Zigzagando tra questioni di vita nel tempo freddo di fine anno alla ricerca della speranza
di Franco Raimondo Barbabella
A dispetto del titolo, non si tratta di un’impresa titanica. Conosco peraltro in anticipo l’osservazione che mi faranno, o che comunque sarebbe legittimo mi facessero, Pier Luigi e Dante, ossia che la vera speranza sta da un’altra parte. Perciò rispondo in anticipo che anch’io lo so. Ma io mi occupo di una ricerca il cui esito è incerto perché si svolge scandagliando qua e là le cose che accadono nella vita e le riflessioni che gente di vario tipo propone o suscita, anche senza volerlo.
Qualche giorno fa mi sono imbattuto quasi per caso in un libretto (Paolo Di Paolo, Tempo senza scelte) in cui si analizza la condizione dell’uomo contemporaneo in questa parte di mondo nel quale, a differenza del passato, non si pone più la necessità di una scelta drastica, un aut aut tra percorsi e destini radicalmente differenti. In questa condizione, in cui l’identità individuale si costruisce a partire dal desiderio di vivere su più fronti insieme, è ancora possibile prendere decisioni, fare scelte chiare e coerenti, che come tali escludono qualcosa e/o qualcuno, oppure si è destinati alla dispersione nella pluralità dell’indifferenza, in sostanza a non riconoscersi? No, non è detto che sia quest’ultima l’unica dimensione possibile: forse si può sperare in una identità significativa comunque, se, come ci insegna l’esemplare vicenda di Piero Gobetti, ci sforziamo di essere “noi stessi dappertutto”.
Su quest’onda di pensieri, mi sono imbattuto in un bell’articolo di Mauro Bonazzi (Weber sulla nave di Platone, “La lettura” di sabato 24 dicembre) in cui si riscopre l’attualità di un Max Weber poco conosciuto, il Max Weber educatore. Il grande intellettuale tedesco tra il 1917 e il 1919, dunque durante e appena dopo il primo conflitto mondiale, pronunciò due discorsi (La scienza come professione e La politica come professione) che sembrano scritti ieri, tanta è la loro forza interpretativa dei caratteri della civiltà moderna e in essa del ruolo dell’intellettuale. Egli aveva chiaro che il pluralismo delle opzioni è proprio appunto del mondo moderno e che di conseguenza i profeti di un mondo perfetto non esistono e non bisogna attenderli. Si ripresentava così sotto altre vesti la missione di Socrate, che in condizioni analogamente tumultuose nell’Atene della fine del V° secolo pensava che la sua missione dovesse essere quella di mettere in dubbio i valori accettati supinamente dalla città e non più capaci di prospettive. Di conseguenza non si può evitare di prendere posizione pro o contro determinati valori, perché sempre la verità ha più facce e l’individuo ha il compito di trovare ragioni fondate per il suo agire, che non può non ispirarsi per questo al principio di responsabilità. Lezione, come si vede, di stretta attualità.
Se oggi si riscoprono certi testi e certi pensatori del passato, anche un passato molto lontano, non è certo per coltivare l’archeologia del pensiero, ma perché lì si trova un approccio alla realtà più adeguato e soddisfacente di quello prevalente nel tempo presente, troppo spesso schematico e superficiale. E poi non si può non pensare che in molti c’è ormai repulsione per i giudizi sommari, per una cultura ridotta a slogan e ad approssimative sintesi giornalistiche. Per cui emerge anche il bisogno di vedere nel passato più o meno recente una fonte di sapere, una realtà da esplorare con attenzione e rispetto e con cui fare correttamente i conti, sapendo che quando ciò non avviene, quando il passato non è digerito, esso ritorna e il futuro è opaco.
Che ci sia una tendenza più consapevole a rapportarsi al passato in un modo critico-costruttivo, non più liquidatorio come se la storia cominciasse sempre da zero e come se chi viene dopo fosse solo per questo necessariamente migliore di chi c’è stato prima, è ad esempio un articolo di Pier Luigi Battista, sempre sul numero de “La lettura” citato sopra, intitolato significativamente Elogio della Prima Repubblica. In rapida sintesi si sostiene che essa “era dominata dai partiti e non conosceva alternanza, ma modernizzò il Paese senza minare i diritti di libertà. Anche se i governi mutavano, la situazione rimaneva stabile. E le grandi opere si facevano”. “Non era una meraviglia, per carità, ma era un sistema che assecondava il cambiamento sociale… C’era molta corruzione, ma anche adesso c’è. C’era molto assistenzialismo, ma anche adesso c’è. … C’era molto debito pubblico, ma vent’anni di Seconda Repubblica non l’hanno scalfito più di tanto …”. Non è difficile scorgere qui, più che un’esaltazione di quel periodo ormai trascorso, un invito a riflettere su ieri con l’occhio attento alla realtà dei fatti prendendo il buono che c’era e che permane, e su oggi stando attenti a non costruire nuovi miti che si rivelano fragili e inconsistenti, devianti e dannosi.
Ecco, tutto ciò costituisce, volendo, qualche bagliore di speranza, magari non proprio solida, però nemmeno del tutto inconsistente. Cenni, spunti, forse anche tendenze. Vedremo. Certo, si capisce che abbiamo un gran bisogno di strumenti intellettuali per un’analisi critica continua ma non paralizzante, un’intelligenza elastica e pronta al cambiamento ma non privata della memoria. Forse è utile per questo l’abitudine ad un sano esercizio dell’ironia. Potremmo imparare qualcosa da un librino che a suo tempo (1988) mi divertì non poco, Allegro ma non troppo di Carlo M. Cipolla, che contiene due saggi scritti apposta per stimolare l’umorismo, da intendere come “la capacità intelligente e sottile di rilevare e rappresentare l’aspetto comico della realtà”. Mi sento di consigliarli entrambi, in particolare il secondo, che si intitola Le leggi fondamentali della stupidità umana: una volta letto, il sapore dell’ironia non ti abbandona più.
Si potrebbe anche sperimentare l’utilità di un libro recente (2016), piuttosto diverso e di diverso livello ma anch’esso dedicato alla stimolazione del distacco ironico, il Dizionario della stupidità di Piergiorgio Odifreddi. Così magari potremmo essere attrezzati a sopportare meglio le sciocchezze nostre e quelle altrui, essere capaci di ironia e con ciò di riconoscere ciò che è marginale e ciò che è al contrario essenziale. L’ironia era il metodo di Socrate. Il risultato non è garantito, ma ci si può provare. Che il nuovo anno ci sia di aiuto!
Tanti stimoli, caro Franco, e troppo faticoso commentare la carrellata di scritti che sottoponi e che sarebbe necessario aver approfondito per scriverne.
Mi concentro sulla speranza.
Ho fiducia che domani sarà meglio di oggi e lo auguro a quanti non hanno necessità di prestare attenzioni agli anni che vanno ma agli accadimenti. Il giorno infatti in cui ci si accorge che ogni anno è un peso in più sul fardello che la vita ti ha felicemente accumulato addosso, la tendenza è augurarsi un anno come quello trascorso, anche due o tre indietro. Ma sarebbe noioso, perché tempo conosciuto e perché sciaguratamente si spera sempre di meglio. Poi chissà che domani, se non si rischia troppo, se si sta attenti e se si ha fortuna non sia davvero migliore di quello appena trascorso. Ma non mi azzardo a farmi auguri esagerati e zeppi di speranza. Vorrei che il prossimo anno fosse di poco diverso da quello trascorso e non voglio acquistare alcun almanacco, anche se promette tanto, come i programmi del Governo, quelli dell’opposizione e quelli del medico che ti dice che sei ancora giovane se ti curi e ti fai qualche operazione, un po’ lì, un po’ qua.
E poi quei trenta soldi, caro venditore di almanacchi, da pensionato e risparmiatore CRO-BpB, non me li posso permettere.
Allego il classico testo di Leopardi che amo ricordare in questa occasione.
DIALOGO DI UN VENDITORE D’ALMANACCHI E DI UN PASSEGGERE
Venditore – Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi. Bisognano, signore, almanacchi?
Passeggere – Almanacchi per l’anno nuovo?
Venditore – Si signore.
Passeggere – Credete che sarà felice quest’anno nuovo?
Venditore – Oh illustrissimo si, certo.
Passeggere – Come quest’anno passato?
Venditore – Più più assai.
Passeggere – Come quello di là?
Venditore – Più più, illustrissimo.
Passeggere – Ma come qual altro? Non vi piacerebb’egli che l’anno nuovo fosse come qualcuno di questi anni ultimi?
Venditore – Signor no, non mi piacerebbe.
Passeggere – Quanti anni nuovi sono passati da che voi vendete almanacchi?
Venditore – Saranno vent’anni, illustrissimo.
Passeggere – A quale di cotesti vent’anni vorreste che somigliasse l’anno venturo?
Venditore – Io? non saprei.
Passeggere – Non vi ricordate di nessun anno in particolare, che vi paresse felice?
Venditore – No in verità, illustrissimo.
Passeggere – E pure la vita è una cosa bella. Non è vero?
Venditore – Cotesto si sa.
Passeggere – Non tornereste voi a vivere cotesti vent’anni, e anche tutto il tempo passato, cominciando da che nasceste?
Venditore – Eh, caro signore, piacesse a Dio che si potesse.
Passeggere – Ma se aveste a rifare la vita che avete fatta né più né meno, con tutti i piaceri e i dispiaceri che avete passati?
Venditore – Cotesto non vorrei.
Passeggere – Oh che altra vita vorreste rifare? la vita ch’ho fatta io, o quella del principe, o di chi altro? O non credete che io, e che il principe, e che chiunque altro, risponderebbe come voi per l’appunto; e che avendo a rifare la stessa vita che avesse fatta, nessuno vorrebbe tornare indietro?
Venditore – Lo credo cotesto.
Passeggere – Né anche voi tornereste indietro con questo patto, non potendo in altro modo?
Venditore – Signor no davvero, non tornerei.
Passeggere – Oh che vita vorreste voi dunque?
Venditore – Vorrei una vita così, come Dio me la mandasse, senz’altri patti.
Passeggere – Una vita a caso, e non saperne altro avanti, come non si sa dell’anno nuovo?
Venditore – Appunto.
Passeggere – Così vorrei ancor io se avessi a rivivere, e così tutti. Ma questo è segno che il caso, fino a tutto quest’anno, ha trattato tutti male. E si vede chiaro che ciascuno è d’opinione che sia stato più o di più peso il male che gli e toccato, che il bene; se a patto di riavere la vita di prima, con tutto il suo bene e il suo male, nessuno vorrebbe rinascere. Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura. Coll’anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?
Venditore – Speriamo.
Passeggere – Dunque mostratemi l’almanacco più bello che avete.
Venditore – Ecco, illustrissimo. Cotesto vale trenta soldi.
Passeggere – Ecco trenta soldi.
Venditore – Grazie, illustrissimo: a rivederla. Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi
L’opinione di Pier Luigi Leoni
Ho letto quasi tutti i testi citati da Franco e li consiglio, ma, per chi non ha tempo o voglia di leggerli, li riassumo con un celebre aforisma: tutte le cose intelligenti sono state già dette, si tratta solo di saperle dire di nuovo. Perfino l’elogio della prima repubblica non è una novità. Ma la realtà ha almeno due facce e, per quanto si sforzi Pierluigi Battista, è molto più valida la canzoncina di Checco Zalone: «La prima Repubblica non si scorda mai / La prima Repubblica, tu cosa ne sai? / Dei quarantenni pensionati / che danzavano sui prati / dopo dieci anni volati all’aeronautica / e gli uscieri paraplegici saltavano / e i bidelli sordomuti cantavano / e per un raffreddore gli davano / quattro mesi alle terme di Abano. / Con un’unghia incarnita / eri un invalido tutta la vita … / E i debiti pubblici s’ammucchiavano / come i conigli; / tanto poi eran cazzi / dei nostri figli…» L’articolo di Battista sarà archiviato nello scaffale delle banalità, con la categoria del “si stava meglio quando si stava peggio”. Invece la canzonetta di Zalone è già un classico, perché Zalone è dotato dell’ironia che manca a Battista. Gli uomini non dotati di ironia non distinguono i colori della storia, come i daltonici non distinguono quelli della natura. E fa bene Franco a evocare Socrate. Meno felice mi sembra la citazione di Odifreddi, che non ha il dono dell’ironia, ma il vizio del sarcasmo, proprio di chi s’illude di avere un palmo di cervello più degli altri.
Dopo lo tsunami del referendum, sono rimasti rottami che vanno gestiti realisticamente
di Pier Luigi Leoni
Il termine più appropriato per definire gli effetti del referendum del 4 dicembre è “tsunami”. Una ondata anomala che ha cancellato le riforme costituzionali deliberate dal parlamento, giuste o sbagliate che fossero, e ha fatto saltare il governo. Ritiratasi l’ondata, l’Italia si ritrova con la costituzione di prima e con un governo quasi uguale a quello di prima. Con un vecchio capo del governo ritiratosi nel suo partito a organizzare la controffensiva e con un nuovo capo del governo che dice con flemma aristocratica romana le stesse cose che direbbe, con scilinguagnolo fiorentino, il suo predecessore e aspirante successore. Quasi tutti i partiti, compreso quello di maggioranza relativa, pretendono nuove elezioni, ma non la cantano chiara. In primo luogo, il parlamento può essere sciolto solo dal Presidente della Repubblica, e solo quando verifichi la inesistenza di una maggioranza in grado dii sostenere un governo. In secondo luogo, è poco credibile che i parlamentari non vedano l’ora di andare a casa perdendo, spesso per sempre, onori e prebende. In terzo luogo, sembra poco probabile che tutti coloro che gridano “Elezioni! Elezioni!” siano tanto sicuri della benevolenza del popolo sovrano. Quelli del PD hanno una paura dannata del M5S e viceversa; mentre il centrodestra è troppo frammentato per avere voce in capitolo. Si arriverà alle elezioni anticipate solo se il professor Sergio Mattarella e il conte Paolo Gentiloni Silverj non riusciranno a barcamenarsi parlando poco, come sanno fare bene, e sfruttando le contraddizioni implicite negli atteggiamenti dei partiti, come hanno saputo fare finora. Ma c’è da trarre una morale da tutto questo: tra i difetti della costituzione c’è anche il procedimento di revisione costituzionale che ne affida le modificazioni, invece che a una corte eletta appositamente a suffragio universale e con criterio strettamente proporzionale, a un parlamento eletto per realizzare programmi politici. E, inoltre, lascia l’ultima parola al corpo elettorale, che inevitabilmente ne trae occasione per sfogare gli umori politici del momento. Lo vogliamo capire o no che gli elettori, come è umano che sia, cambiano opinione da un giorno all’altro? Li vogliamo leggere i sondaggi di opinione?
La via d’uscita da questa condizione di statica instabilità sono le elezioni appena approntata una legge elettorale. Sarà difficile, perché ciascun partito la vuole tagliata sulla sua dimensione e le sue prospettive. Addirittura c’è chi ripropone con forza un sistema proporzionale, che si è dimostrato fallimentare e ci ha portato tutti, anni fa, a volere un sistema maggioritario. Molti dimenticano volutamente i disastri prodotti da quel sistema elettorale proporzionale, in cui era sufficiente un tensione in uno qualsiasi dei partitini di governo per farlo cadere.
I candidati ministri non nominati cominciavano il giorno dopo il giuramento del Governo a costruire gruppi d’assalto di “franchi tiratori” pronti ad assassinare il Governo per rimettersi in gioco.
La durata dei governi è stata sette mesi di media. Oggi sarebbe un pazzia, con le complessità numerose che si presentano, come nel passato, ma con soluzioni che devono essere velocissime.
C’è chi dice che il proporzionale sia la massima espressione della rappresentanza dei cittadini e solitamente sono quelli di sinistra, che hanno il vezzo di moltiplicarsi intorno al capetto che non vuole morire e ha quel poco di fantasia necessario per trovare motivi di differenziazione.
Ma è desiderato anche dagli 0,1 di destra, non si sa mai, un seggio o due.
Della governabilità, di un sistema in grado di garantire una gestione sicura del Paese se ne fregano, meglio sopravvivere, coperti dal cappello ideologico di una democrazia più rappresentativa ma inutile a governare. Sistemi elettorali perfetti non esistono e speriamo che la nostra pessima classe dirigente abbia uno slancio di onestà intellettuale e approvi un sistema conforme alla Costituzione e capace di garantire un governo stabile nel contesto politico odierno.
È un caso in cui l’intervento di San Pietro Parenzo sarebbe auspicabile.
L’opinione di Franco Raimondo Barbabella
È chiaro da una vita, caro Pier, che le riforme vere si fanno se c’è una classe dirigente che le vuole e le sa fare, sia tecnicamente, sia perché sa creare le condizioni del consenso, evidentemente essendosi posta come interprete credibile di bisogni e di orientamenti e magari anche di pulsioni.
Questo evidentemente non è. Seppure a posteriori, si può anche dire che non poteva essere, sia per come la riforma Renzi-Boschi era fatta, sia per come Renzi e il Governo si sono posti nell’occasione, sia per un retroterra di disagio e di ripulsa per una classe dirigente vista come lontana e nemica.
Una classe dirigente vera a mio parere avrebbe dovuto da tempo decidere di fare le riforme istituzionali in modo organico e dunque mediante un’Assemblea Costituente eletta a suffragio universale. Non è stato così e sappiamo perché.
La questione, per come sono andate e per come stanno oggi le cose, non riguarda solo il PD renziano né il solo PD come tale, ma l’intera classe dirigente italiana, incapace di porsi come la classe dirigente capace di guidare il Paese verso un avvenire possibile. Quindi le difficoltà continueranno. Con godimento di tutti gli intriganti e i mestatori e gli approfittatori di ogni tipo e di ogni dove. E con la sofferenza di tutti coloro che hanno fatto e continuano a fare i cittadini seri. Finché, si dice, non verrà fuori il matto o la massa degli incazzati non prenderà i forconi. Io però continuo a pensare che sia meglio usare il cervello. Confesso però che mi sento sempre più in minoranza.