La politica schiacciata sul presente nega se stessa
di Franco Raimondo Barbabella
Due domeniche fa, sulla Domenica del Sole 24 Ore, Roberto Casati e Achille Varzi, giocando di paradosso e facendo il verso alla tradizione del pensiero utopista, si sono immaginati la creazione del “Memoblimetro”, una macchina capace di cancellare la memoria dei carcerati in maniera da rimetterli in libertà con animo depurato dai delitti commessi.
Il risultato ovviamente sarebbe non solo lo sfoltimento radicale degli istituti di pena ma anche, per le persone sottoposte al trattamento, insieme all’assenza di memoria, la negazione del futuro, giacché senza passato nessun futuro è possibile. Dunque, di fatto la condanna sarebbe l’eterno presente, in altri termini l’uscita dalla dimensione umana, perché, come concludono i due autori, “ciascuno di noi è il proprio passato”. Senza avere un passato, una propria storia, è come se non si fosse mai esistiti. E allora, come si può costruire un futuro essendo stati ridotti ad essere niente?
Si tratta, come ho detto, della ripresa in piccolo e in modalità paradossale del pensiero utopista, con l’intento di far emergere le assurdità di un’epoca come la nostra che, ossessionata dall’idea del nuovo e del diverso, purché però rigorosamente appiattito e omologato, sembra ridurre tutto alla dimensione del presente, con ciò negando da una parte ogni valore alla ricerca di senso, con cui sono connesse l’intenzionalità e la visione prospettica, e dall’altra per converso elevando a feticcio l’interesse del momento.
In fondo sono due i modi di vivere il presente: schiacciarsi su di esso o al contrario interpretarlo come passaggio. Di più, si potrebbe anche pensare che il presente spesso è semplicemente l’ostacolo inevitabile ma momentaneo alla realizzazione del progetto che realizza una visione. È stato questo ad esempio il modo in cui lo ha vissuto Shimon Peres, il presidente di Israele scomparso qualche giorno fa.
Una delle reazioni più sintetiche ed efficaci alla deriva dello schiacciamento sul presente che ho potuto leggere in questo periodo è la citazione da parte di Gianfranco Ravasi di una considerazione di Charles Péguy (inizio novecento): “Omero è nuovo, stamattina, e niente è così vecchio come il giornale di oggi”, un pensiero che ribaltava già allora la convinzione di Hegel (inizio ottocento) che “la preghiera del mattino dell’uomo moderno fosse la lettura del giornale”.
Mi ha colpito però in modo particolare, in questa direzione di allontanamento dal culto dell’immediato, l’articolo di Giuseppe De Rita comparso sul Corriere della sera di martedi scorso e intitolato significativamente “Senza progettualità la politica non riesce a pensare il futuro”. Per me sono parole di zucchero. Dice a un certo punto De Rita: “c’è poca voglia di capire cosa può succedere e di sviluppare volontà di dominare gli eventi prossimi venturi. … L’intenzionalità non è certo un valore di rifermento collettivo. Ci si adagia, si galleggia, quasi con una esplicita indolenza a restare chez soi, nel proprio particolare vissuto … Interpretare e progettare non è più un esercizio attraente, per alcuni neppure necessario …”.
Roba vecchia? O forse non si descrive qui la sensazione di deriva che ci dà una politica che a tutti i livelli privilegia le invenzioni ad horas, gli slogan, le uscite spettacolari, le apparenti furbizie e le bugie al posto non solo delle idee lungimiranti e i ragionamenti di spessore ma anche semplicemente del rispetto degli altri? Scelta obbligata?
Certo che no, giacché essa equivale alla rinuncia all’idea stessa di una società migliore, che è un bisogno tipicamente umano, come testimoniano i numerosi tentativi di immaginare stati con legislazione ideale che da Platone in qua hanno segnato la storia delle idee. Un bisogno che non finisce di essere tale nemmeno nella fase strica della società tecnologica, anzi.
A questo proposito è utile ricordare che quest’anno cadono i 500 anni dell’Utopia di Tommaso Moro, in cui si descrive l’isola felice che non c’è ma che, essendo pensabile anche se non si sa quanto auspicabile, di per ciò stesso consente di concepire come possibile l’uscita dalle miserie reali della società esistente. Ecco, forse a un po’ di gente che si occupa di politica, cioè di tutti noi, farebbe bene sospendere per un attimo la corsa a comparire e ad ottenere posizioni di vantaggio, leggere qualche libro di questo tipo, e capire che il senso dell’impegno pubblico non è il trionfo forzoso delle proprie personali ambizioni ma la determinazione delle condizioni che possano permettere a qualsiasi Candido di ritrovare il sorriso della propria Cunegonda e godere del suo attimo di felicità. Ma forse l’Utopia oggi è proprio questa, pensare che ciò sia possibile.
Commento di Dante Freddi
La stanchezza di pensare che rileviamo spesso in molta parte della classe politica, quella che risolve i problemi con soluzioni facili che non risolvono il futuro perché non vogliono conoscere il presente, a volte troppo pesante da sopportare, difficile, complesso. Emblematico di questa mancanza di visione per ignoranza, ma sarebbe davvero grande, o per malafede, è il refrain di Salvini e di quelli come lui che per risolvere il problema dell’immigrazione suggeriscono di “aiutarli a casa loro”.
Sono anni, anche quando governavano, che questi sapienti liquidavano così la questione, come se “casa loro” fosse un luogo assente da rivolgimenti, statica, dove depositare qualche risorsa e voilà, tutto a posto. Poi c’è la pazzesca divisione tra immigrati per fame e immigrati per guerra, derivante dal fatto che noi da decenni non conosciamo la disperazione della fame.
Oggi, caro Franco, l’unico leader mondiale che conosce il presente, ne soffre la tragedia ed è capace di immaginare il futuro è papa Francesco, con le sue parole di ogni giorno, che speriamo siano in grado di muovere la coscienza degli uomini di stato e rileghino i cazzabuboli al loro posto. La visione di un mondo più giusto richiede amore per il nemico: è la grande utopia del Cristianesimo, l’unica che può farci pensare con speranza al futuro.
Commento di Pier Luigi Leoni
Mentre ci stiamo crogiolando nella nostra decadenza e mentre i sociologi fanno le loro analisi sempre più cupe, le notizie che ci arrivano dal Mediterraneo e dal vicino, medio ed estremo Oriente ci costringono a constatare che il resto del mondo è in fermento e in movimento. Dall’Africa Nera arrivano ogni mese migliaia di emigranti che se ne infischiano dei nostri disagi e mirano ai nostri agi, disposti a fare ciò che a noi ripugna, come raccogliere i pomodori sotto il sole di agosto, allestire mercati paralleli a quelli legali o semplicemente elemosinare gli spiccioli che molliamo, un po’ per levarceli di torno, un po’ per sentirci buoni e un po’ per paura che si diano alla malavita. Dal subcontinente indiano arrivano operai dispostissimi a occuparsi delle nostre stalle. Dalla Cina arrivano silenziosamente famiglie con una capacità di lavoro tripla rispetto alla nostra. Per non parlare di altre etnie più o meno aggressive. Tutti costoro hanno dei forti progetti di vita individuali e familiari, ma anche l’aspirazione a contribuire allo sviluppo delle loro nazioni d’origine, con le loro rimesse in denaro, e la prospettiva di rientrare a testa alta. Più che alle prediche dei filosofi e dei sociologi credo alla lezione che ci stanno dando i poveri del mondo.
La precarietà dell’universo, la precarietà degli esseri umani e la precarietà delle loro idee.
di Pier Luigi Leoni
Guido Tonelli, il celebre scienziato italiano che contribuì alla scoperta del bosone di Higgs, volgarmente detto “la particella di Dio”, ci ha ricordato qualche giorno fa (La Lettura-Corriere della Sera, 18 settembre 2016) che «l’intero universo sembra vivere in una condizione di equilibrio metastabile: tutto danza fragile e precario vicino all’orlo del baratro… La ricerca scientifica più avanzata sembra stabilire una relazione fra la precarietà della condizione umana e quella dell’Universo nel suo complesso».
Per consolarci, facendo anche contento il mio amico Franco Raimondo, affida la discussione sulle implicazioni della precarietà ai filosofi, agli umanisti e agli artisti poiché agli scienziati «mancano le competenze adeguate e quello sguardo lungo che è necessario quando cambiano i paradigmi che ci hanno accompagnato dagli albori della preistoria».
Tonelli consiglia di affidarsi a filosofia, letteratura e arte e a «prendere coscienza dei propri limiti e salvare la scienza stessa da quel delirio di onnipotenza che ogni tanto sento serpeggiare qua e là. O magari ricavarne nuove e più profonde motivazioni a prendersi cura dei propri limiti, avere rispetto dei viventi, riparare le ferite del pianeta e guardare con occhio diverso a quell’istinto predatorio che si nasconde ancora nel profondo dell’animo umano».
Un bel pistolotto ateisticamente corretto che, sul piano filosofico ha lo stesso valore delle cinica battuta che Woody Allen ha ripreso da Groucho Marx: «Perché devo preoccuparmi dei posteri? Che hanno fatto i posteri per me?» Se proprio c’inquieta la precarietà del tutto, perché non diamo una letta a ciò che Severino Boezio scriveva nel V secolo d.C. nel De consolatione philosophiae? Cioè che, a pensarci bene, non abbiamo bisogno di essere consolati, perché tutto rientra nell’ordine naturale della cose, governate dalla Provvidenza divina.
Commento di Dante Freddi
“Non abbiamo bisogno di essere consolati, perché tutto rientra nell’ordine naturale della cose, governate dalla Provvidenza divina” ricorda Leoni citando Boezio. Mi sembra però che il rapporto tra scienza e fede sia ormai così avanzato da poter sperare che la scienza lavori per l’uomo insieme alla filosofia, per ottenere il meglio per il mondo e chi lo abita, e che la teologia abbandoni i contrasti con la scienza che appartengono a un passato superato dalla conoscenza. L’intelligenza dell’uomo è un dono di Dio e Dio non può volere altro che il bene dei suoi figli. La scienza ha il dovere di rendere grazia a Dio di un tale dono contribuendo a costruire una vita migliore per tutti su questo mondo e nell’altro, così come l’uomo l’ha pensata e come la Provvidenza vuole.
Commento di Franco Raimondo Barbabella
Sì, certo, l’articolo in questione, così come quello simile pubblicato lo stesso giorno su Domenica del Sole 24 Ore, può anche essere definito “un bel pistolotto ateisticamente corretto” se ciò che interessa non è la visione del mondo fisico che risulta dall’evoluzione della fisica contemporanea relativistica e quantistica ma il suo contraltare, la visione teologica dell’universo che spiega tutto con la Provvidenza.
Allora in effetti quale migliore riferimento se non il De consolatione philosophiae? Un’opera certamente importante che, scritta da Boezio per darsi ragione della sua disgrazia, è divenuta per tutto il Medioevo e fino a noi una specie di breviario a disposizione di chi abbia bisogno di sentirsi in buona compagnia per darsi una spiegazione del perché il mondo premia gli ingiusti mentre la Fortuna si accanisce contro coloro che si prodigano per il bene.
Ma lo scritto di Tonelli, pur essendo né originale né rivelatore di novità significative per la conoscenza del mondo, consente comunque di capire una cosa essenziale, cioè che il dialogo tra scienza e filosofia non solo non è morto ma torna oggi vieppiù necessario e utile proprio perché, essendo usciti da una visione teologica dell’universo, gli uomini hanno bisogno di darsi spiegazioni di ordine generale che siano anche orientamenti di senso per la vita. Ciò che non fa altro che ribadire un’ovvietà della cultura moderna, da una parte che la fisica produce conoscenza senza dover chiedere aiuto alla religione e dall’altra che la filosofia non è né può essere ancilla theologiae. Il che non esclude ovviamente il diritto di esistenza e la funzione su un altro piano sia della fede nelle sue varie forme che della teologia.
Dunque perché svalutare il lavoro della scienza, se è stato proprio il pensiero scientifico a liberarci, e a liberare la stessa religione, dalla preoccupazione di dover invasivamente spiegare tutto una volta per tutte? E poi, anche ammesso che tutto sia regolato ab aeterno dalla Provvidenza, ciò che accade nell’effettualità del mondo noi non lo conosciamo a priori, siamo cioè condannati allo sforzo della conoscenza e alla fatica della scelta. Non mi si vorrà dire che siccome nella mente di Dio tutto è già scritto, allora ogni nostro impegno è inutile e con esso in particolare la scienza e la filosofia sua alleata! In tal caso mi basterebbe ricordare quanto afferma proprio Boezio a conclusione del suo ragionamento e cioè che ciò che in Dio è presente attuato per noi è futuro possibile, dunque non necessario. Insomma nessuno può toglierci dagli impicci dell’esistenza. Contenti o no, così è.