La giustizia parallela di Grillo: una sfida alla magistratura
di Pier Luigi Leoni
La cosiddetta “costituzione più bella del mondo”, della quale il popolo sovrano ha recentemente voluto che non fosse intaccata la bellezza, dispone, all’articolo 27, che «l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva». È il principio della presunzione di innocenza, messo nero su bianco per la prima volta dal Montesquieu, che dovrebbe impedire gli abusi del potere sia poliziesco che giudiziario. Questo principio è indigesto al Movimento 5 Stelle, che non intende applicarlo agli eletti nelle sue liste. Anche se, col recente “codice etico”, l’inflessibilità è stata attenuata.
Non entro nel dettaglio, perché stampa e televisione ne stanno abbondantemente trattando. Mi limito a osservare che Beppe Grillo e il capo della “Casaleggio e Associati” si dimostrano ancora una volta incolti e irrispettosi delle conquiste della civiltà giuridica. Ma non si può dire che non siano furbi. Hanno cominciato legando le loro sorti alla giustizia, consapevoli del fatto che il popolo conosce bene le magagne della politica e della burocrazia, delle quali fa esperienza quasi quotidiana, ma conosce molto meno le magagne della polizia e della magistratura. Un po’ per pigrizia, un po’ per autocontrollo, polizia e magistratura si lasciano sfuggire una miriadi di reati, e quindi la gran parte dei cittadini non hanno esperienza di quanto sia penoso passare nel tritacarne della giustizia italiana.
Ma da un po’ di tempo i grillini, che immaginano di essere in grado di purificare la politica, devono constatare che la magistratura se ne frega della loro immaginazione e martella e assedia i loro esponenti. Quando i magistrati romani salvarono la sindaca, che aveva omesso di dichiarare un incarico di consulenza, e dettero la colpa al modulo dell’autodichiarazione, furono buoni e illusero i grillini. Ma poi ha prevalso l’orgoglio di casta, nel senso che, se si deve dare un’aggiustata alla politica, ci devono pensare i magistrati e non un comico appaiato a un’azienda informatica. I capi del M5S l’hanno capito e corrono ai ripari approntando un sistema giudiziario parallelo. Se sono più furbi i capi grillini o i magistrati, lo vedremo presto.
La presunzione d’innocenza è un principio irrinunciabile nella nostra cultura giuridica, tanto che se n’è accorto anche Grillo, che, accettandolo, ha ottenuto di tutelarsi dagli errori dei suoi e nel contempo di essere il giudice assoluto di quando applicare il principio, lui, “Casaleggio e associati” e qualche fedele.
In un Paese ingolfato da leggi, commi, codicilli, burocrazia così opprimente da essere considerata non l’alleato ma il freno per qualsiasi azione amministrativa, tanto potente che è tra le sue maglie che manovrano corrotti e corruttori, è pericoloso muoversi, anche per chi è senza macchia.
Grillo, sagace padre padrone dei suoi, è diventato ora anche il giudice supremo del suo movimento: lui sa, al di là della magistratura, chi è colpevole e chi no e decide di conseguenza l’espulsione o meno. Poi sacrificare ogni tanto qualcuno aumenta anche la fiducia nel capo dei più semplici e il timore dei più intelligenti. Il risultato finale è che boss e associati sono sempre più decisivi e in un movimento dove crescono persone che “parlano” e cominciano anche a “pensare”, è essenziale. Il messaggio deve giungere forte e chiaro.
L’opinione di Franco Raimondo Barbabella
Vedo che anche tu coltivi il vezzo del politicamente corretto e chiami la Raggi sindaca. Vabbè, siccome l’uso diffuso fa la lingua, posso perdonarti. Ma almeno, caro Pier, ti rendi conto che mi hai ridotto ad essere più conservatore di te?
A parte questo, noto che sei ultraindulgente con Grillo, Casaleggio Associati, e seguaci. Ah, le tue assidue frequentazioni! Non può essere Erasmo. Allora Gómez Dávila? Non entri nel merito del cosiddetto codice etico, dici che si tratta di una sfida alla magistratura e ti limiti ad osservare che ciò dimostra incultura e mancanza di rispetto per la civiltà giuridica. Ma dai! Non può non esserti chiaro che si tratta di cosa molto più seria: semplicemente il disprezzo per la democrazia. Mi spiego, ovviamente senza la pretesa di insegnare qualcosa a qualcuno, tanto meno a te, che non ne hai certo bisogno.
Se il centro di ogni decisione di tutto ciò che riguarda gli eletti dal popolo non fa riferimento alla Costituzione e alle leggi ma ad un signore non eletto da nessuno a sua volta guidato da un soggetto privato che per di più, come sostengono in molti, usa algoritmi poco trasparenti, allora siamo alla negazione in radice di ogni diritto proprio dei sistemi democratici. Non c’entra più Montesquieu, siamo semplicemente fuori da normali regole di convivenza democratica: regole private sostituiscono regole pubbliche, semplice esautoramento del popolo sovrano, i contratti privati sostituiscono le leggi.
Molti della carta stampata e di quella online, delle tv e dei social media, a proposito di codice etico hanno parlato di svolta garantista. Ma come può esserci svolta garantista se il passaggio è da arbitrio non formalizzato ad arbitrio formalizzato? Prima, decideva arbitrariamente Grillo se cacciare o no un eletto dal popolo quando questi avesse ricevuto un avviso di garanzia, e lo faceva senza troppi complimenti (esempio: Pizzarotti si, Nogarin no, ecc.); ora, decide Grillo sempre arbitrariamente se cacciare o no l’eletto dal popolo con l’avallo del codice etico. Cioè non cambia niente. Non ci vuole certo Aristotele per applicare anche a ciò che scrive e fa Grillo la normale logica formale e scoprire come stanno le cose. Se non lo si fa, se ad esempio Repubblica non lo fa, ci saranno delle ragioni e magari da un punto di vista diverso dal mio saranno anche buone. Io penso però che non lo siano.
Lo so, il mio ragionare potrà apparire poco raffinato, e anche poco attento al culto odierno della post-verità, ma ammetto che non riesco a liberarmi dal condizionamento dei maestri del pensiero moderno, da Galileo a Kant e Popper, da Constant a Tocqueville, da Beccaria a Kelsen, ecc. ecc.
Mi fermo qui. Aggiungo soltanto che la sottovalutazione del fenomeno grillino va letta in continuità con altri momenti della storia moderna, non solo italiana, in cui ciò che all’inizio sembra una protesta legittima, e magari anche lo è, o roba passeggera che si può prendere sottogamba, si rivela poi per quello che effettivamente conteneva in nuce, un regime fondato sul privilegio di chi appartiene alla setta dei presunti perfetti. Ma capisco e ammetto le differenze, per cui se così piace, così sia. Io però sto da un’altra parte.
Il tempo delle fake news, più semplicemente le bufale
di Franco Raimondo Barbabella
Fake news significa semplicemente notizia falsa, non per pigrizia o per distrazione, ma al contrario coscientemente fabbricata e poi automaticamente creduta e diffusa, tale da influenzare l’opinione pubblica. La versione edulcorata si chiama, in inglese post-truth, in italiano post-verità, parola composta che gli Oxford Dictionaries hanno scelto come parola dell’anno 2016, con il significato, più che di espressione falsa, di “atteggiamento mentale di chi considera alla stregua di un optional la differenza tra ciò che è vero e ciò che non lo è: spacciando indifferentemente argomenti sensati o meno – senza darsi pena di consentire una verifica – a seconda dei propri fini e dei propri interessi del momento” (Huffington Post).
Come si vede, la versione edulcorata non è di minor significato corruttivo di quella più dura. Quello che conta infatti è il fenomeno in sé, la diffusione cosciente di notizie false e la tendenza a crederle senza bisogno di verifica (parola che, va ricordato, letteralmente vuol dire fare vero, corrispondente al vero). Conta molto il fatto che questa espressione abbia preso quota, nel mondo anglosassone dopo la Brexit e la vittoria di Trump, in Italia dopo la vittoria del no al referendum del 4 dicembre, quando ci si è accorti quale importanza possa avere nell’orientare l’opinione pubblica l’uso spregiudicato dei media, in particolare quello dei social media.
Naturalmente, chiunque conosca un po’ di storia sa che di notizie false fabbricate ad arte la storia è piena. Si potrebbe cominciare dal Constitutum Constantini (la “Donazione di Costantino”), fabbricata (lo scoprì l’umanista Lorenzo Valla) per giustificare la giurisdizione della Chiesa sui territori da essa direttamente amministrati (il Patrimonium Sancti Petri), fino alla falsa testimonianza di due giovani su presunte affermazioni di Baruch Spinoza circa l’esistenza di Dio utilizzata dagli ebrei di Amsterdam per decretare la sua messa al bando dalla comunità, o in tempi più recenti le sistematiche falsificazioni di vicende e documenti nei sistemi dittatoriali del novecento per colpire i nemici interni o facilitare e giustificare scelte di politica estera, ciò che non ha risparmiato nemmeno le democrazie contemporanee, basti pensare a come è stata giustificata da USA e GB la guerra contro Saddam.
Ma oggi siamo di fronte ad un fenomeno diverso: non sono gli stati, i poteri costituiti, a falsificare documenti o a fabbricare false notizie per scopi politici, condivisibili o meno, ma centri di potere opachi o movimenti o individui per scopi del tutto privati o di potere comunque opaco, mediante l’uso spregiudicato dei social. Si pensi alla diffusione di roba come la teoria del “complotto delle scie chimiche”, o alla gogna mediatica riservata alla scienziata Ilaria Capua falsamente accusata di traffico di virus, o da ultimo alla campagna mediatica di “Forza Nuova” sulla meningite messa in relazione all’arrivo degli immigrati dall’Africa.
Questo fenomeno si aggiunge poi all’orientamento storicamente consolidato e sempre più pronunciato del mondo dei media tradizionali, carta stampata e tv, a schierarsi a fianco dei diversi sistemi di potere o ad esserne parte integrante, selezionando le notizie in modo arbitrario o pompandole a seconda delle convenienze. Non c’è bisogno di ricordare la lottizzazione delle reti Rai o la funzione di appoggio a interessi particolari delle tv private o a chi fanno capo le diverse testate giornalistiche.
Era scontato che un movimento in ascesa come l’M5s, pur essendo stato abbondantemente o sottovalutato o tollerato o coccolato dalla stampa per non arrivare secondi a nessuno nel mettersi al servizio di un potere forse in arrivo, e aiutandolo così a crescere, si accorgesse che lì c’è un potere da utilizzare. E nel modo tipico spregiudicato di Beppe Grillo, supportato dalle strategie della “Casaleggio e Associati”, nel quadro della lotta aperta per il potere sia a livello locale che nazionale, si decidesse di porre il problema o con me o contro di me.
Ecco allora la polemica sulle fake news e sulla post-verità. Grillo che dice: “Propongo non un tribunale governativo, ma una giuria popolare che determini la veridicità delle notizie pubblicate dai media. Cittadini scelti a sorte a cui vengono sottoposti gli articoli dei giornali e i servizi dei telegiornali”, Mentana che si sente colpito e annuncia querele, la stampa che si indigna, Beppe Giulietti che si erge a salvaguardia della categoria.
Forse è esagerato dire che è il bue che dice cornuto all’asino (però come non ricordare le posizioni grilline sulle scie chimiche e sui vaccini?), ma come minimo è difficile evitare la sensazione di un megafestival dell’ipocrisia. Un solo esempio: Repubblica che si fa garantista ed esalta la presunta svolta di Grillo fa semplicemente ridere. Bisognerà ricordare che Repubblica è il giornale che a suo tempo è stata una delle punte avanzate della gogna mediatica di Silvio Berlusconi (a scanso di equivoci, lo rilevo per il doveroso, etico, rispetto dei fatti) pubblicando tutte le intercettazioni che non avevano nessuna attinenza con i capi di imputazione.
Appunto, solo chi ha la coscienza non proprio a posto può interpretare la posizione assunta da Grillo con il nuovo “codice etico” come svolta garantista (ora giustamente negata anche dall’interessato). In realtà, come dico anche in altra parte di questa rubrica, si tratta della continuazione del disprezzo per la democrazia esercitato con altri mezzi.
E tutto nella mia mente si fa oggi più chiaro, perché mentre scrivo apprendo la notizia della morte di Tullio De Mauro, lui sì davvero un altro Grande che se ne va. Il necrologio della mia associazione professionale (l’ADi) lo pubblico anch’io sulla mia pagina Fb. Qui mi limito a dire che egli è stato l’esempio limpido dell’intellettuale che opera per la crescita culturale, morale e civile, del popolo di cui si sente ed è parte. La sua profonda convinzione essendo che conoscenza è libertà e libertà è democrazia. Le notizie false sono fuori da questo orizzonte. Qui l’unico esercizio ammesso è la faticosa ricerca della verità, quella umana, indispensabile ad orientarsi ma sempre provvisoria. Il paragone con gli ologrammi che affollano il mondo politico è francamente impossibile.
Ogni volta che sento un politicante affermare che gli immigrati “bisogna aiutarli a casa loro” e terminano così l’affermazione come se avessero risolto il problema, mi viene una botta di rabbia, mi sento preso per i fondelli, provo tristezza per i connazionali che ci credono e li votano, ho paura per il Paese, che sta sprofondando nell’indifferenza nei confronti della verità. Come se fosse possibile davvero finanziare la Libia o la Siria (quali?) e la Tunisia o la Nigeria perché risolvano i loro problemi lì dove sorgono. Coloro che propongono queste affermazioni lapidarie sono gli stessi che poi hanno lanciato anatemi contro il governo perché lo scorso anno è stato acquistato olio tunisino in forma privilegiata.
Questo è l’”atteggiamento mentale di chi considera alla stregua di un optional la differenza tra ciò che è vero e ciò che non lo è”, ci ricorda Barbabella, ma è un atteggiamento praticato per interesse, non perché non si sappia che esiste la Verità, difficile da scoprire, ma che c’è, coperta da scorie che stanno dentro di noi, pronti ad accettare quanto ci tranquillizza e ci fa sentire un gruppo che ha le medesime idee, che non ci crea dubbi, che ci fa sentire nel giusto, che ci protegge.
Quelle “post-verità” sono scorie che altri ci ammassano addosso allontanandoci dalla possibilità di comprendere i fenomeni che ci circondano e ci plagiano per i loro interessi, economici o politici o di potere. Il web è il veicolo più facile delle “bufale costruite per divenire verità”, perché nei social è facile trovare stupidaggini, si nascondono con facilità le bufale in malafede, c’è maggiore disponibilità dei fruitori a scorrere velocemente titoli e sottotitoli o foto false anche senza approfondire, darle per buone e farle diventare informazione per la composizione di idee e giudizi. Sui social non c’è il controllo che esiste nei giornali o nelle televisioni, chi lancia bufale non ha bisogno di pubblicare smentite, è anonimo, può inventare senza pericolo e chi sa usare questi strumenti può ottenere risultati straordinari nell’orientamento del consenso. Per certi politici, che trovano qualche difficoltà nei media tradizionali, specie quando c’è un giornalista onesto, tanto le sparano grosse, questo è il terreno di coltura più adatto, insperato, efficace, senza contraddizione.
Spari, confermi, sostieni, arricchisci con qualche numero e voilà, ecco la verità. Il segreto è che sia verosimile, è più facile affermare la bufala, ma non è necessario.
Non basta il controllo dei social, ammesso che sia lecito e possibile, per contrastare questo fenomeno dilagante. È necessaria una battaglia culturale senza quartiere, da combattere dalle scuole elementari alle Università della terza Età, ogni giorno, con continuità e costanza.
E tanta speranza.
L’opinione di Pier Luigi Leoni
Il mio amico Mauro Roticiani ricordava qualche mese fa sulla rivista LE GRANDI FIRME DELLA TUSCIA, curata dall’associazione culturale LETTERALBAR, “la fondamentale importanza che le parole hanno, anche se spesso non ce ne accorgiamo, nel nostro inconscio e nel nostro carattere: cadono nel nostro animo come pietre in un pozzo”. Anche le cosiddette bufale, le diffamazioni, le calunnie, le bugie dette per nuocere o per scherzare, diffuse per mezzo della stampa, della televisione e della rete cadono negli animi come pietre in un pozzo. Adesso il problema è come frenare, con strumenti giuridici adeguati, le ingiurie e le diffamazioni perpetrate su internet.
Stando all’esperienza comune, qualcosa si farà, ma con scarsa efficacia, come scarsa efficacia ha il codice penale nei confronti delle ingiurie e delle diffamazioni che, da che mondo è mondo, sono di casa in ogni luogo in cui due o più persone s’incontrano. Ma il problema che Franco solleva è quello di un movimento politico che di bufale proclamate dal palcoscenico e diffuse su internet se ne intende. Però non è tanto il vizio delle bufale che preoccupa Franco, quanto il disprezzo della democrazia (e, aggiungerei io, della civiltà giuridica) da parte del comico demagogo e dei suoi accoliti.
È tanto preoccupato il mio amico Franco che rimprovera la mia tenuità nel criticare il movimento di Grillo. Riconosco di essere influenzato dal sociologo Francesco Alberoni, che spiega come la fase incandescente di un movimento allo stato nascente dura poco; a tale fase segue l’istituzionalizzazione, ciò la fine del momento entusiastico e lo sbocco nella concretezza. Che tale concretezza possa avere carattere autoritario è possibile; ma non mi sembra affatto che gli Italiani ne sentano il bisogno.
Certo, le invettive di Robespierre contro la casta dell’epoca erano addirittura meno aggressive di quelle di Grillo, ma chi è dotato di senso del ridicolo, e non vi ha rinunciato, prima o poi prenderà il nostro comico a pernacchie. Ha cominciato a farlo l’ex ministro Gianfranco Rotondi scrivendo il libro “Meglio la casta. L’imbroglio dell’antipolitica” e presentandolo il 5 gennaio su La7 in una puntata di “8 e mezzo” che resterà memorabile. Consiglierei di leggere il libro, che contiene una difesa della cosiddetta “casta” dei politici con affermazioni serie, ma anche con facezie esilaranti del tipo: «Solo i medici della camera conoscono l’effetto dello stress e della scomoda posizione di immobilità sui duri scranni di legno tanto ambiti ma tutt’altro che confortevoli »; «Rinunciare all’autista? Errore madornale, l’onorevole al volante è pericoloso. Negli archivi c’è una discreta casistica di omicidi stradali compiuti da deputati»; «E le donne? Neanche quelle. Chi mai accetterebbe la corte di un parlamentare? Tempo fa un giornale realizzò un’inchiesta sul marito ideale: l’onorevole era in fondo alla classifica battuto perfino dagli elettricisti. Almeno loro, alla sera, sanno rilassarsi». La trasmissione televisiva ha dato la stura a un profluvio di insulti e minacce da parte di grillini imbufaliti. Rotondi ha reagito con frasi del genere, che possono tranquillizzare chi prende troppo sul serio i grillini: «Da dieci anni si parla di costi politici, trasmettendo all’opinione pubblica che sia questa la colpa della crisi»; «Inizio modulo
La Dc ha governato questo Paese per decenni, nessuno se ne fregava di quanto guadagnava De Gasperi»; «Diciamola tutta. Fanno gli onesti. Ma lo sapete che Virginia Raggi prende più del Presidente del Consiglio?»; «Cari 5stelle, non sono io che devo maturare il vitalizio. Siete voi che volete arrivare a settembre per maturarlo»; «È chiaro che restituite i soldi. State in una dittatura, appena parlate venite sbattuti fuori»; «La politica non è l’elemosina, ma la capacità di risolvere i problemi della gente»; «Ho rituittato una a caso tra le 2456 minacce di percosse, morte e aggressione ricevute in rete dopo che ho messo alla berlina i peracottari a 5 stelle».