Il destino di Orvieto è legato a quello di Roma
di Pier Luigi Leoni
Credo di non dire niente di nuovo se rilevo che in Orvieto è diffusa l’avvilente sensazione che la città langua per la carente utilizzazione delle proprie risorse storiche, culturali e monumentali. Si può fare a gara nell’attribuire le colpe, ma il nocciolo del problema è che la popolazione di Orvieto, incluso il comprensorio, è troppo modesta rispetto ai lasciti della storia e quindi esprime inadeguate capacità, anche intellettuali. Quando Orvieto edificava il Duomo, era il centro di una specie di Stato che competeva con Siena e con Firenze. Disponeva delle indispensabili risorse e della necessaria umiltà per ingaggiare, al di fuori dei propri territori, grandi architetti e grandi pittori. Nel Millecinquecento, Orvieto rifiorì grazie al suo ruolo di città pontificia; e quando allo Stato Pontificio, per l’evoluzione delle armi e della politica, non fu più indispensabile quella fortezza naturale che era Orvieto, cominciò il declino della città. Tanto è vero che, nel 1860, Napoleone III la cedette al Regno d’Italia, contentandosi di far sgombrare dai patrioti e restituire allo Stato Pontificio le più strategiche rocche di Viterbo e di Montefiascone, e spezzando così definitivamente la Tuscia. L’orvietano Filippo Antonio Gualterio si premurò di fornire al governo italiano un utile cavillo storico-giuridico. Al momento presente è utile, ma non risolutivo, parlare di area vasta, firmare protocolli con Viterbo e contendersi con Città della Pieve i regaletti dell’Unione Europea per le cosiddette aree interne. Ma credo che finalmente si debba prendere atto che Orvieto appartiene al sistema metropolitano di Roma, come in qualche modo lo fu nel Millecinquecento. Se ne era reso conto il sindaco Antonio Concina e propose quel patto con Roma che suscitò qui da noi lazzi e incredulità e fu snobbato da una amministrazione capitolina in tutt’altre faccende affaccendata. O torniamo a guardare a Roma oppure Orvieto rimane una languente cittadina di provincia. Si potrebbe dire, come in un noto film: «O Roma o Orte».
C’è stato un tempo recente in cui Orvieto è stata anche immaginata come una periferia di Roma, un luogo vivibile dove poter scegliere di campare anziché impantanarsi in periferie romane più distanti tra loro di quanto non lo sia la nostra città. Si pensava che bastasse aumentare un po’ l’efficienza della comunicazione ferroviaria e le distanze sarebbero ulteriormente diminuite, rendendo ancora più attraente questo spostamento di romani verso le città vicine, come Orvieto, con un patrimonio edilizio disponibile a prezzi accettabili e con una personalità attraente. Ma poi non è andata così, per fortuna, e non siamo diventati una periferia di Roma metropolitana. Il patto con Roma, mentore l’alemanniano Olimpieri, è stato sbandierato per anni come “la soluzione”, è stato addirittura una delle prime deliberazioni della Giunta Còncina, ma Roma non ci ha mai presi in considerazione, come ricordava Leoni e, in fondo, l’idea qualche sberleffo se lo meritava. L’area omogenea insieme a cui può crescere turisticamente ed economicamente il nostro territorio è quello dell’Orvietano, dell’Alta Tuscia e del Basso senese. In quest’area c’è la nostra storia, le nostre tradizioni, rapporti robusti di carattere commerciale e turistico, un futuro comune da alimentare e definire. Le intelligenze non mancano e ci sono casi di eccellenza in agricoltura, Cotarella, in sviluppo digitale, Tomassini, industriale, Carloni. E sono soltanto alcuni esempi di applicazione pratica dell’intelligenza di nostri concittadini. Di intellettuali non ne abbiamo bisogno, figurarsi provenienti da Roma. Meno ancora di politici: da noi non ci sono storie di ladri e non c’è nessuno in galera. Credo di poter affermare che siamo autosufficienti sotto tutti i punti di vista, c’è perfino consapevolezza delle potenzialità. Manca soltanto quell’ardore, quel fuoco che spinge a trasformare le idee in fatti.
Commento di Franco Raimondo Barbabella
Che Pier Luigi ami i papi e lo stato pontificio mi è noto ed è anche una cosa simpatica con cui lui gioca volentieri e che in fondo diverte anche me. Tuttavia a me risulta difficile auspicare che lo sguardo orvietano torni a rivolgersi a Papa Mastai in odio a Camillo Benso e a Peppino.
D’altronde prima o poi sarà necessario prendere atto che lo stato unitario bene o male è stato fatto e che lo stato pontificio dopo Porta Pia si è ridotto allo Stato del Vaticano. Soprattutto, se dobbiamo guardare a Roma, facciamolo in un modo diverso da come lo si fece all’epoca di Concina, un modo che mi pare fosse molto più influenzato dal legame che altri, non Concina, avevano con Gianni Alemanno piuttosto che da un disegno strategico dal sapore rinascimentale.
No, se proprio dobbiamo guardare al passato, mi piace molto di più il riferimento al Medioevo, quando Orvieto sapeva fare da sé e stringeva alleanze per raggiungere o per difendere gli obiettivi che le sue classi dirigenti ritenevano utili e possibili. Manno Monaldeschi sapeva ciò che bisognava fare perché sapeva interpretare non semplicemente le ambizioni, ma i bisogni e i sogni della città e ne rapportava la realizzabilità alle condizioni del tempo. Allora non ci si accodava a qualcuno più ‘grosso’ e potente, non si aspettava che altri facessero quello che spettava a noi. Si aveva una strategia.
Questo, io credo, bisogna fare anche oggi. Il suo destino Orvieto se lo gioca non certo diventando appendice, fosse pure di Roma, ma in primo luogo smettendo proprio di sentirsi ed essere appendice, non più solo dell’Umbria o addirittura di Terni, ma appendice ora di questo ora di quello, la condizione a cui siamo ormai ridotti da tempo come dimostrano diverse vicende. Orvieto oggi non riesce ad essere punto di riferimento e di aggregazione nemmeno della tradizionale area territoriale orvietana se, com’è evidente, il suo ruolo è da tempo messo in discussione dai comuni vicini, ad esempio da quelli dell’Alto Orvietano che oggettivamente tendono a fare da sé con l’occhio rivolto al Pievese e al Trasimeno.
Il suo ruolo, come nel Basso Medioevo – un’epoca di disgregazione che offriva proprio per questo spunti di aggregazione in abbondanza a chi aveva il coraggio di pensare in grande – può essere quello di soggetto aggregante di forze e territori di una vasta area, rilevante sia storicamente che attualmente, all’incrocio tra Umbria, Toscana e Lazio. Ci vuole per questo una classe dirigente coraggiosa che sappia costruire una strategia di grande impatto (culturale, economica e politica) e abbia il coraggio di attuarla con determinazione, dando una bella scrollata allo scetticismo e al lassismo endemico che ottunde mente e cuore di una parte non secondaria del popolo di cui è espressione.
Qualcosa in questa direzione si è fatto, ma lo si è fatto in modo così scoordinato e asistematico che ne può derivare un risultato esattamente contrario a quello che qui sto auspicando, perché rischia di irrigidire il particolarismo invece che alimentare linee strutturali di rilancio e di valorizzazione territoriale. Mi pare dunque che ci sia molto da fare, sapendo anzitutto che si tratta di battaglia culturale.
Le intelligenze non sono un fatto statistico e non se ne troveranno né qui né fuori di qui, a Roma come altrove, se non si sa cercarle o non le si vuole cercare, perché la ricerca di qualcosa è sempre finalizzata a ciò che si ha in animo di ottenere. Dunque conviene prima di tutto vedere se si riesce qui ed ora, senza ulteriori deleghe, a elaborare un’idea di ciò che pensiamo possa e debba essere la nostra città insieme al suo territorio, in una prospettiva medio lunga ma da preparare ora, subito, per poi avvalersi senza alcun pregiudizio di ciò e di chi sarà utile alla sua attuazione, dovunque si trovi, anche a Roma ovviamente.
È questo anche il modo per sapere chi governa i processi che riguardano la nostra vita come quella dei nostri figli. O ci sta bene che arrivi chiunque – cinese, russo, o altro che già sappiamo – che magari compra o con la logica non proprio tranquillizzante dello “spendi e spandi” o compra al contrario a quattro soldi avvalendosi della “fretta risolutiva” e poi ci fa quello che vuole condizionando la vita cittadina? Troveranno senz’altro chi li asseconda. O no?
Il coraggio del sogno contro il catastrofismo complice e il professionismo accusatorio
di Franco Raimondo Barbabella
Il giovane filosofo Leonardo Caffo ha scritto nel suo ultimo libro: “La natura è così potente che non ci basta chiudere gli occhi per cancellare un terremoto, la morte o una crisi ecologica”. E il terremoto si è incaricato di ricordarci tragicamente questa potenza della natura che “ridimensiona le pretese dell’antropocentrismo, resiste al nostro antirealismo” e scopre la disonestà intellettuale sia della cultura catastrofista che del professionismo accusatorio.
A sua volta, intervistato da Massimo Giletti quasi a caldo sulla potente scossa di domenica 30 ottobre, il geologo Mario Tozzi ha detto: “Non esistono le catastrofi, esistono solo gli eventi naturali e la nostra capacità di fronteggiarli”. Ecco, una frase semplice, chiara, che dovrebbe essere scritta all’ingresso degli edifici che si occupano di cose pubbliche e all’ingresso dei paesi e delle città.
Perché? Perché spazza via i bastimenti di scemenze del modo catastrofista di rapportarsi ai problemi del mondo reale e spinge alla conoscenza dei fenomeni, rapportando ai suoi risultati le opere dell’uomo, il modo di programmarle e di realizzarle, la necessità del controllo e della manutenzione, i comportamenti da tenere nelle diverse situazioni. Cioè il governo intelligente al posto dell’interesse contingente, che significa anche utilizzare la sapienza accumulata e le acquisizioni scientifiche e tecnologiche guidati da coscienza e senso di responsabilità.
A fronte di una impostazione di questo tipo, il catastrofismo non è solo superficiale e pericoloso perché spinge all’accusa dimenticando la causa, ma perché è deviante rispetto alla cultura della prevenzione, essendo di fatto il modo più comodo, scelto o accettato, per rimpallarsi le responsabilità, per non assumersi quelle che spettano a ciascuno.
Non è meno deleterio il professionismo accusatorio, oggettivamente complice della cultura dell’irresponsabilità nel governo del territorio. Bastino i due interventi che hanno provocato la reazione perfino dei colleghi di movimento/partito dei loro autori. Dopo la scossa di mercoledi 26 ottobre il senatore M5s Andrea Cioffi ha scritto questo tweet: “A Roma due forti scosse di terremoto in due ore. Il Senato ha retto benissimo. Reggerà anche alla deforma di Renzi. Io voto No”. E domenica, dopo la grande scossa delle 7,41, la sua collega Enza Blundo ha postato su Fb questo ‘pensiero’: “Il Tg1 apre dichiarando una scossa di 7.1 e poi la declassa a 6.1, ancora menzogne per interessi economici di Governo!!! Anche il Terremoto che ha distrutto L’Aquila fu ‘addomesticato’ a 5.8…Il tutto per non risarcire i danneggiati al 100%”. Che dire di ciò? Nulla, tanto ne è chiara l’origine nel mare della stupidità.
Torniamo ora al nostro ragionamento. Anche quando si fa ricerca e si conoscono a sufficienza la natura e la dinamica dei fenomeni, non si programma come si deve né si verifica se e come si è fatto ciò che si doveva fare. Ci si affida di conseguenza per ciò che ne potrà derivare un po’ alla fortuna, un po’ alla disattenzione, un po’ alla complicità, un po’ alla labilità della memoria e al fatalismo. Non si fa politica di prevenzione del rischio, cosicché ad oggi non abbiamo un programma nazionale di tutela dagli eventi sismici o da quelli atmosferici.
Regna sovrana l’improvvisazione e comunque la convinzione che le regole, quando ci sono, sono per i gonzi e che agitandosi con proteste, strilli, manifestazioni, tutto si può ottenere o bloccare o cambiare a piacimento. E ognuno dal centro alla periferia si sente autorizzato ad affermare la sua verità, anzi non basta nemmeno questo, si vuole che essa trionfi ad ogni costo, inventandosi pericoli inesistenti per non far fare ciò che andrebbe fatto nell’interesse generale o, in casi diversi, appellandosi artatamente proprio a tale interesse per far fare ciò che invece non andrebbe fatto. I frutti perversi li vediamo ormai diffusi nel tempo e nello spazio. Tra questi il più grave ed insidioso, quello che riassume il male mentale che ci può perdere: la prevenzione del dopo, l’allegra irresponsabilità di un modo di governare tutto italiano.
Per questo, per quanto mi riguarda, a suo tempo bloccai le lottizzazioni in zona esondabile e più recentemente ho dato priorità alla visione strategica nel progetto di riuso dell’ex Piave. Per questo, su un altro piano, ho speso molte energie per realizzare una buona organizzazione scolastica che curasse la saldezza della formazione intellettuale dei giovani insieme alla responsabilità dell’esercizio dei valori civici. Per questo parlo oggi di riforma intellettuale e morale e rilancio con decisione il ruolo riformatore del pensiero critico contro l’avanzare indiscriminato di culture e comportamenti irrazionali, esalto la visione strategica contro l’improvvisazione, affermo la necessità delle competenze contro l’ignoranza irresponsabile.
Naturalmente so che non basta parlare per modificare le cose. So che la realtà non dà certo retta a me e che magari ciò che penso e dico può aver validità, se la ha, solo al livello del sogno. In ogni caso mi prendo la libertà di dire quello che penso e finché avranno spazio posizioni come quelle espresse da Mario Tozzi saprò che il pensiero razionale ancora non è sconfitto. Perciò non mi sentirò solo e potrò sempre coltivare l’illusione che contrapporre il coraggio del sogno al catastrofismo complice e al professionismo accusatorio abbia una qualche utilità.
La tensione a inquadrare, razionalizzare, studiare, ragionare, costruire una progettualità e poi “fare” è il metodo giusto per affrontare i problemi e risolverli positivamente. Lo è sempre stato, ma l’Umanità, non gli italiani, cade sempre negli stessi errori. I nostri piccoli problemi nazionali e locali, piccoli in confronto a guerre, genocidi, fame, povertà diffusa, terrore presentano anch’essi complessità che sappiamo come risolvere, ma lasciamo che intoppino scelte virtuose, progetti costruttivi per una nostra vita sociale ed economica migliore. Ambizione, stupidità, gelosia, cupidigia riescono spesso a impedire la conclusione dei migliori progetti, sono quelle “complessità” che la ragione non riesce a contemplare e quindi a contenere. “Non esistono le catastrofi, esistono solo gli eventi naturali e la nostra capacità di fronteggiarli” ha ricordato Barbabella citando Tozzi. Certo, lo sapevamo, lapalissiano, drammaticamente vero. Giusto, niente catastrofismo ambientale, economico, politico, ma certo l’ipotesi che gli USA eleggano Trump come presidente dimostra che centinaia di milioni di persone la pensano come lui e si sentono rappresentati dalle sue idee. Mi sembra un gran passo indietro nel sogno di un mondo responsabile e della consapevolezza che stiamo tutti su una crosta delicata e traballante coperta da un’atmosfera malmessa, abitata da uomini impazziti, bisognoso di una straordinaria capacità di affrontare gli eventi. Un’altra “Bancarotta dell’Umanità”, come ci ha ricordato Francesco a proposito dei migranti.
A detta di Platone, un giorno il filosofo Talete, mentre passeggiava, intento a scrutare le stelle e immerso nei suoi pensieri, cadde in un pozzo. Era presente al fatto una servetta che si fece quattro risate e gli fece osservare che quando si va a spasso è bene non guardare le stelle, ma dove si mettono i piedi. Mi viene in mente questo aneddoto quando vedo spendere milioni per spiaccicare una sonda sul pianeta Marte, o quando penso alle cifre stratosferiche che furono spese per una passeggiata sulla luna. Ma su quanto si agita sotto i nostri piedi sappiamo troppo poco, come dimostrano le chiacchiere degli scienziati che spiegano tutto a terremoto avvenuto, ma che non sono in grado di prevedere un bel niente. Non pretendo che la scienza risolva tutto, ma il vizio stigmatizzato da Platone ancora fa inciampare. Nessuno è senza peccato, nemmeno gli scienziati.