Ancora sul tempo delle bufale pensando però anche ai rimedi
di Franco Raimondo Barbabella
Pierluigi Battista ha spiegato bene perché sono i movimenti antisistema, es. Grillo & Co, “a sentirsi a proprio agio nei vapori della politica «post-verità»: il complottismo antisistema si fonda sul sospetto gridato come fosse verità negata che le forze del «sistema» occultino per i loro loschi interessi i fatti «veri»”.
E così anche nella politica, oltre che nella funzione dei media, torna centrale la questione dei fatti contrapposti alle fantasie più o meno ideologiche, e della verità contrapposta alle bugie, alle bufale della post-verità. Naturalmente parliamo di verità con la v minuscola, frutto di ricerca razionale, di rispetto dei fatti e di apertura al confronto. Una verità indispensabile per una società aperta, realmente democratica, interessata a che ognuno possa dare il meglio.
Dunque si pone con urgente consapevolezza anche la questione di come contrastare la montante tendenza a rendere irrilevante il ruolo dei fatti e della verità nella vita collettiva. Sono ormai molti a discuterne e, come sempre accade in questi casi, viene fuori il meglio e il peggio di ciò che è sedimentato nella società. Una delle posizioni peggiori l’ha assunta il presidente dell’Antitrust Giovanni Pitruzzella, che ha ipotizzato un “controllo internazionale” sulle bufale online.
Posizione priva di senso, sia perché non si capisce che cosa vuol dire controllo in questo ambito né come esso possa essere esercitato da una qualche autorità pubblica, sia soprattutto perché non si vede come si possa ammettere che qualcuno diventi il depositario della vera verità, che sarebbe per forza la Verità, quella amministrata dal “Ministero della Verità” di cui parlò George Orwell nel suo “1984”. In sostanza una cosa non molto diversa da quella immaginata da Grillo per mettere alla gogna stampa e tv, il “tribunale del popolo”.
Lo stesso Pierluigi Battista propone una soluzione opposta: “Ma c’è un solo modo per arginare la forza delle notizie false e manipolate: combattere una battaglia di controinformazione democratica, fatto contro bugia, argomento contro falsificazione, dati contro fantasie”. In sostanza un compito di tutti, a partire proprio da quei media che in parte vedono responsabili i giornalisti, oltre ai proprietari e agli utilizzatori.
Io aggiungo non tanto la scuola quanto la comunità educante, un’espressione desueta che andrà riscoperta. La scuola c’entra, perché dovrà sempre più preoccuparsi sia dell’addestramento intellettuale che dell’educazione del cittadino, ciò che richiede la formazione di quella mentalità critica senza la quale non c’è esercizio di libertà e di responsabilità. Ma c’entra anche la società come tale, ogni comunità e l’insieme delle comunità, ciascuna e tutte necessariamente interessate (dovrebbero esserlo) a fermare la deriva di una società della bufale, sostanzialmente una società di furbi contro sprovveduti, complessivamente degradata, culturalmente povera, gretta in molti sensi.
L’opinione di Pier Luigi Leoni
Non mi sembra solo un problema di «non verità», ma anche di verità e mezze verità che dovrebbero rimanere riservate perché possono avvelenare la politica nonché la vita di persone e di aziende. Gli strumenti approntati dalla tradizione giuridica – reati di ingiuria e di diffamazione, tutela della privatezza, risarcimenti di danni morali e materiali, sequestri ecc. – non sono stati mai sufficienti prima della diffusione della rete, figuriamoci adesso. Comunque devono essere affinati e rafforzati; del resto il diritto si è sempre complicato a mano a mano che si complicava il mondo. Per un certo tempo ho sperato che la cattiveria e la stupidità che dilagavano sulla rete avrebbero finito col nauseare gli utenti e con lo sputtanare i gestori che sguazzano in certe paludi mefitiche. Ma la mia speranza è andata delusa, come quando avevo sperato che la propaganda commerciale avrebbe stancato le persone normali, invece è diventata sempre più invadente, stupida e insistente. Anche molte persone di fine educazione e buona cultura hanno finito col rassegnarsi a quella che eufemisticamente è chiamata pubblicità, mentre è volgare propaganda che martella i cervelli dei consumatori per condizionarne i comportamenti. Una scuola buona dovrebbe insegnare a discernere l’informazione dalla mascalzonaggine, sia sulle strade che in radio- televisione e sulla rete. Ma il popolo lo vuole? Finora ha cercato parcheggi per la gioventù e diplomi più o meno facili confidando nei privilegi legali alla faccia delle qualità morali, intellettuali e culturali.
Le buone regole di vita
di Pier Luigi Leoni
Mi sono imbattuto in uno scritto di Anton Maria Salvini (1673-1729), accademico della Crusca, che descrive, molto meglio di come saprei fare, la linea pedagogica seguita da mio padre nel cercare di darmi un’educazione. Mi piace sottoporre al commento dell’amico Franco un testo che, in qualche modo, spiega ciò che sono e ciò che vorrei essere.
«Io stimo tutti gli uomini come fratelli e paesani: fratelli come discendenti dal medesimo padre, che è Iddio; paesani come tutti di questa gran città che mondo si chiama. Non mi rinchiudo né mi ristringo, come i più fanno, che non degnano se non un certo genere di persone (come gentiluomini e letterati), e gli altri che stimano loro non appartenere; e gli artigiani e i contadini e la plebe, non solamente non degnano, ma talora strapazzano… Ho odiato sempre l’affettazione di parere, in tutti i gesti, nel portamento, nelle maniere, nel tuono della voce contraffatto, un virtuoso o un signore d’importanza: sfuggendo più che la morte un atto di superiorità, e facendomi così degnevole, umano, comune e popolare. E, per dirvi tutto il mio interno, non saluto mica per semplice cerimonia, ma per una stima universale che io nutrisco nel cuore verso tutti, sieno chi si pare e abbiano nome come vogliono. Perché finalmente ognuno, per sciatto e spropositato che sia, fa la sua figura nel mondo, ed è buono a qualcosa. Si può aver bisogno di tutti: e perciò tutti vanno stimati. Questa stima degli altri fa che io non sono invidioso, ma ho caro il bene di tutti, e lo tengo come se fosse mio proprio, godendo che ci sia degli uomini che sappiano e che la patria e il mondo ne riceva onore. Sicché, non solamente, con l’aiuto di Dio, mi trovo a mancare di quei tormenti cotidiani che apporta questo brutto vizio dell’invidia, che si attrista del bene degli altri: ma di più vengo ad avere diletto e piacere quando veggo la gente, e particolarmente gli amici, esser avanzati e crescere in guadagni o in riputazione. E questo modo non si può dire quanto mi mantenga lieto e mi faccia star sano. Séguito i miei studi allegramente perché tutto m’attaglia e da ogni libro mi pare di cavar costrutto. E ordinariamente stimo gli autori e non li disprezzo: come veggo fare a molti senza neanche averli letti, che per parere di giudizio sopraffino appresso al volgo sfatano e sviliscono tutto, e pronti sono e apparecchiati piuttosto a biasimare che a lodare. Dilèttomi per tanto in varie lingue oltre alla latina e la greca, piacendomi il grave della spagnuola e il dilicato della francese. Or che pensate? Ultimamente mi sono dato all’inglese: e mi diletta e mi giova assaissimo. E gl’Inglesi, essendo nazione pensativa, inventiva, bizzarra, libera e franca, io trovo nei loro libri grande vivacità e spirito: e la greca e l’altre lingue molto mi conferiscono a tenere a mente i loro vocaboli, per via d’etimologie e di similitudini di suoni. Per concludere, converso coi libri come con le persone, non isdegnando nessuno, facendo buon viso a tutti, ma poi tenendo alcuni pochi, buoni e scelti, più cari.»
L’opinione di Franco Raimondo Barbabella
È un bel testo e ringrazio l’amico Pier per avermelo proposto per il commento. Che cosa posso dire dunque? Innanzitutto che l’autore delinea una dimensione personale di grande spessore umano, forza d’animo, raffinatezza intellettuale, vasta cultura e apertura al nuovo. In secondo luogo che il beneficiario di una simile linea pedagogica è stato fortunato ad avere un genitore capace di farsene interprete e di applicarla. Fortunato e bravo a farne il suo modello di vita.
In fondo anch’io posso dire di aver avuto insegnamenti di questo tipo, pur non essendo i miei genitori in condizione di attingere a fonti di cultura classica o moderna. Li ho avuti da loro più con l’esempio e con le raccomandazioni derivate dall’esperienza diretta del mondo che non con precisi strumenti culturali. Il mio era infatti un ambiente di campagna, in cui vigeva la cultura di una tradizione fatta di insegnamenti prudenti e di buon senso interpretata soprattutto da mia madre, e in cui mio padre inseriva però un gusto spiccato per le novità, una curiosità intellettuale sostenuta da acuta intelligenza pratica e una insaziabile passione politica di stampo progressista, di quel progressismo socialista che vedeva nella scuola e negli studi la possibilità dell’avanzamento culturale e del riscatto sociale.
Di qui i grandi sacrifici (lavoro di notte, anche pericoloso; risparmi su tutto; capacità di intraprendere nuove attività) per farmi studiare quando ancora abitavamo in campagna, poi il trasferimento dalla campagna alla città, il liceo e l’università. Traguardi che lui aveva ben chiari e che io ho assecondato con la necessaria determinazione, e però anche con i problemi che ai vari passaggi erano connessi, come si può facilmente immaginare.
Ed eccoci qua, caro Pier, a dialogare ormai da tanti anni su tutti gli argomenti che ci passano per la testa, compresa la nostra stessa vita, senza doverci vergognare di qualche malefatta, e per quanto mi riguarda anche senza troppi rimpianti, soprattutto considerando il punto di partenza. Sarebbe stato possibile senza quegli insegnamenti? Merito nostro, perché in fondo la vita porta la responsabilità di chi la vive. Però merito anche dei nostri genitori, espressione di quella generazione che, avendo conosciuto da vicino le conseguenze della pazzia e della malvagità umana, sapeva guardare avanti investendo sui figli, di sicuro per amore, ma anche perché quell’esperienza non si ripetesse. Mio padre non si è mai stancato di ripetermelo. E io cerco di non dimenticarlo, anche coltivando quel senso dell’amicizia autentica che per lui era un valore assoluto, insieme all’onestà e ai doveri sociali.