Che ci dice il referendum? Solo come prima peggio di prima o anche altro?
di Franco Raimondo Barbabella
Non ho ragioni per dubitare che la disfatta di Matteo Renzi e del suo sistema di potere sia stata determinata, oltre che da una diffusa insofferenza nei confronti dell’ormai ex presidente e da un conseguente rigetto irriflesso della sua proposta di riforma, anche dai cinque errori elencati da Galli della Loggia martedì scorso sul Corriere della sera:
- Il profluvio di ottimismo (“ce la stiamo facendo”, “ dai che ce l’abbiamo fatta”) sull’uscita dal tunnel, che a gran parte degli italiani che se la passano male o lì vicino può essere apparsa una presa in giro di chi non ha problemi;
- Non aver mai parlato al Paese in modo alto, eloquente, in fondo semplicemente serio, ed aver al contrario esaltato la sua naturale propensione al sarcasmo tipico dell’ammazzasette;
- La mancanza di una critica severa, argomentata e credibile, nei confronti delle vere élites del potere, dalle banche alla Consob ecc., ed aver limitato i suoi attacchi ai settori più facili da criticare, la casta politica e quella mediatica;
- La politica dei bonus (80 euro ai lavoratori dipendenti, 500 agli insegnati e ai neo-diciottenni), vissuta male dagli esclusi e sentita dai beneficiari non come premio per merito ma come elargizione che si accetta e di cui però non si va orgogliosi, comunque una politica delle mance che non risolve alcun problema;
- Infine il cacio sui maccheroni del marcato connotato di “consorteria toscana” conferito alla cerchia dei suoi collaboratori, facendo apparire il Paese come murato in una fortezza di potere chiusa ad altri apporti e diversi.
Si, tutto questo sarà certamente vero, ma poi leggo diversi rapporti specializzati sulle condizioni della vita reale che cerco di tradurre in un pensiero organizzato e allora la spiegazione mi appare molto ma molto più complessa. Eccone una elencazione essenziale:
- Il Rapporto CENSIS 2016
“Dal Rapporto apprendiamo che le aspettative degli italiani continuano a essere negative o piatte. Il 61,4% è convinto che il proprio reddito non aumenterà nei prossimi anni, il 57% ritiene che i figli e i nipoti non vivranno meglio di loro (e lo pensa anche il 60,2% dei benestanti, impauriti dal downsizing generazionale atteso). Il 63,7% crede che, dopo anni di consumi contratti e accumulo di nuovo risparmio cautelativo, l’esito inevitabile sarà una riduzione del tenore di vita. … L’immobilità sociale genera insicurezza, che spiega l’incremento dei flussi di cash.”
- Il report “Europe’s disappearing midle class” dell’OIL (organizzazione mondiale del lavoro) sull’impoverimento e la crisi della classe media in Europa
“La classe media, calcolata come gruppo di coloro che hanno un reddito compreso tra l’80% e il 120% del reddito mediano di uno stesso paese, si è ridotta e impoverita soprattutto perché è venuta meno l’autorità salariale. La classe media in Germania era pari al 30% dieci anni fa, mentre oggi rappresenta il 27%; in Spagna era pari al 29%, mentre oggi è pari al 25%; in Danimarca la classe media passa dal 44% al 40%. L’Italia segue lo stesso trend: attualmente la classe media è pari al 29%. Un bel declino rispetto a dieci e più anni addietro.” (Roberto Romano)
- Il Rapporto Istat 2016 su condizioni di vita e reddito
Nel 2015 si stima che il 28,7% delle persone residenti in Italia (17,5 milioni) sia arrivato a rischio di povertà o esclusione sociale, un italiano su quattro. Numeri che, scrive l’Istituto, vedono gli obiettivi prefissati dalla Strategia Europea 2020 «ancora lontani». Entro il 2020, infatti, l’Italia dovrebbe ridurre gli individui a rischio sotto la soglia dei 12 milioni 882 mila. Oggi la popolazione esposta è invece «superiore di 4 milioni 587 mila unità rispetto al target previsto». Al Sud a rischio povertà è quasi un italiano su due. La diseguaglianza dei redditi è sopra la media europea (più grave solo in Cipro, Grecia, Portogallo e Spagna). E naturalmente è aumentata la distanza tra ricchi e poveri. (Andrea Gagliardi)
- Il Rapporto OCSE-PISA sulle competenze dei quindicenni
“Ci risiamo. Anche dall’ultimo rapporto OCSE-PISA sulle competenze dei quindicenni di mezzo mondo nelle scienze, in lettura e in matematica (540 mila studenti di 72 diversi Paesi ed economie), l’Italia esce con le ossa rotte nel confronto non tanto e non solo con le solite tigri asiatiche che svettano a distanze siderali (Singapore in testa con 556 punti contro i 481 dei nostri ragazzi), ma anche con i nostri vicini di casa europei e, al di là dell’Oceano, pure con gli Stati Uniti e soprattutto il Canada, al quinto posto in assoluto con i suoi 528 punti, dietro a Giappone, Estonia e Finlandia. Mentre nella penultima edizione, incentrata sulla matematica, avevamo recuperato parecchie posizioni, in questa che era puntata sulle scienze (e per la prima volta è stata eseguita dai ragazzi al computer), fatichiamo a restare a galla. Gli studenti italiani di seconda superiore sono staccati di parecchie leghe da inglesi, tedeschi e francesi, sorpassati da spagnoli e portoghesi: solo la Grecia ci salva dall’umiliazione della maglia nera. E la beffa è che studiamo molto più degli altri: 50 ore in media (fra scuola e soprattutto compiti a casa quando non ripetizioni private) contro le 36 ore dei finlandesi dei miracoli e le 41 degli sgobboni giapponesi. E nonostante ciò andiamo molto peggio degli altri.” (Gianna Fregonara e Orsola Riva).
Andiamo dunque alla conclusione. Come dicevo, sicuramente tutto vero ciò che dice Galli della Loggia, ma se vogliamo capirci qualcosa in quello che è successo bisogna portarsi ad un livello di complessità che sinteticamente si deve per forza definire “sommovimento sociale”, emersione di una ribellione latente da tempo che ha trovato un’occasione straordinaria di sintesi per manifestarsi. Ovvio allora che il referendum apparentemente non abbia chiarito nulla, ma a chi vuol vedere ha detto che il cambiamento necessario non è né di età né di sesso, ma di idee, di metodi e di spessore etico e culturale. Chi ha votato no non ha premiato un populismo a danno di un altro populismo, non ha detto bravo a chi è apparso più deciso a sparare sui politici e i loro stipendi, ma ha espresso qualcosa di ben più profondo. Non s’illuda dunque nessuno di coloro che si mostrano interessati a dare spiegazioni di parte e funzionali ad un rapido e furbesco riposizionamento, la bocciatura non ha colpito solo Renzi e il renzismo e una specifica politica ma una concezione e una pratica più generale della politica, quella che pensa sì ai giochi di potere, alle carriere personali, alle prebende, ma che soprattutto si preoccupa più di apparire che di fare, non affronta i problemi concreti, non ha strategie convincenti e non dà risposte efficaci, e non si affanna nemmeno troppo a darne ragione quando la realtà fa cadere i veli.
Converrebbe ripartire da qui, il che significa ricostruzione di un Paese e di una classe dirigente finalmente adeguata al compito. E quando dico ripartire da qui intendo dire sia da questo punto di analisi sia da un qui che è ogni luogo. Dunque un qui che ci riguarda anche da vicino. Perché significa che di visione strategica, funzionamento dei servizi, in primis scuola e sanità, lavoro e qualità della vita, sicurezza ed efficienza del sistema pubblico, competenza e serietà, esercizio diffuso della responsabilità, si avverte un gran bisogno. Già sento le obiezioni di qualche lettore, ma che lo si ammetta o no il punto sta qui. E, inutile nascondercelo, uno dei nostri guai tutt’altro che marginale è che stentiamo perfino a fare lo sforzo di capirci.
Il referendum sulla riforma costituzionale è stato un’occasione, una “sintesi”, per manifestare disagio della propria condizione, paura del futuro, difficoltà a cògliere il bicchiere mezzo pieno, che dai numeri riportati da tutti gli istituti di ricerca e ricordati da Barbabella sembrerebbe invece mezzo vuoto. Ma questo è un punto di vista e un parametro che va confrontato con un passato scellerato che ci ha condotto sull’orlo del baratro, con una classe dirigente che non è riuscita neppure a eleggere il presidente della Repubblica quando gli è stato richiesto e che ha dovuto rinnovare Napolitano, per poi sparargli nella schiena.
Sfido i lettori: ma chi ha letto il testo della riforma costituionale? Tante sceneggiate sulla libertà lesa per la mancata elezione diretta dei senatori, dimenticando che i parlamentari in carica erano stati eletti in una lista in cui era il partito a decidere la posizione e quindi l’eventuale elezione. La legge elettorale si è meritata l’appellativo di Porcellum, tanto per dare un’idea, è firmata da Calderoli e approvata soltanto dalla destra berlusconiana. Ricordate?
La “Costituzione più bella del mondo”, e che tale non è più per l’incalzare di un mondo che si modifica in tempi neppure immaginabili nel ‘48, sarà ora intoccabile per qualche decennio, in quanto nessuno dopo questo esito si prenderà il peso di una qualsiasi modifica che dia la possibilità a tutte le opposizioni di raggrupparsi su un tema alto, difficile da comprendere, facile da enfatizzare.
Berlusconi ripeteva come un pugile suonato la difficoltà a governare in un sistema in cui due camere esercitano il medesimo compito. Ora è stato capace di gridare a pericoli per la democrazia e non si trova più nessuno che ha votato in parlamento la riforma costituzionale e quella elettorale.
Sì, caro Franco, con questa classe dirigente, in gran parte disonesta e bugiarda nei confronti degli elettori, non vale neppure “fare” e va spazzata via per palese irresponsabilità, a destra e sinistra. Ci meritiamo il governo dei grillini, che incarnano perfettamente l’ansia di cambiamento del popolo italiano, anche se destinato a sbattere di fronte ad approssimazione e incompetenza.
La fretta di Renzi esprimeva un aspetto caratteriale ma anche la convinzione che “galleggiare” è l’attività preferita dai rappresentanti di un popolo di naviganti e che fosse necessario imprimere nuovi ritmi per portare il Paese fuori dalle secche e dalle condizioni di debito e di povertà e di declino che non aveva certo causato il sindaco di Firenze ma tutti quelli, ciascuno per la sua parte e tutti insieme, che ora ne esaltano soltanto gli errori.
Renzi non mi è simpatico, ma è l’unico leader in questo mondo politico di nanerottoli.
Il suo progetto rivoluzionario, certo perfettibile, si è scontrato contro una classe politica che non intendeva suicidarsi onorevolmente e che ci sorbiremo ancora per anni, insieme ai suoi succedanei locali.
L’opinione di Pier Luigi Leoni
Le rispettabili opinioni di storici, politologi, sociologi ed economisti sull’esito del referendum costituzionale nulla possono contro il principio genialmente scoperto da Blaise Pascal che “ci si convince meglio con le ragioni che ciascuno trova da sé, piuttosto che con quelle trovate da altri”. La ragione che ho trovato da me per spiegarmi l’esito del referendum è che la massa è conservatrice, cioè teme le novità che le vengono presentate come rischiose. Le rivoluzioni le hanno sempre fatte delle élite di intellettuali organizzati. Il 7 ottobre 2001 il corpo elettorale confermò a maggioranza la riforma del titolo V della parte seconda della costituzione proposta da una risicata maggioranza di centro-sinistra. La riforma era stata presentata come un utile e pacifico ridisegno dei rapporti tra Stato, regioni ed enti locali. Tale riforma, come riconosciuto dai suoi stessi autori, è stata deleteria perché ha scatenato conflitti inestricabili tra Stato e regioni sulle rispettive attribuzioni. Una manna per i giudici costituzionali che hanno potuto invadere il campo del potere legislativo coi loro cavilli interpretativi. Il 25-26 giugno 2006 il corpo elettorale respinse a maggioranza la riforma costituzionale proposta dal centro-destra. Quella riforma, se non fosse stata bocciata dal popolo sovrano, avrebbe ridotto il numero scandaloso dei parlamentari, dato efficienza alla funzione governativa e registrato i rapporti fra Stato e regioni. Nell’uno e nell’altro caso il popolo sovrano prese solenni cantonate. Le conseguenze della bocciatura della riforma costituzionale del 2017 ancora non le conosciamo. Ma, visto che il popolo non ha sempre ragione, prepariamoci al peggio.
Che fine farà il PD?
di Pier Luigi Leoni
Pochi commentatori ne fanno cenno, ma la storia del partito democratico ci costringe a prendere atto che l’armonizzazione tra la cultura post-marxista, diciamo socialdemocratica, e quella cattolico-democratica non è avvenuta. Alla cultura cattolico-democratica, con più o meno intraprendenza, sono ascrivibili Matteo Renzi, Maria Elena Boschi, Dario Franceschini, Lorenzo Guerini, Graziano Del Rio, Paolo Gentiloni e vari altri. I cattolici-democratici del PD, sebbene si dividano tra falchi e colombe, sono tenuti insieme dal riferimento a un loro uomo che sono riusciti a piazzare al Quirinale. Contro questa massa d’urto poco possono gli ex PCI-PDS-DS con le loro sconclusionate manovre di disturbo. Superato lo schoc del referendum, quando Sergio Mattarella avrà calmato i bollori di Renzi, i cattolici-democratici si compatteranno e per la sinistra del PD sarà giocoforza o rassegnarsi o andarsene. Vedremo se ci ho azzeccato.
Non so se possano valere per immaginare domani le categorie e i nomi con cui incaselliamo per necessità di chiarezza i politici di oggi e le loro idee.
Il futuro delle aggregazioni e di tutti i partiti sarà dipendente dalla legge elettorale.
Se prevarrà un sistema maggioritario tutta la destra, dagli elettori di Alfano ai fascisti ai leghisti, in gran parte, tranne le sensibilità più abituate al ragionamento e meno al tifo, si aggregheranno intorno a Salvini o addirittura a Berlusconi, fregandosene di europeismo e delle altre diversità macroscopiche che separano Salvini dall’Udc, tanto per fare un esempio.
Dall’altra parte, come sostieni tu, la sinistra non ideologica, quella riformista, aderirà ad un nascituro Partito della Nazione di Renzi o rimarrà nel PD renziano, l’altra vivrà per farlo fallire, con percentuali insignificanti ma sufficienti ad ottenere il risultato. Ma i capetti resisteranno sul palcoscenico come fantasmi. C’è sempre qualcuno che dà loro vita in qualche trasmissione, come ai burattini.
I Cinque stelle potrebbero essere i vincitori assoluti, ma rifiutando alleanze, senza un premio di maggioranza consistente, saranno anche loro destinati all’isolamento e si riproporranno esperienze già conosciute, con maggioranze costituite da partiti che erano alternativi in campagna elettorale.
Se si arrivasse a una legge proporzionale con le preferenze sarà un suicidio collettivo. I ventisette ventotto saliti al Quirinale diventeranno partiti che dovranno costruire e mantenere un governo. Vi ricordate le dinamiche della prima Repubblica?
Il Pd si scioglierà o rimarranno dentro gli uni o gli altri o scomparirà per formare altre due formazioni.
Vent’anni di prove per costruire una democrazia matura saranno buttate al vento, ma finalmente tutte le sensibilità, circa sessanta milioni, troveranno la loro sigla e la democrazia sarà piena e inutile, perché non servirà a governare il Paese.
Ma gli italiani hanno capito che straccio di casini si provocano votando per una cosa e pensandone un’altra?
L’opinione di Franco Raimondo Barbabella
Non saprei dire molto di più di quando non abbia già detto Pier. Confesso però che la cosa mi appassiona poco, ben sapendo tuttavia che l’esito di questa vicenda avrà importanti ripercussioni sulla vita del nostro Paese con riverberi inevitabili sulle comunità locali, positive o negative e in qual misura è impossibile sapere in anticipo.
Perché la cosa mi appassiona poco? Innanzitutto perché l’inconciliabilità tra le due storie e le due culture era evidente fin dall’inizio, per cui sarebbe stato lungimirante non tentarla affatto e sarebbe stato comunque saggio prenderne atto già da tempo. In secondo luogo perché, come prima la destra è vissuta di anticomunismo, così dopo il PD si è cementato con l’antiberlusconismo, ma nessuno dei due compositi soggetti che hanno preteso il consenso dicendo di cambiare in senso moderno il Paese lo ha fatto, mentre nel frattempo nella realtà il sistema spartitorio è cresciuto a dismisura e le superfetazioni sono diventate vere e proprie piovre. I due tronconi si sono retti su una falsa unità che ha avuto fiato finché ci sono state sufficienti risorse per alimentare il sistema di potere. Fino agli esiti attuali, che dimostrano come si può ridurre un Paese, infine non a caso chiamato a decidere sul suo assetto istituzionale con la logica di uno scontro da bar dello sport. Palato troppo raffinato? Forse, ma preferisco il mio. Che almeno capisce bene i sapori ma non sopporta quelli di chi per interesse di bottega massacra le istituzioni.
Caro Pier, sarà pure che ritornerà la balena bianca e gli impenitenti comunisti o faranno ciola o se ne andranno con il prode Vendola o non so dove. Io dichiaro però, e credo che non ne dubitavi, che non correrò dietro a questa roba, anche perché non sta qui ciò di cui ha bisogno l’Italia (e in essa più modestamente la nostra città) per essere governata come grande nazione moderna. La storia sta passando da un’altra parte, ed è un vero delitto questa miopia che consente di far pescare nello scontento di massa la più nera demagogia e il più inconcludente arrivismo, molto più autoritario di quanto non voglia già apparire. Responsabilità indiretta non meno grave di quella diretta. E non è proprio il caso di prendersela genericamente e demagogicamente con il popolo, senza nemmeno preoccuparsi di dire che cosa vuol dire oggi popolo.