguistiche nei rappresentanti del potere pubblico, eletti e non, senza però sapere o potere o volere fare granché per rimediare. Lo sapevano direttori e redattori di giornali e network, che però lasciavano fare in questo caso in nome della parola corta e della comunicazione rapida e aderente al livello presunto di comprensione del lettore medio. Lo sapevano i ministri, ma per loro le urgenze sono state sempre altre.
Si può dire dunque, senza necessità di distinguere troppo, che chi fa finta di accorgersi oggi di una situazione che appare finalmente nella sua giusta dimensione come minimo è un ipocrita? E che è un ipocrita e un falsario chi afferma che il problema è solo della scuola, e in particolare addirittura della sola scuola media (la scuola secondaria di primo grado)? Io non so se mai in vita mi accadrà di vedere in questo mio fantastico Paese una discussione seria su un problema serio. Ne dubito, ma non voglio rinunciare del tutto alla speranza. Per questo, nonostante la sensazione che l’iniziativa non sia casuale (non riguardo al problema, che come detto era stranoto, quanto piuttosto rispetto al momento politico), ritengo opportuna e utile la carica dei 600 perché almeno per un giorno o due anche i più distratti ne avranno segnata memoria.
Le analisi e i provvedimenti prospettati però non colgono se non parzialmente e non soddisfano se non momentaneamente l‘urgenza della risposta. Ad esempio, i promotori parlano di esercizi e riassunti, e di quanto già da loro sperimentato in gioventù, in realtà qualcosa di facile da pensare e di sbrigativo da attuare, suppergiù roba da liceo classico tradizionale con piccole aggiunte extra. Il/La ministro/a da parte sua attribuisce alla scuola media (sic!) ogni responsabilità e, mentre ne annuncia (come al solito) la riforma, asserisce che bisogna leggere in classe giornali e libri non scolastici. Che meravigliosa scoperta, che fantasia, che genialata!
Ma alla fine, dopo l‘effetto mediatico di due giorni e gli annunci repentini di cure da cavallo di dubbiosissima efficacia, tutto è tornato dove stava prima, ossia nel limbo dei problemi irrisolti perché risolvibili solo con iniziative meditate, strategiche, di lungo periodo e di spessore culturale e morale. E che sia così lo si può dimostrare con riferimento sia alla teoria che alla realtà effettuale.
Per la teoria, basti dire che non c’è aspetto della cultura di un popolo che più della lingua sia legato all’uso che se ne fa, per cui ciò che non si conosce si usa male, ma se si usa male si incentiva la sua non conoscenza e il suo cattivo uso. Per la realtà effettuale, basterà dire di un accumulo incontrastato e spesso beatificato di ignoranza di lungo periodo, in cui hanno avuto ed hanno un ruolo la politica, la famiglia, la scuola, la stampa, i soggetti della comunicazione informale, ecc.
Insomma, se vogliamo uscire dalle analisi fondate sull’ipocrisia e dai provvedimenti di pura facciata, dobbiamo cominciare col dire che dei vizi linguistici diffusi, così come di tutte le altre cose, è responsabile l‘insieme della società, naturalmente con tutte le differenze di responsabilità al suo interno. Per questo sento di poter fare alcune domande. Risulta che l’ignoranza linguistica sia diffusa in tutta la cosiddetta classe dirigente, in specie quella politica? Risulta che essa alberghi volentieri negli ambienti di successo che fanno anche da esempio? Risulta che sia ritenuta normale in tutto il sistema delle comunicazioni? Risulta che vi siano anche tra i docenti e i dirigenti scolastici quelli che masticano con qualche difficoltà la nostra lingua madre? Risulta che nelle famiglie lo sforzo di correggere gli svarioni linguistici, non solo per incompetenza, sia piuttosto raro?
Beh, certo, da qualche parte bisognerà pur cominciare, e allora si cominci pure a metterci le mani. A partire dalla scuola? Bene, a partire dalla scuola. Tutta la scuola però. E con cure drastiche, quelle che non consentano agli incompetenti di insegnare l’incompetenza agli altri. E poi però, fuori dalla scuola, non si consenta a nessun altro di svicolare. Ricordate “Palombella rossa”: “Chi parla male pensa male!”? Ecco, questo è il vero punto delle riforme linguistiche come di tutte le altre riforme: evitare che avanzi e ci domini chi pensa male, per evitare non solo che parli male, ma che non sia interessato/a ad un uso corretto della lingua da parte degli altri. Con il che, alla fine, torna in primo piano la questione delle questioni di una società che voglia funzionare: selezionare per competenza e per merito. Facile, no?
Voglio spezzare una lancia a favore di coloro che hanno difficoltà con la lingua italiana. La nostra lingua è una delle belle figlie di quella bella madre che è il latino. Bella, ma difficile, perché architettata da quei “maledetti” dei toscani. Non dai toscani del popolino, che parlano in quel modo buffo che conosciamo, ma dai toscani colti. E non vi sono al mondo esseri meticolosi quanto i toscani, e meticolosissimi quanto i toscani colti. Gli stranieri che vogliono imparare bene la lingua italiana impazziscono di fronte al profluvio, unico al mondo, dei nomi alterati (per esempio: casona, casone, casetta, casettina, casupola, casino, casinetto, casotto, casottino ecc. del nome casa). È inutile spiegare a chi non è toscano il significato esatto di “codesto” ed è uno sfizio accademico pretendere l’uso del congiuntivo. È per questo, secondo me, che gli italiani oppongono meno resistenza dei francesi e degli spagnoli alla moda dell’inglese. Nonostante la folle pretesa degli inglesi di adoperare l’alfabeto latino senza aggiornarne l’impiego alla pronuncia attuale, la lingua inglese è poco complicata; e un italiano semicolto che ha imparato bene l’inglese può sembrare un intellettuale. Ciò detto, la difesa della lingua dovrebbe essere un dovere del legislatore nazionale e non lasciata alla spontaneità dei professori. Il regime fascista s’impegnò nella difesa della lingua italiana, e fece bene. Sarebbe opportuno, una volta tanto, distinguere le azioni positive del regime da quelle negative ed evitare che le une siano condannate insieme alle altre.
Il referendum ha salvato le province? Prendiamocela con le regioni.
di Pier Luigi Leoni
L’esito del referendum del 4 dicembre 2016 ha messo nei guai Matteo Renzi, il riformista più tenace del dopoguerra, ma non ha eliminato i punti deboli della costituzione. Ci terremo per un pezzo il parlamento più pletorico del mondo diviso in due camere che si ripassano le bucce a vicenda. Il che costa troppo non solo in denaro, ma soprattutto in tempo. E ci terremo le province, anche se castrate dalla riforma Del Rio; con il rischio di ritornare all’elezione diretta dei consigli provinciali e ai tempi in cui le province si occupavano anche di beneficenza e di cultura. Ricordo che i gettoni di presenza dei consiglieri provinciali che componevano le commissioni per l’assistenza e la cultura costavano più dei poveri che assistevano e degli organizzatori di mostre che foraggiavano. I consigli provinciali erano una pacchia per dipendenti pubblici svogliati, in perenne aspettativa per partecipare a pressoché inutili sedute dei consigli e delle commissioni. Ma se ormai è vano sperare nell’abolizione delle province, nulla vieta di prendersela con le regioni, altro cancro che ha dissestato l’Italia, e cercare di diminuirle, se non di abolirle.
Beh, via, andiamoci piano a far passare Renzi per “il riformista più tenace del dopoguerra”: si potrebbe anche offendere. Lui si è definito ed è stato, seppure non quanto avrebbe desiderato, un rottamatore, figura certo nuova nel panorama italiano, ma difficilmente assimilabile sia a quella di un riformista che a quella di un riformatore. Più che altro una di quelle figure che in certi momenti della storia emergono per spinte confuse di cambiamento che però, se non si trasformano presto in progetto credibile, inevitabilmente falliscono. Perché, come si sa, cambiamento non è sinonimo né di miglioramento né di soluzione dei problemi da cui nasce.
Le riforme sono roba seria, da maneggiare con cura: scaturiscono da esigenze profonde e generano processi forti, ragion per cui vanno pensate, ben organizzate, attuate con metodo e con i tempi necessari, verificate in itinere rispetto agli esiti desiderati, e se necessario riformate esse stesse quando non funzionano. Di veri riformisti ce ne sono stati e ce ne sono in giro per l’Italia e nel mondo, e tutti si caratterizzano per avere una visione, una linea di pensiero lungimirante che non è riducibile a puro esercizio di potere e a carriera personale. Possono fare errori e non raggiungere al momento gli obiettivi che si propongono, ma seminano comunque speranze fondate, lasciano comunque il segno. Tutto ciò mi sembra difficile attribuirlo come proprio anche di Renzi, sia come mentalità che come linea di pensiero e di azione.
Diciamolo allora con la franchezza necessaria: il sistema Italia attende ancora chi voglia riformarlo per farlo veramente funzionare come sistema moderno al servizio dei cittadini, che per questo vi si possano riconoscere e per il quale sentano il dovere di spendersi. In questa ottica le riforme a pezzetti sono necessariamente un fallimento; siamo tra quelli che, senza essere maghi, lo avevano pensato e detto.
E però ora che si fa? Noi possiamo solo auspicare, parlare, partecipare a dibattiti o proporli e organizzarli. Bene, lo faremo come CoM, ne abbiamo anche una certa esperienza. Non abbiamo nemmeno il timore di “prendercela con le regioni”, visto che la nostra idea portante è la trasformazione del concetto di “Italia di mezzo” in macroregione dell’Italia centrale. Anzi, bisogna sbrigarsi, perché la pigrizia intellettuale del sistema politico sta creando le premesse per trasformare anche questa idea in una operazione di basso profilo, come dimostra il recente convegno dei sindaci a Narni, da cui emerge non a caso la prospettiva di una macroregione formata solo da Umbria, Toscana e Marche, dunque con esclusione di quella parte di Lazio a cui noi non possiamo non riferirci.
Ed è in questo stesso contesto che si deve inserire poi la riflessione non solo sulle province ma sul ruolo stesso dei comuni in vista di un sistema che, come abbiamo detto, per funzionare sul serio deve essere organizzato in modo tale da valorizzare le caratteristiche e le risorse territoriali, armonizzandole in un sistema che sia vicino ai cittadini e capace di stimolarne la creatività oltre che l’interesse a far bene.