Lo stato della scuola misura le condizioni della società e la capacità di chi la governa
di Franco Raimondo Barbabella
Torno sul tema scuola sia perché, oltre ad essere uno dei più importanti di per sé, è quello che ci indica quasi epidermicamente come si orienta idealmente e come si organizza effettualmente una società ad ogni livello di responsabilità. E poi nel frattempo ci sono stati anche fatti nuovi che stimolano la riflessione. Ritengo comunque utile partire ancora dai dati dell’indagine internazionale OCSE-PISA 2015 (72 paesi di cui 35 OCSE) sulle competenze e i comportamenti dei quindicenni, che per l’Italia per più di una ragione dovrebbero essere oggettivamente fonte di preoccupazione e di azione.
Ne sottolineo tre, aderendo ad analoga segnalazione che ne ha fatta ADi (Associazione Docenti e Dirigenti italiani) nella newsletter di questo dicembre:
- Elevate ripetenze e bocciature: un sesto dei quindicenni italiani ha ripetuto un anno e il 10% è stato bocciato alla scuola superiore.
- Molte ore di scuola e di studio con risultati inferiori a Paesi che ne hanno meno. La quantità non è sinonimo di qualità. I nostri curricoli bulimici costruiti con un numero esorbitante di discipline obbligatorie, non si traducono in migliori risultati.
- Gli studenti italiani sono fra i più assenteisti. Il numero delle ore e dei giorni “saltati” è impressionante, solo un Paese ci supera. Un segnale clamoroso che la scuola non è un luogo in cui si va volentieri.
In verità non tutto ciò che emerge da OCSE-PISA 2015 è negativo (c’è un certo recupero su diversi piani, ad es. matematica, ecc.), ma se ai dati riferiti sopra si aggiungono quelli pubblicati a luglio scorso da Eurostat sugli abbandoni precoci, allora le preoccupazioni devono aumentare e però tradursi in azioni urgenti e coerenti. La media europea dei ragazzi che nel 2015 hanno abbandonato anzitempo la scuola è l’11%, ma il tasso italiano è il 14,7%, secondo solo a quello della Spagna. Non so precisamente in quale misura tutto questo ci riguarda qui, nel nostro territorio, ma so che ci riguarda.
Per questi dati, che denunciano problemi di lungo periodo ai quali non si riesce a mettere termine con una politica decisa e lungimirante, dico che è urgente intervenire e fare della scuola la vera sfida vincente di una società che vuole bene ai propri figli. Non solo, ma dico anche che tutti possono e debbono fare molto per migliorare. Non mi sono mai iscritto tra i “laudatores temporis acti”, ho sempre visto e denunciato ciò che a mio avviso non andava e però ho detto anche sempre e fatto ciò che a mio avviso si doveva e si poteva fare, sulla scuola come su tutto ciò che ho preso in considerazione. E sulla scuola a maggior ragione.
Lo faccio anche in questa occasione su un terreno che richiama per forza di cose tutti gli altri e richiede, per ragionarci sensatamente, di porsi nell’ottica ampia di quella che si chiama visione generale, una visione che si chiede anzitutto a chi sceglie di fare il ministro o l’amministratore locale. E non è un optional, è invece un dovere e una necessità.
Non sappiamo se ce l’ha il nuovo ministro Fedeli, che va atteso alla prova dei fatti e non certo giudicato sui pregiudizi legati al titolo di studio. Ma sappiamo che non ce l’ha il ministro Poletti, il quale, a proposito dei giovani lavoratori in cerca di opportunità all’estero perché in patria non ne trovano (107.000 nell’ultimo anno censito), ha detto: «Bene così: conosco gente che è andata via e che è bene che stia dove è andata, perché sicuramente questo Paese non soffrirà a non averli più fra i piedi». Che cosa dire? Solo che è incredibile che uno così faccia il ministro, addirittura del lavoro. Non solo qui non c’è visione, non c’è nulla, vuoto assoluto.
Ho detto che una visione generale per ragionare di scuola e agire affinché tale parola significhi sistema che funziona è necessaria anche nelle amministrazioni locali. Soprattutto oggi, soprattutto per come si sono messe le cose, soprattutto per motivi pratici, ma anche culturali generali e direi anche etici, di etica pubblica. Qui da noi questa visione c’è, si percepisce? La domanda non è oziosa, basti pensare solo al fatto che da una parte la messa in sicurezza della scuola media di Ciconia e dall’altra la necessità di far uscire dalla provvisorietà il liceo artistico si tirano dietro una tale quantità di problemi che senza una visione generale del sistema scuola dentro il sistema città non si andrà da nessuna parte. E taccio dei due aspetti della manutenzione e dell’ammodernamento strutturale e organizzativo nei loro diversi aspetti. Di più, taccio della sensatezza delle aggregazioni fatte a suo tempo con la logica geografica (sic!) della “scuola su” e della “scuola giù”.
Spero che nessuno pensi che la qualità dei risultati di apprendimento e di formazione civile non sia in relazione, oltre che con l’offerta formativa complessiva e con la didattica, anche con la qualità e l’organizzazione degli spazi, con le dotazioni strutturali e con la logistica. Spero anche che ci si domandi prima o poi quale rapporto si deve stabilire tra organizzazione degli istituti, preparazione scolastica, sbocchi professionali e dinamica economica.
Spero infine che si ravvisi poi l’urgenza, una volta che fosse maturata una visione complessiva, di stendere un piano pluriennale di riorganizzazione e ammodernamento con logica di sistema. Servono, insieme alle idee, anche molti soldi, per cui prima si comincia e meglio è. Si faccia dunque una ipotesi e si apra una discussione aperta e costruttiva, senza paraocchi. Insomma si cominci a pensare sul serio al futuro. Altri ci pensano, e noi non possiamo far finta che tutto va bene e che è importante non disturbare la quiete (che è peraltro del tutto apparente).
L’opinione di Pier Luigi Leoni
Insomma, la scuola italiana è un gran casino. Di fronte ai nostri disastri nazionali, si può contenere la rabbia, l’angoscia e la vergogna scegliendo come termini di paragone i Paesi del Mediterraneo più arretrati del nostro. Ma è una magra consolazione per chi ha letto, o almeno sentito parlare del “Primato morale e civile degli Italiani”, con cui Vincenzo Gioberti dette ispirazione e slancio ai patrioti del nostro risorgimento. Anche se, non va dimenticato che, nel 1932, il giornalista tedesco Emilio Ludwig, intervistando Mussolini, se ne uscì con l’espressione: «Ma deve essere ben difficile governare gente così individualista e anarchica come gli Italiani!». Il Duce, riprendendo una affermazione di Giolitti, rispose: «Difficile? Ma per nulla. È semplicemente inutile!» Tra l’ottimismo di Gioberti e il pessimismo di Giolitti e Mussolini, come ce la caviamo? Franco fa molte sagge considerazioni, ma poi conclude con tre affermazioni di speranza. Ecco, cerchiamo di tenere viva la speranza dandoci da fare senza abbandonarci allo scoramento.
La scuola è sempre stata il più piccolo di pensieri dei governanti italiani e rispetto agli investimenti “visibii” e a corto hanno sempre preferito quest’ultimi. Ricordo le invettive di un mio professore contro il suo partito, peraltro al governo, che non aveva capito il significato della scuola e non vi dedicava né risorse né pensiero. I dati riportati da Barbabella nell’attacco del suo intervento dimostrano che poco è cambiato, anche se sono state spese ultimamente tante chiacchiere e forse anche energie. Voglio pensare che tutti siamo coscienti che è soltanto la scuola che può preparare un popolo più civile e individui con migliori opportunità e di conseguenza nel futuro nessuno potrà distrarsi e guardare dall’altra parte. Mi piace il termine Buona Scuola, mi piacciono anche alcune idee che contiene e sono ottimista: domani sarà migliore di oggi.
Il ruolo fondamentale dell’associazionismo nel progresso morale e civile dell’Italia
di Pier Luigi Leoni
Le regioni e i comuni hanno screditato la dimensione locale cedendo, per avidità degli amministratori e dei funzionari e per clientelismo elettorale, agli egoismi dei poteri economico-finanziari locali e alle pretese dei singoli cittadini; nonché dilapidando i patrimoni pubblici locali. Tutto ciò è avvenuto con la disattenzione, o addirittura la tolleranza e la connivenza, dello Stato. Eppure lo Stato non può fare a meno delle autonomie locali, così come le autonomie locali non possono fare a meno dello Stato. Perché questo circolo vizioso diventi sempre meno vizioso e sempre più virtuoso non basta la coscienza politica dei cittadini allenata e rappresentata dai partiti politici, perché essi sono funzionali al potere dal quale sono inquinati e che, corrispondentemente, inquinano. Ecco allora che la società civile deve sempre più organizzare le forze sane che esprime in aggregazioni libere (associazioni, fondazioni e simili) che s’ispirino a valori altruistici di alto profilo intellettuale e morale. Gli spazi che alle libere organizzazioni riservano la costituzione, le leggi nazionali e regionali, nonché gli statuti e i regolamenti locali, con espressioni come solidarietà, partecipazione e rappresentanza in giudizio di interessi diffusi, possono risolversi in ipocriti ossequi alla sociologia se le libere organizzazioni non diventano sempre più coscienti della loro indispensabile e comprimaria funzione nell’equilibrio della comunità nazionale. Ecco un modo per sfuggire al rimedio illusorio del lamento e della protesta: impegnarsi nella organizzazioni più consone alle nostre migliori aspirazioni e, se nessuna ci soddisfa, fondarne di nuove.
Carissimo Pier Luigi,
la tua analisi è stringente e la conclusione a cui giunge, quella di favorire la nascita di un associazionismo attivo, la condivido pienamente. È il metodo per superare lamentazioni e proteste e giungere alla partecipazione e all’azione, tese a rimuovere le situazioni specifiche o generali che vogliamo modificare.
Ci si può associare o aderire ad aggregazioni già esistenti per azioni di tipo sociale, economico-sociale, politico, culturale, e fare del bene a noi e agli altri.
Come ben sai, d’altronde, perché abbiamo trascorso insieme parte di questa nostra vita a cercare persone con cui condividere idee e aspirazioni e a abbiamo operato con tanti nel tentativo di ispirare idee e opere, qualche volta con successo.
È un vizio comune a chi ha compreso i limiti che i partiti si sono creati, non offrendo più risposte alla voglia di partecipare ma soprattutto copertura ad ambizioni personali, almeno in molti casi, e di conseguenza ambienti di scadente vivibilità.
Anche qui nel nostro territorio l’unica possibilità per pensare serenamente e produrre atti virtuosi è stare lontani dai partiti, quelli che esistono e anche dagli ectoplasmi che qualche volta appaiono. Non parliamo poi di movimenti, che Dio ce ne scampi, e stiamo lontani dalla gente sempre indignata.
Anche le aggregazioni più omogenee, se sono sfiorate dalle ambizioni personali di chi partecipa, dal bisogno di apparire, dalla contaminazione dei partiti, alla fine esplodono, senza di sovente aver lasciato tracce positive. Normalmente sono le elezioni locali a demolire l’associazionismo che opera in àmbiti in cui politica e sociale si incontrano strettamente, perché scelte contrapposte che inevitabilmente avvengono minano la serenità e allontanano gli obiettivi, anche se limitati nella tipologia. Ancora peggio se la missione dell’associazione è generica e parallela alla politica amministrativa locale.
Ma noi continuiamo a stare insieme e a cercare inconsapevolmente, quasi fosse un “vizio”, persone che hanno voglia di incontrarsi e scambiarsi idee, opinioni, regalare energie. È la via è migliore per vivere, almeno per noi, e non sempre i “vizi” sono così dannosi.
L’opinione di Franco Raimondo Barbabella
Sottoscrivo le tue considerazioni, caro Pier, convinto come sono anch’io da sempre che attraverso il modo di partecipare alla vita della nazione da parte delle realtà locali passa l’essenza stessa della democrazia. La quale non è gratuita e meccanica proiezione di direttive più o meno efficaci dall’alto di una piramide verso la sua base, ma (almeno così dovrebbe essere) compartecipazione consapevole alle comuni decisioni e al controllo dei loro effetti.
Il degrado che anche da questa nostra modesta tribuna siamo stati costretti a commentare e spesso anche a denunciare è frutto in gran parte, fino ad una certa fase della storia nazionale, della mancata attuazione del disegno che avevano stabilito i padri costituenti, e poi del progressivo e singhiozzante venir meno dell’armonico rapporto stato-regioni-enti locali pure tentato a partire dall’istituzione delle regioni nel 1970. Il comportamento di classi dirigenti a dir poco inadeguate ha fatto il resto, e lo ha fatto con una velocità e un’incoscienza francamente impressionanti. Le conseguenze sono sotto i nostri occhi.
Allora io per questo non parlo di generico venir meno della politica, ma di cambio della logica politica e di bisogno di politica diffusa, meno delegata, e comunque con delega regolata e condivisa, rispetto alla quale l’autoorganizzazione reattiva dei cittadini diventa essenziale. Parlo volentieri anche di trasversalità, anche qui non in omaggio ad un insulso discorso di scomparsa delle ideologie, tanto meno delle differenze e delle contrapposizioni di idee, quanto piuttosto per la necessità che, nel momento della frammentazione degli interessi e delle prospettive sociali e individuali, per contrasto si dia spazio al bisogno e direi al dovere della ricerca di convergenze se non di unità su progetti specifici e su obiettivi di comune interesse. Nel quadro di una cultura della progettualità, che faccia delle realtà territoriali il perno di un nuovo modello di democrazia e di sviluppo compatibile.
Così, abbiamo ragionato quando abbiamo deciso di fondare COVIP, e così abbiamo fatto quando abbiamo, allargando l’orizzonte, fondato CoM, il nostro impegno civile nella fase attuale. Come noi hanno ragionato tanti amici e tante altre persone che non conosciamo in giro per l’Italia e ci risulta anche in tanti altri Paesi. Le libere associazioni forse rappresentano oggi lo strumento migliore per dare nuovo senso e nuova vitalità ad un sistema democratico rinsecchito soprattutto per pochezza di direzione. Noi ne siamo coscienti e non molliamo.