Chi non vota per propria libera decisione non ha rispetto di se stesso
Elzeviro di Pier Luigi Leoni
Nella raffinata democrazia ateniese del VI-V-IV secolo a.C., che è il modello storico di tutte le democrazie, le decisioni politiche erano assunte, dopo liberi dibattiti, da poche migliaia di persone, quanti erano i liberi cittadini maschi. Liberi perché non avevano padroni, ma anche perché non avevano bisogno di lavorare. Alla coltivazione dei campi e alle lavorazioni artigianali erano addetti i meteci, stranieri residenti con diritti limitati, e gli schiavi. Nelle odierne democrazie tutti i cittadini sono, almeno formalmente, liberi ed esercitano la loro sovranità mediante rappresentanti eletti a suffragio universale (democrazia rappresentativa) e, in casi limitati, col referendum, che è uno strumento di democrazia diretta. Non è detto che il popolo sovrano non possa sbagliare, come possono sbagliare i sovrani singoli, ma in democrazia tutti hanno il diritto – e in un certo senso il dovere – di assumersi responsabilità politiche partecipando alle elezioni. Chi non partecipa lascia ad altri il compito di interessarsi alle scelte politiche, discutere e decidere. Ciò non compromette il funzionamento della democrazia, perché c’è sempre una parte dell’elettorato che decide. Ma chi non s’interessa di politica e non partecipa al voto deve sapere che sceglie il ruolo che avevano i meteci e gli schiavi nella democrazia ateniese. Ma senza la dignità dei meteci e degli schiavi ateniesi, che non potevano partecipare per “iniquità dl fato” e non per loro libera volontà.
L’invito al voto di Pier Luigi Leoni ha un taglio originale e far decidere agli altri della nostra vita rinunciando al voto lo propone come una offesa alla propria dignità, una mancanza di rispetto della propria intelligenza e più genericamente di se stessi. Sono d’accordo, è rinuncia a un atto conquistato con sacrificio e da conservare con cura. Ho sempre votato e poiché il “fato“ me ne ha concesso la possibilità andrò a votare per il referendum e vi dirò di più: voterò SÍ. A convincermi sono state le motivazioni della riforma nel merito e soprattutto quelle prettamente politiche apportate dallo schieramento del NO. Sono convinto che il tipo di classe politica che ci governa vada cambiata, disprezzo corrotti e corruttori, incapaci e imbonitori, come tutti, ma soprattutto rifiuto di essere preso per i fondelli, almeno quando e ne accorgo, come in questo caso.
Alla riforma costituzionale e ai quesiti che pone il referendum voterò quindi SÍ.
Per quanto riguarda Renzi e renziani, destra e sinistra, Grillo e grillini, D’Alema e succedanei, presentabili e impresentabili, deciderò quando mi sarà richiesto nelle altre elezioni.
Il voto, ha ragione Pier Luigi, deve rispecchiare il rispetto che ciascuno di noi ha di se stesso.
L’opinione di Franco Raimondo Barbabella
Non so se Pier Luigi assimila il comportamento di chi si astiene dal voto nelle moderne democrazie rappresentative a quello dei meteci e degli schiavi che ne erano privati nella democrazia ateniese dell’età classica perché vuole condannare in anticipo la probabile astensione all’imminente appuntamento referendario. Se fosse così credo che avrà da condannare molto. Indipendentemente da ciò è comunque vero che si tratta di un atteggiamento che indebolisce, qualunque ne siano le motivazioni individuali, la solidità del sistema rappresentativo.
Non condivido però la radicalità della condanna, perché la libertà del cittadino in occasione di qualunque consultazione consiste sia nel partecipare votando nel modo che crede più giusto (e uno dei modi è anche quello di votare in bianco o quello di annullare la scheda) sia nel non partecipare affatto. E che sia anche quest’ultima una decisione legittima è testimoniato indirettamente dal fatto che l’astensione dal voto è stata da tempo depenalizzata.
Resta naturalmente in piedi la questione della coscienza civica che in democrazia è indice di salute o di malattia incipiente o grave del sistema come tale. Da questo punto di vista non credo che qualcuno possa sensatamente sostenere che non ci sono state, da tempo e sotto diverse forme anche molto preoccupanti, avvisaglie di crisi della partecipazione. Eppure non mi risulta che in molti si siano preoccupati di generare o rinsaldare o allargare la coscienza civica di massa. È il classico caso del gatto che si mozzica la coda quando si determina un percorso di avvitamento.
Come si dice? Chi ha coscienza l’adoperi! Chi non ce l’ha non è che si deve sentire a posto accusando dei mali solo e sempre gli altri, ma non si dica che non c’entra niente ciò che è stato fatto o non è stato fatto da chi ne aveva la responsabilità primaria essendo stato eletto proprio per questo. Le classi dirigenti per il fatto che sono espressione del popolo che le ha votate, e ne sono pertanto e sostanzialmente il rispecchiamento, hanno il preciso dovere di sentirsi addosso la responsabilità di ciò che accade nel popolo ed eventualmente di fare il possibile per correggere le storture che si manifestano. Se non lo fanno, se ne portano la responsabilità. Ecco, la parola desueta che mi piace ricordare è appunto responsabilità, che in democrazia rappresenta la quintessenza di ogni funzione, scelta o attribuita.
Il massacro della classe media spiana la strada al populismo. E siamo solo all’inizio.
Elzeviro di Franco Raimondo Barbabella
Sappiamo tutti che sempre, anche quando facciamo finta di non saperlo, “de nobis fabula narratur”, cioè di qualunque cosa parliamo di fatto stiamo parlando di qualcosa che ci riguarda da vicino. Perciò quando appare utile è legittimo rompere l’incantesimo e citarsi senza timore di presunzione. Ma talvolta accade che altri abbiano detto ciò che pensi in un modo che, almeno di primo approccio, ti può apparire più efficace cosicché viene naturale avvalersene con appropriate citazioni, che poi magari è bene discutere per integrare, correggere o respingere. È quanto farò questa volta.
Prima citazione. Giuliano Ferrara su “Il Foglio” di lunedi 14 novembre scorso ha scritto: “L’idea che si possa fare a meno di una classe dirigente informata, preparata, colta, in certa misura separata o sacralizzata dall’esercizio dell’autorità, dalla pratica socialmente e intellettualmente consapevole del potere, è un vecchio mito stantio della destra autoritaria (destino, vocazione, popolo, uomo solo al comando)”.
A lettura calda mi ci ritrovo, ma poi rifletto un attimo e anche questo modo di ragionare mi appare un “vecchio mito stantio” per diversi perché: perché anche a sinistra, seppure su basi culturali diverse, non mi pare interessi molto avere “una classe dirigente informata, preparata, colta”; perché ciò è particolarmente evidente nelle realtà locali; perché la contrapposizione destra sinistra nella formazione delle classi dirigenti a tutti i livelli è solo uno schema di comodo che nasconde una realtà molto più omogenea di quanto non si creda.
Seconda citazione. Lo stesso giorno su E&F di Repubblica Alberto Statera scriveva: “La ragione prima della crisi epocale che si è già manifestata in America, dove la diseguaglianza è insopportabile, è nell’eccessiva diseguaglianza nella distribuzione di redditi, rendita e ricchezza. Una quasi scientifica cancellazione della middle class, di cui nessuna delle forze populiste fiorite in Italia ha la minima percezione. È comico Grillo quando grida “Tagliamo gli stipendi” riferendosi ai quattro soldi delle indennità parlamentari, senza capire che il problema è molto più grande di lui e del suo movimento, che gli stipendi vanno se mai aumentati. Non considera che un addensamento di redditi verso l’alto provoca livelli di domanda aggregata insufficienti a sostenere la crescita economica, in un paese in cui c’è la più bassa mobilità sociale. L’ascensore ha solo il tasto verso il basso. Ragioni sufficienti per detestare i politici, incompetenti e ladri, mentre si corre sempre di più verso un capitalismo oligarchico, incapace di giustizia sociale, che non si sa dove può condurci, se non verso un populismo selvaggio capace soltanto di coagulare tutte le frustrazioni della società, dando risposte (vedi l’immigrazione) primitive e dannose.”
Anche qui mi ci ritrovo, ma solo in parte, soprattutto perché si sente odore di cultura ideologica abbastanza passatista, ma certo per l’essenziale Statera dice quello che penso anch’io. E che cos’è l’essenziale? È il massacro della classe media, la middle class, al di là e al di qua dell’Atlantico (Negli USA: “Per 120 milioni di loro il valore della ricchezza posseduta era di 160 mila dollari, oggi si è ridotto a 98 mila dollari. E mentre i redditi diminuiscono, 48 milioni mangiano alla mensa dei poveri.” In Italia: “Lo 0,1 per cento del reddito dei ricchi è pari a quello delle 100 persone più povere. Un solo italiano ricco ha un patrimonio pari a quello di 300 mila italiani.”)
Della drammaticità di questo tema la sinistra, liberal o socialista (in tutta la gamma delle sue accezioni), non solo non se ne è occupata, ma non se ne è accorta o, quando se ne è accorta, è rimasta indifferente e ha sperato che comunque alla fine nulla cambiasse. Figurarsi la sinistra di stampo comunista, in esercizio attivo o rimasta tale anche se collocata da altre parti. Mi picco di essere non so se il solo, ma certamente uno dei pochissimi, che dalle nostre parti se ne è occupato e se ne occupa. Si dirà: senza successo! Beh, risulta a qualcuno che chi dice le cose vere e le dice per tempo abbia successo? Però stiano attenti le sanguisughe dedite solo all’esercizio del potere, anche piccolo o piccolissimo, perché il populismo, che è una punizione umana e non certo divina, non si è ancora manifestato in tutta la sua portata e, se la competenza e la qualità della classe dirigente non contano, allora non importa chi comanda, basta che non siano quelli che ci sono ora, e di qualità bassa in giro ce n’è quanta se ne vuole. È solo questione di tempo e di appetito.
L’opinione di Dante Freddi
Il populismo trova la sua alimentazione nella semplificazione dei problemi. L’incapacità di gestire le complessità, la pigrizia o la difficoltà nei confronti del ragionamento, la rabbia della condizione personale da salvare o da migliorare e la necessità di incolpare qualcuno sia del disagio economico e sociale sia della paura del cambiamento e del diverso sono alla base delle forme di atteggiamenti esagerati, dell’urlo, della violenza, dell’odio, del disprezzo, dell’indifferenza. Poi c’è la classe politica, italiana, europea, americana, per parlare delle democrazie che ci sono più vicine, che costituiscono parafulmini straordinari di ogni forma di improperio, indipendentemente dalla collocazione progressista o reazionaria, spesso giustamente. Le notizie “bufale” su di loro sono talmente credibili che superano quelle vere e determinano una storia diversa da quella che sarebbe potuta essere.
A sostegno di questa convinzione sulla pericolosità della semplificazione offro ai lettori un pezzo interessante e utile del L’HuffingtonPost, che riporta un’intervista in cui si racconta come Obama ha spiegato alle figlie Malia, 18 anni, e Sasha, 15 anni, perché ha vinto Trump. “Società e culture sono molto complicate… Non si tratta di matematica; si tratta di biologia e di chimica. Si tratta di organismi viventi, ed è una gran confusione. Il vostro lavoro come cittadine ed esseri umani è quello di affermare, risollevare e combattere perché le persone possano essere rispettate, trattate con gentilezza e capite”. “Voi dovrete prevedere che in certi momenti ci saranno fiammate di fanatismo con le quali vi dovrete confrontare, o il fanatismo potrebbe essere dentro di voi e in quel caso dovrete sconfiggerlo. Non si arresterà… e voi non dovrete arrendervi ad esso. Non cominciate a preoccuparvi dell’apocalisse. Semplicemente rimboccatevi le maniche e capite dove lavorare perché ci sia un progresso“. “Non credo nell’apocalisse, fino a che questa non giunga. Nulla rappresenta la fine del mondo, eccetto la fine del mondo stessa”.
Un’iniezione di ottimismo che può far pensare anche senza suicidarsi a Salvini presidente del Consiglio.
L’opinione di Pier Luigi Leoni
Quand’è che l’Italia ha avuto classi dirigenti adeguate? Quando stava in coda, nel generale sviluppo economico del dopoguerra, agli altri Paesi sconfitti del famigerato “Roberto”, l’asse Roma-Berlino-Tokio? Quando il Mezzogiorno era governato da una combutta di mafiosi ben rappresentati nelle amministrazioni locali e nella capitale? Quando Mediobanca, le Partecipazioni Statali e la FIAT stabilivano chi poteva avere accesso e permanere nel mondo industriale? Quando i sindacati facevano cadere i governi? Quando lo Stato s’indebitava mentre i grandi guadagni degli evasori finivano nelle banche o venivano imboscati all’estero? Quando la mafia, invece di essere debellata, s’infiltrava in tutta Italia? Quando il Mezzogiorno rimaneva la palla al piede dell’economia Italiana? Quando i cosiddetti poteri forti venivano sostituiti dall’Unione Europea in un quadro di sudditanza dell’Italia ai Paesi più potenti? Quando, sopraggiunto lo tsunami della crisi economica internazionale, ci siamo impelagati nella stagnazione? Potrei continuare con la scuola, la sanità, le ferrovie e via dicendo per concludere che l’Italia del dopoguerra (anzi, fin dal Risorgimento) non ha mai avuto classi dirigenti adeguate alle sue esigenze. Ci avevamo fatto l’abitudine, anche perché bastava affacciarsi sul Mediterraneo e dare una girata al mappamondo per consolarsi con chi stava peggio. Sennonché la stessa popolazione che aveva sopportato e supportato le classi dirigenti adesso è incavolata. Può darsi che i populismi riescano a fare piazza pulita, ma che riescano a rigenerare le classi dirigenti mi sembra più difficile. Ma la speranza è l’ultima a morire; e gente come Franco ci ricorda che dobbiamo essere positivi e propositivi. Sono accadute tante cose strane nella storia.