di Mario Tiberi
Quando, in tempi non eccessivamente lontani, la contrapposizione tra schieramenti partitici si basava sulla disputa se dovesse prevalere la supremazia del “capitale” o quella del “lavoro”, il popolarismo democratico seppe ben coniugare la sfida ricercando momenti di dialogo tra componenti sociali antinomiche e punti di contatto tra Stato e libero mercato.
Nel presente, però, passivamente stiamo assistendo al tramonto di quella prospettiva di riferimento. Il valore economico del lavoro dipendente, infatti, è stato posto in crisi dalla liberalizzazione globalizzata e globalizzante apparendo, quest’ultima, una dinamica irreversibile. D’altro canto, l’intera economia industriale deve fare i conti con i costi ambientali (scarsità di acqua, cambiamenti climatici dovuti in larga misura alle emissioni industriali, dissesti idro-geologici et cetera) i quali, quasi inevitabilmente, rendono spesso antieconomica la stessa struttura capitalistica, privata o pubblica che sia.
Il sistema democratico occidentale è costretto, quindi, a rinegoziare totalmente i termini del dialogo sopraccennato, direttamente al proprio interno. In tale contesto, il ruolo di un cristiano-popolare, quale io mi sento di essere e per antica tradizione autonomo di pensiero in virtù del recepimento in chiave laica della dottrina sociale della Chiesa, non può che avere la valenza di porre a disposizione dell’opinione pubblica un patrimonio di idee del tutto innovative e pacificamente rivoluzionarie e tali, per ottenere successo, da essere istintivamente percepite giuste in ragione di una valida e convincente proposta di governo.
Codesta volontà, ad oggi posso affermare per superficialità di valutazione, sul finire del primo decennio del secolo in corso ritenni di poterla manifestare e praticare in quello che doveva essere un grande partito popolare su base nazionale e a vocazione decisamente riformatrice. Commisi un grave e imperdonabile errore! Infatti i guai e le sofferenze, a cui sono andato incontro, hanno avuto subitaneo inizio allorquando si è incardinata in me la limpida coscienza di avere di fronte, rispetto alla mia personale visione della “res publica”, un muro impenetrabile intriso di sordità e di cecità politica e programmatica.
E dette sordità e cecità, oltretutto aggravate da sbruffona iattanza, si sono evidenziate al massimo grado con la presa abusiva del potere da parte del “pinocchietto di Firenze”, ora decaduto per grazia ricevuta, e però trasmesse tali e quali all’esecutivo provvisoriamente in carica: sordità a fronte delle reali istanze sociali del popolo italiano e cecità nel non voler vedere di quali ingiustizie si sono e si stanno macchiando le loro istrioniche azioni di governo.
Subire supinamente tale intollerabile condizione e rimanere inerti nel vacuo pensiero che la già infranta democrazia italica possa essere ulteriormente calpestata con i perversi metodi del gioco del “ruba mazzo” o di quello dello “asso pigliatutto”, da immorale sta velocemente precipitando nell’irresponsabile e nel ridicolo. Ed ecco, allora, riapparire all’orizzonte la stretta necessità di avvalersi dell’apporto intellettuale di novelli caparbi umanisti i quali, se non altro, sapranno ben rammentarci come non possano discendere maturi frutti dall’intelligenza senza la sapienza, dalla scienza senza la conoscenza e dalla politica senza l’etica.
Del resto, dalla sordità e dalla cecità si può guarire senza scomodare le virtù taumaturgiche di qualsivoglia Santo del Paradiso: potrebbe essere solo sufficiente andare a rileggersi qualche pagina tratta dalle “Humanae Litterae”!