C’è qualcosa che non va nella logica evoluzionista
di Pier Luigi Leoni
Su alcuni vecchi orologi è incisa la scritta «Vulnerant omnes, ultima necat». Vale a dire: tutte le ore feriscono, l’ultima uccide. Questo motto latino codifica il motivo per cui dovremmo essere sempre di cattivo umore. Ma il buonumore – che poi corrisponde a quella che Erasmo da Rotterdam, irridendo il genere umano, chiama follia o, più precisamente, stoltezza – è, secondo la logica evoluzionista, il rimedio alla paura della morte, che altrimenti paralizzerebbe gli esseri umani. Mentre invece, secondo Erasmo, è lo spunto per riflettere sul mistero che racchiude il senso del mondo e della vita, al quale gli esseri umani fanno del tutto, stoltamente, per non pensare. Secondo la logica evoluzionista, tutto ciò che è inutile viene eliminato. Perché allora non vengono eliminate l’autocoscienza degli esseri umani che dà angoscia e la loro intelligenza che produce armi nucleari, chimiche e batteriologiche? La natura fa quello che può, ma l’umanità soffre non solo, come gli animali, per i dolori del corpo, che hanno una loro funzione, ma anche a causa dell’autocoscienza e dell’intelligenza, che provocano inutile sofferenza morale e preparano la distruzione della vita sul nostro pianeta. C’è qualcosa che non va nella logica evoluzionista.
Quando ero giovane la morte era lontana e quella scritta latina, «Vulnerant omnes, ultima necat» , che vidi per la prima volta in un orologio da parete nella bottega di una amico orologiaio, mi sembrò allora soltanto un’acuta osservazione. Successivamente iniziai a capire che ogni giorno che passava era tolto alla vita, ma la capacità di non pensarci costantemente, la “pazzia”, la “stoltezza” di allontanare la mente e superare l’angoscia consente di giungere all’ultimo giorno senza vivere già morti. È cosi per la maggior parte del genere umano, soprattutto se sorretto dalla fede di una vita dopo la morte.
La consapevolezza della fine, effettivamente, potrebbe creare una falla nella logica evoluzionista, perché l’intelligenza, e la conseguente conoscenza, e l’autocoscienza, ci possono causare conseguenze nefaste per il perseguimento della nostra felicità e per il futuro dell’umanità. Quindi avremmo già dovuto eliminarle nella nostra evoluzione, invece è il contrario.
Non so quando e se distruggeremo il nostro pianeta e se eventualmente saremo noi i responsabili o se corrisponde a un disegno che non possiamo controllare, ma so che l’autocoscienza e l’intelligenza possono anche alimentare la fede e smorzare il timore della morte e delle nostre ore che trascorrono ineluttabili e ci fanno essere diversi, più vecchi, minuto dopo minuto, fino alla “vecchiezza, l’orrida vecchiezza”, direbbe Gozzano, amato sia da me che da Leoni..
Oppure intelligenza e fede possono offrirci la convinzione, religiosa o laica, che morire non dovrebbe essere gran cosa, dato che ci riescono tutti.
Poi vedremo.
L’opinione di Franco Raimondo Barbabella
Caro Pier amico mio, convinciti che il tuo amato Erasmo (e anche mio, se è concesso) non può costringerci a fermarci alla sua smagata sapienza né può essere utilizzato per liquidare come sciocco e inutile ogni ulteriore passo che l’umanità ha tentato per capire come e perché stiamo in questo complicato universo.
L’evoluzionismo è una teoria che, come tutte le altre, è sì figlia del tempo ma si è anche essa stessa evoluta nel tempo, cosicché da Darwin in qua ha conosciuto una trasformazione in perfetta sintonia con quella del pensiero scientifico e in generale con la cultura di fine novecento e inizio nuovo secolo. Basti pensare alla fisica, alla biologia, all’ecologia del caos, fino anche all’idea di Vito Mancuso della creazione continua. Comunque ne sono testimonianza pubblicazioni recenti esemplarmente esemplificative di un modo insieme non arrogante e non rinunciatario di esercitare da parte dell’uomo il proprio compito di capire se stesso e il mondo. Ne cito due: “La vita inaspettata” di Telmo Pievani e “Noi siamo cultura” di Edoardo Boncinelli.
No, non è vero che “secondo la logica evoluzionista, tutto ciò che è inutile viene eliminato”, perché in realtà proprio l’evoluzione complessiva delle conoscenze del mondo e dell’uomo consente oggi di parlare fondatamente di interconnessione di tutte le forme di realtà, cosicché Edgar Morin può sostenere che “portiamo in noi la storia della vita”. Da cui l’uni-trinità dell’umano (individuo-società-specie) e l’intreccio vita – Terra – sistema solare – universo. Conclusione: oggi, dice Morin, siamo nella necessità e nella possibilità (dunque anche nel dovere) di passare dall’umanesimo astratto e divisivo del cinquecento (appunto l’epoca di Erasmo) ad un nuovo umanesimo fondato su un pensiero complesso e globale capace di ricomporre ciò che è stato separato e di rapportarsi all’umano come parte della natura e dell’universo.
Il fatto che l’intelligenza umana venga impiegata per fare e farsi male e che l’autocoscienza dei misfatti ci faccia soffrire, non si vede perché dovrebbe essere l’argomento che assevera la natura contraddittoria dell’evoluzionismo. Semmai è esattamente il contrario. L’evoluzione infatti non sembra avere un fine intrinseco e dunque nemmeno essere indirizzata alla perfezione, semmai proprio al contrario, cioè alla libertà e dunque alla responsabilità. In tal senso mentre l’intelligenza appare quanto mai necessaria per combattere il male e salvare la vita, l’autocoscienza a sua volta dimostra di essere quanto mai utile per evitare la sofferenza morale e sentire al contrario il gusto delle buone azioni.
Ebbene sì, diciamolo, della scuola non ci cale mica!
di Franco Raimondo Barbabella
La settimana scorsa ho citato i risultati dell’ultima rilevazione OCSE-PISA da cui emerge la difficoltà dei nostri studenti di tenere testa ai loro colleghi di mezzo mondo sia in matematica che in scienze nonostante le ore di studio certificate siano parecchie di più. Non un disastro, ma certamente una situazione allarmante per il futuro ravvicinato della nazione. In molti si sono chiesti perché e le spiegazioni sono state sostanzialmente le stesse di tre anni fa: il sistema non funziona. Ma va!!!
Eppure la cura si conosce da tempo: qualificazione degli ambienti e dei servizi, strumentazione e organizzazione moderna, didattica interattiva, soprattutto stimolazione della motivazione e cura del benessere emotivo. Occorre dunque un salto proprio nel modo di concepire e di organizzare il sistema. Occorre attribuire alla scuola il suo vero ruolo, quello di ambiente che crea futuro.
Ma la società è sorda, dalla scuola pretende solo successo a buon mercato, e così la scuola di fatto diventa per molti un parcheggio e un votificio, per molti altri un luogo da attraversare senza danni eccessivi. Si sa che la partita si gioca sulla qualità del personale, sia docente che dirigente, ma nessuno controlla e nessuno seriamente valuta. Il reclutamento è fatto più di sanatorie che di concorsi realmente selettivi. Il clima culturale è quello che è: si preferisce la bolsa retorica al rigore scientifico; non ci si preoccupa più di bollare come ignorante chi pubblicamente ignora; si affidano posti di responsabilità a veri e propri asini. E così si dà il deleterio messaggio che lo studio non serve, che la scuola è inutile. Si potrebbe continuare a lungo.
Eppure si può fare molto a tutti i livelli. Possono fare molto dirigenti, docenti e personale ata; possono fare molto i genitori; possono fare molto gli studenti: si può dire che studiare è un onere per la società e un dovere per chi usufruisce del sistema? Può fare molto il governo con tutte le sue diramazioni. E possono fare molto anche le amministrazioni locali.
Ma qualcuno vede in giro un clima che non sia di puro lamento? Qualcuno nota iniziative che spingano a ragionare in termini di sistema (edilizia, didattica, personale, doveri, benessere)? Qualcuno nota un segnale in tal senso nella nomina di un nuovo ministro (al netto della gaffe(?) sul titolo di studio)? Qualcuno nota a livello locale gente impegnata in elaborazione e pianificazione di strategie per un miglioramento di sistema? Per ora mi viene da dire solo: “mala tempora currunt”!
«Mala tempora currunt» è talmente incollato al racconto dei tempi che già Cicerone si lamentava della sua epoca con questa sua espressione e dopo di lui tutti, un po’ per motivi concreti un po’ per la perdita della giovinezza, che tende a far vedere negativamente il futuro a chi ne ha poco.
Allora diventa un « Laudator temporis acti» , quindi attaccato al tempo passato come se allora vivessero quelle virtù oggi spente.
Devo convenire che c’è poco da stare allegri e non entro nel discorso della scuola, se non per allinearmi con la delusione del preside Barbabella, convinto che molto si può fare ma che tutto è in mano a educatori, studenti e famiglie che la attraversano e che possono portare amore e capacità e idee. Allora germogliano vita, crescita, speranza.
O no, e quindi il sistema educativo è inutile o dannoso.
Siamo sempre lì: soltanto una classe dirigente adeguata, politica, economica, culturale, può costruire la società che sogniamo e che in alcuni momenti abbiamo intravisto possibile, come una visione o forse in un ricordo giovanile.
L’opinione di Pier Luigi Leoni
La smania statalista, il tentativo dello Stato italiano di darsi un prestigio che la storia gli ha negato, mi sembra alla base delle condizioni in cui è ridotta la nostra scuola. Il rigoroso ed egualitario valore legale conferito ai titoli di studio rilasciati da scuole statali o da scuole private (vincolate ai programmi statali e più o meno limpidamente controllate da organi dello Stato) ha condizionato negativamente il sistema scolastico italiano. Ascoltavo giorni fa interviste radiofoniche a insegnanti picchiati o minacciati da genitori scontenti dei voti assegnati ai propri figli. Ne emergeva una situazione generale di condizionamento del corpo docente, di scoramento e di sfiducia. Una situazione che spiega anche la lievitazione dei voti e delle promozioni nelle scuole del Mezzogiorno, dove il contesto ambientale è notoriamente più condizionante. Se non ci si libera da questo cappio del valore legale dei titoli di studio, non so come la scuola italiana possa adeguarsi ai livelli delle nazioni sviluppate.