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Home Angolo Psicologo

Dare senso alla vita anche nella malattia. Palazzo: “ritrovare serenità con se stessi”

Redazione by Redazione
24 Febbraio 2017
in Angolo Psicologo, Archivio notizie
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di Valeria Cioccolo
Che cosa succede quando nella normalità della vita irrompe la malattia? Tutto sembra perdere significato, le attività quotidiane, il lavoro, persino gli affetti. L’ordine del nostro io e ogni certezza, si rompe. Oggi chi è malato diventa spesso un emarginato sociale, ma non è così, ci sono modi, percorsi e significati che anche chi affronta questa situazione può trovare. Ne parliamo con uno degli esperti di Rete Famiglia, il dottor Ignazio Palazzo, psicologo e psicoterapeuta che, oltre a svolgere questa attività come lavoro, dedica tempo al volontariato sociale.

Cosa succede a livello emotivo, psicologico a chi si trova ad affrontare un evento di grave malattia?

Nell’esperienza delle persone che seguo nella mia attività di psicoterapeuta la malattia, quella grave, ineluttabile, è spesso vissuta come un evento sconvolgente, disarmante, capace di creare una voragine emotiva che mina il proprio equilibrio. Tutto sembra perduto. L’annuncio e l’avvento della malattia segna un prima e un dopo nel corso degli eventi. E la consapevolezza che tutto non sarà più come prima, acuisce il sentimento di perdita. Per il malato e per la famiglia.
Oltre al dolore fisico, spesso ciò che più abbatte è il dolore morale: l’angoscia si fa forte, la solitudine si acuisce davanti all’irreparabile, al limite, al dolore, alla perdita. Tutto sembra non avere più senso”.
E la risposta sociale, ma forse anche familiare, non aiuta… Infatti, i temi della malattia, del fin di vita, della morte sono avvolti nella nostra società da tabù di vario tipo. Il risultato è che parlarne liberamente, senza pregiudizi, diventa difficile. Se ne ha paura. Si ha paura che l’altro non capisca, che non sia empatico, che ci consideri deboli o paurosi. Quindi si preferisce non parlarne, neanche o soprattutto in famiglia. E ciò acuisce la distanza, anche con i propri cari.

Qual è il percorso che si intraprende insieme al terapeuta?

Nel mio lavoro, nei primi colloqui, dopo che una relazione di fiducia si è creata, le persone vengono aiutate a esprimere il loro vissuto, per quello che è, per come si presenta, senza giudizio. Il terapeuta con la sua attitudine non giudicante facilita questo processo di espressione di sé, delle proprie paure, dei propri sentimenti (ciò che sento e vivo), accoglie e sostiene l’altro in questo processo di confronto/accettazione della malattia. E ciò immancabilmente produce come primo risultato un senso di catarsi, di leggerezza, di liberazione da un peso a volte insopportabile. Se dapprima si assiste a una negazione della malattia, percepita come altro da sé, qualcosa da estirpare se possibile, durante il processo di accompagnamento essa diviene parte di se’. Diventa il limite da integrare nel nuovo equilibrio. Una prova, certo una prova critica da cui posso lasciarmi devastare, oppure una sfida che posso tentare di controllare.

Come si dà motivazione e speranza ad un malato?

La malattia grave che in un primo momento sembra essere come una spugna che cancella il tutto (“nulla ha più valore”), può diventare invece l’elemento trasformante, la presa di coscienza di ciò che davvero conta per l’individuo, dei valori essenziali, dell’importanza delle persone a cui mi sento legato affettivamente. Quando si è così vicini al sentimento di perdere tutto, non posso precludermi la possibilità di riportare lo sguardo interno su ciò che è essenziale. Esistenziale, direi. In questo processo di coscienza, anche la dimensione temporale può cambiare: non è più importante ‘quanto tempo mi manca’, ma la qualità del tempo che spendo con me, con gli amici, la famiglia.

Malattia anche come riscoperta di sé?

L’accompagnamento psicologico in un contesto di malattia terminale diventa occasione di trovare serenità con se stessi: i tormenti legati al passato – ciò che avrei potuto/dovuto fare e non ho fatto, gli errori, i dispiaceri – lasciano via via spazio a un’accettazione indulgente di ciò che sono per come sono, con i miei limiti. Malattia compresa. E in una società che spinge idealmente alla perfezione, al confronto, all’ideale imposto, l’accettazione dei limiti diventa prioritaria per la costruzione di un’identità equilibrata, efficace, autentica. Più forte perché più corrispondente al reale. Al di là dei falsi miti.

Rete Famiglia è disponibile per aiuto e supporto con il Centro di Ascolto: contatto e-mail: retefamigliaorvieto@gmail.com; oppure ci si può recare personalmente alla Sede che si trova a Orvieto in via Soliana 1/A (tra Piazza Marconi e il Duomo) il martedì mattina dalle 9.00 alle 11.30 e nel medesimo orario l’ultimo sabato del mese (il 25 febbraio); oppure il giovedì pomeriggio dalle 16.00 alle 18.00; si può anche telefonare al n. 0763/395010 negli orari di apertura.

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