Il folle orgoglio delle nazioni
di Pier Luigi Leoni
Nel 1991-92, frequentavo l’Albania quando governava Ramiz Alia, l’ultimo presidente comunista. Il piccolo Paese balcanico aveva intrapreso la sua marcia di avvicinamento all’Occidente, ma lo distanziava dalla vicina Italia un secolo di arretratezza. Gli Albanesi, sebbene fosse proibito, captavano avidamente la televisione italiana e avevano preso dimestichezza con la nostra lingua e il nostro sistema di vita. L’Italia, deformata dalle trasmissioni televisive, era percepita come il Paese dei Balocchi e stava cominciando una forsennata immigrazione albanese.
Ciò che più mi colpì era l’orgoglio degli Albanesi, che si sentivano più intelligenti e coraggiosi di noi, giudicati dei rammolliti che avevano avuto la fortuna di essere stati aiutati e viziati dagli Stati Uniti d’America. Poi, visitando altri Paesi e osservando gli immigrati da altre nazioni, mi resi conto che l’orgoglio nazionale era una caratteristica di tutti i popoli anche quando, almeno ai miei occhi, non era affatto giustificato.
Ma fu solo quando tradussi dal latino e commentai l’opera più famosa di Erasmo da Rotterdam (Commentario all’Elogio della Follia, 2013, Iff Press) mi resi conto che l’orgoglio nazionale, che altro non è se non boria, autocompiacimento ed esagerazione, è una manifestazione di quella follia che aiuta gli esseri umani a non soccombere nella fatica di vivere e nella certezza di dover morire. La parola a Erasmo.
«Mi rendo conto che la natura, come ha infuso un amor proprio nei singoli individui, ne ha instillato uno comune a tutti i cittadini di ciascuna nazione, e addirittura, di una stessa città. Di qui la pretesa degli Inglesi di primeggiare, oltre che nel resto, sul piano della bellezza, della musica e delle laute mense; gli Scozzesi vantano nobiltà, parentele regali, nonché dialettiche sottigliezze; i Francesi rivendicano la raffinatezza dei costumi; i Parigini pretendono la palma della scienza teologica vantandone un possesso quasi esclusivo; gli Italiani affermano la loro superiorità nelle lettere e nell’eloquenza. Tutti si cullano nella piacevole convinzione di essere i soli non barbari fra i mortali. Primi, in questo genere di felicità, sono i Romani, ancora immersi nei bellissimi sogni dell’antica Roma; quanto ai Veneti, si beano del prestigio della loro nobiltà. I Greci, quali inventori delle arti, si vantano delle antiche glorie dei loro famosi eroi; i Turchi e tutti gli altri musulmani pretendono il primato anche in fatto di religione e quindi deridono i cristiani come superstiziosi. Molto più gustoso è il caso degli Ebrei che aspettano sempre incrollabili il proprio Messia. Gli Spagnoli non la cedono a nessuno in fatto di gloria militare; i Tedeschi si compiacciono dell’alta statura e della conoscenza della magia.»
Non c’è quindi da meravigliarsi se gli Italiani hanno paura dell’immigrazione. Percepiscono ciò che i Maomettani, i Cinesi, i Latino-americani e via dicendo pensano di se stessi e di come sembri loro infondato il nostro orgoglio nazionale.
Commento di Dante Freddi
Mi sembra che l’orgoglio nazionale, l’orgoglio dell’appartenenza al campanile, alla parrocchia o alla squadra di calcio, in cui riflettiamo la bravura dei “nostri”, la fortuna, la sfortuna e l’ingiustizia perpetrata dall’arbitro cornuto, siano sentimenti positivi perché, è vero, aiutano a non sentirci soli e a vivere. È quando riteniamo di essere i migliori, quando ci confrontiamo e sentiamo la forza della qualità degli altri che nasce la paura. Gli immigrati vogliono quanto volevamo noi quando eravamo immigrati e sapere che sono intelligenti, fanno figli, lavorano quando possono come muli, delinquono quando non possono, cercano il riscatto, come può non intimorirci?
Le prossime generazioni italiane difenderanno la loro appartenenza nei caratteri salienti e positivi, acquisiranno ricchezza e valori degli altri, sapranno vivere insieme e rispettarsi. Perché non c’è altra via e perché l’esperienza insegna che la ragione e la comune convenienza costituiscono un legame solidissimo. Se poi si aggiunge la buona volontà tutto sarà più facile. Costerà qualcosa e molto tempo, ci vorrà un’azione robusta di educazione. Ma d’altra parte profondiamo ancora fiumi di quattrini a Sicilia, Trentino Alto Adige e Val d’Aosta perché settant’anni fa erano diversi e ancora oggi non siamo riusciti a ottenere appieno l’obiettivo della loro integrazione all’Italia.
Commento di Franco Raimondo Barbabella
Si, Pier Luigi ha ragione a sostenere che l’orgoglio nazionale ha origini antiche ed è normalmente accompagnato da chiusure mentali che possono anche generare comportamenti razzisti. Per questo la sua citazione a tal proposito di Erasmo da Rotterdam è quanto mai opportuna. È noto infatti che parte proprio da lui e da altri intellettuali della sua epoca il processo culturale che, traendo con fatica e con contraddizioni ma anche con progressione evidente le conclusioni di pensiero dal dipanarsi delle vicende storiche di due secoli, alla fine con l’illuminismo giunge all’idea di tolleranza, il fondamento teorico della possibilità pratica di convivenza pacifica e proficua dei diversi. Da qui anche le idee delle libertà fondamentali e soprattutto l’idea della democrazia che, nata nel quadro degli avvenimenti e delle elaborazioni teoriche della Rivoluzione francese, sarà definita da Abramo Lincoln nel discorso di Gettysburg del 19 novembre 1863 “governo del popolo, dal popolo, per il popolo”. La questione che ancora oggi ci impegna.
Vorrei ricordare a Pier Luigi che Erasmo può discutere di libero arbitrio perché Lutero parla di servo arbitrio e che questa discussione ci indica però soprattutto un fatto storico straordinario, ossia quella rottura dell’unità del mondo cristiano e quella diffusione di numerose forme di cristianesimo che favorirà il rifiorire delle scienze e della arti lungo l’arco di tutta l’epoca moderna nonostante le ricorrenti chiusure e contraddizioni di cui ho già detto. Dunque la pluralità di per sé non è negativa, anzi sta proprio lì la fonte di uno spirito creativo che, come ho detto altre volte, si può riassumere nell’affermazione che “la diversità fa ricchezza”.
La pensava così ad esempio David Hume, che per primo e andando controcorrente (eravamo intorno alla metà del settecento in Inghilterra) affermava che è la divisione e non l’unità che fa la forza. E traeva da questa sua convinzione l’idea che l’identità dell’Europa, e dunque anche la sua vitalità e la sua potenzialità, sta non in qualche caratteristica che rende omogenei (ad esempio l’eredità dell’impero romano o la religione cristiana) ma proprio nella sua pluralità, questa volta riferita non agli individui e alla loro cultura ma ai paesi di cui è formata.
Se ci attestiamo su questa posizione, è evidente che dobbiamo fare i conti con il tema di come dalla pluralità possa nascere la convivenza e l’unità dello stare insieme in modo pacifico e creativo. Cosa per ottenere la quale in politica non basta l’idea dei tolleranza. Ma la vicenda della costruzione dell’Europa unita dopo la seconda guerra mondiale dice che non si tratta di cosa impossibile e forse la sua attuale problematicità non è detto che sia pura decostruzione, giacché di egoismi e di burocrazie si può morire per asfissia ma di sane e positive identità si può anche prosperare.
Ecco dunque il punto. Le identità sono fenomeni culturali complessi e come tali vivono nella storia e si modificano. Perciò non sono necessariamente e per definizione elementi negativi. Lo diventano quando si sposano non con l’affermazione delle specificità delle popolazioni ma con il potere rivendicato come esclusivo delle nazioni, cioè con un nazionalismo prepotente e aggressivo. Ma appunto questo non è un fenomeno di natura ma solo frutto del prevalere storico di orientamenti culturali, che a loro volta si sposano sempre con interessi precisi e con classi dirigenti che li rappresentano. Per questo è bene essere vigili e condurre per tempo le battaglie sui diversi piani che permettono di prevenire gli scivoloni verso il peggio.
I problemi di oggi (montante nazionalismo, chiusure culturali, ostilità verso gli immigrati, ecc.), questa è la mia convinzione, sono largamente frutto di incapacità, scarsa lungimiranza, pressappochismo, di classi dirigenti improvvisate, preoccupate più che del bene comune della perpetuazione di se stesse o di rottamare qualcuno per sostituirlo. Al popolo che ha fame non si possono promettere le brioches di Maria Antonietta e al popolo preoccupato del futuro proprio e dei propri figli non si può fare la predica dell’universale buonismo. Credo che una buona dose di onestà intellettuale, una dimostrazione di lungimiranza e scelte coraggiose di vera responsabilità, cioè roba da statisti, ci farebbero uscire, seppure in modo credo non indolore, dal tunnel in cui ci siamo cacciati. Ma dove sono costoro? Dico gli statisti, ma anche coloro che tra i cittadini li desiderano sul serio e operano per averli.
Il mondo infestato dai demoni. In ricordo di Carl Sagan
di Franco Raimondo Barbabella
Corrono quest’anno i 20 anni dalla morte di Carl Sagan, scienziato e divulgatore scientifico, autore di numerosi saggi e libri tutti centrati sull’obiettivo di attrezzare le menti per distinguere tra scienza e pseudo-scienza.
Molti ricorderanno il film del 1997 Contact, capolavoro della fantascienza tratto dall’omonimo romanzo con cui Carl Sagan indaga le implicazioni dell’incontro tra umani e alieni e i complessi rapporti tra fede e scienza. Non so quanti invece oggi ricordano il suo ultimo libro, Il mondo infestato dai demoni, scritto poco prima di morire e pubblicato subito dopo la morte, di fatto il suo testamento spirituale.
Ecco che cosa scrive il traduttore Libero Sosio nella presentazione: “In una società impregnata di tecnologia come la nostra, ma sempre più assediata da nuovi profeti, impeti di irrazionalità e falsa ricerca del meraviglioso (basti pensare alla New Age e alle sue esagerazioni, ai guaritori e agli astrologi, consulenti di fiducia persino di importanti capi di Stato, agli «psicochirurghi», all’ufologia e alla mitologia degli alieni, alle truffe della parapsicologia, alla disonestà di giornali e programmi televisivi che sfruttano la credulità di persone impreparate ecc.), allontanarsi dalla scienza o permettere che venga demonizzata, significa in realtà consegnarci ai veri demoni: l’irrazionalità, la superstizione, il pregiudizio, ed entrare in un’epoca di nuovo oscurantismo.”
Questo è stato Carl Sagan, uno dei massimi esponenti del razionalismo critico della seconda metà del Novecento, colui che non si è stancato di ricordarci il dovere di non rinunciare mai all’esercizio critico del pensiero, giacché l’accettazione acritica di affermazioni non verificate genera inevitabilmente demoni. Come si sa, la storia ne è piena e, all’epoca in cui Sagan scriveva, la realtà di demoni ne produceva in abbondanza sotto diverse forme. Per questo egli diffondeva l’idea della necessità del pensiero critico come garanzia di libertà e di democrazia.
Da allora le cose non sono molto cambiate, anzi. Nel mondo e in Italia. La realtà ce lo ricorda tutti i giorni. Non si tratta solo della presenza di stregoni e ciarlatani di ogni genere ma di possessori di abilità rigorosamente antiscientifiche in ogni angolo, vere e proprie sfacciate professioni di fede antirazionale e antilogica. Una diffusione impressionante di un modo di pensare e di fare che crea danni più gravi delle alluvioni e dei terremoti, perché sedimenta sistemi valoriali distruttivi di ogni certezza seppure provvisoria e quindi anche di ogni serio confronto sulle possibilità di miglioramento delle condizioni di vita e di azioni programmate per tradurle in realtà.
Sono cadute progressivamente le paratie con cui si cercava di separare non solo scienza e psudo-scienza, come voleva Carl Sagan, ma il normale esercizio della ragione dal sospetto, dalle dicerie e dalle pulsioni più sfrenate. Basta un’impressione per denunciare qualcuno e si troverà un giudice che farà patire al malcapitato come minimo le pene della noncuranza giudiziaria. Basta un sospetto e un giornalista ci monterà sopra un caso che massacrerà mediaticamente una scienziata nota in tutto il mondo che alla fine sarà proclamata innocente ma per questa vicenda riterrà di dover cambiare Paese per poter fare il suo mestiere. Ci sarà sempre un conduttore televisivo che darà spazio al cultore di medicina alternativa o all’esorcista che guarisce l’assatanato. E così via, verso il culto delle pulsioni più irrazionali e le nuove forme di oscurantismo.
Non vorrei che qualcuno interpretasse questo mio ragionare come sogno di un razionalismo che tutto spiega e tutto dogmaticamente comprende. Lo ho detto tante volte e lo ripeto, è esattamente il contrario: quel tipo di razionalismo è morto e sepolto, lo scientismo è una deviazione, lo spirito critico è invece esercizio del dubbio che apre le provvisorie certezze al confronto per verificare come si possano risolvere i problemi nel modo più vantaggioso per tutti.
Piuttosto mi chiedo come mai non ci si chieda se per caso, al di là delle naturali debolezze umane, non vi siano cause culturali precisamente individuabili alla base di comportamenti diffusi nelle istituzioni pubbliche non solo approssimativi ma di tipo chiaramente irrazionale. Comportamenti che si caratterizzano per riforme che non riformano, programmi che durano lo spazio di un annuncio, soluzioni che stanno solo nella mente di chi ne parla. E però tutto normale, va tutto bene, un discorsetto, un passaggio su un giornale meglio se online, una polemicuzza sui social, e via verso la prossima occasione per non fare o fare secondo ciò che conviene al momento al piccolo o grande potente di turno.
Queste cause ci sono e quali sono? Io sono convinto di si e sono per un verso una presenza e per un altro una mancanza. La mancanza è una carente educazione di tipo logico e di tipo scientifico moderno, che sul piano politico si traduce nell’assenza di un riformismo coerente e lungimirante e di regole per una seria selezione delle classi dirigenti a tutti i livelli. La presenza è l’asfissiante convergenza di un rivoluzionarismo parolaio inconcludente e di un conservatorismo trasversale attendista e rinunciatario.
Ne usciremo? Non so, per ora non vedo all’orizzonte niente di incoraggiante. Però so anche che la storia non è lineare e che quando ti sembra di aver raggiunto il fondo viene fuori lo scatto e il cambiamento possibile. Ma abbiamo raggiunto il fondo?
Commento di Dante Freddi
Dei tanti stimoli lanciati da Barbabella ricordando Carl Sagan raccolgo particolarmente l’affermazione che “Allontanarsi dalla scienza o permettere che venga demonizzata, significa in realtà consegnarci ai veri demoni: l’irrazionalità, la superstizione, il pregiudizio, ed entrare in un’epoca di nuovo oscurantismo.”
Il pensiero va alle numerose trasmissioni televisive, molte anche sulla RAI, in cui si dà spazio e quindi visibilità e credibilità alle più fantasiose credenze sul cibo e sulle diete alimentari, che interessano tutti perché tutti più meno mangiamo. E allora scopriamo che col nostro gruppo sanguigno abbiamo mangiato zozzerie dannosissime per noi, che abbiamo una gamba nella fossa per aver assunto latte e formaggi. E poi la polemica del momento, emblematica della perenne lotta tra scienza e mezza scienza, tra onnivori tartassati e criminalizzati da vegani e vegetariani, che ponendo alcune verità pretendono di rendere vero tutto il pacchetto di nozioni antiscientifiche a cui credono. Gira sugli schermi una signora vegana agitatissima che bisticcia con il medico dietologo di turno.
Raccoglie un pubblico numeroso, come tutti quelli che urlano, e credo produca anche una gran confusione in chi è alla ricerca di un equilibrio tra necessità di dimagrire, rispetto per gli animali, voglia di cambiamento, anticonformismo e quindi conformità alle novità più culturalmente “eleganti”. Se poi applichiamo le modalità del caso alla politica, sprofondiamo nello sconforto e vediamo girare sugli schermi giornalisti scientifici che negano l’effetto serra sul clima e influenzano politici e decisori cretini o interessati.
E qui il danno è gigantesco. Abbiamo raggiunto il fondo? non lo so, ma siamo figli di Dio, un po’ scemi, tanto da giocarci il paradiso terrestre, ma con tutte le potenzialità per raggiungere conoscenze “ scientifiche” per cavarcela.
Commento di Pier Luigi Leoni
Franco, anche quando è costretto a considerazioni amare dalla realtà in cui siamo immersi, non si perde d’animo, convinto com’è che c’è sempre la possibilità di fare qualcosa di positivo con l’impegno quotidiano. Egli è convinto, come lo sono io, e come lo è Dante, che noi possiamo decidere di non invecchiare. Altrimenti non staremmo qui a raccontarvi con tenacia le nostre riflessioni. Forse illudendomi di completare il quadro vorrei richiamare l’attenzione dei lettori e dei miei interlocutori sul fatto che gli esseri umani, nonostante i progressi della scienza e della tecnica continuano a interrogarsi sul senso della vita. Continuano a essere assillati, oltre che dal destino dell’umanità, dal proprio destino individuale: un enigma che cerchiamo di scansare con mille stratagemmi di ordine scientista, magico, ideologico e perfino religioso. Ma l’enigma resta; e allora vogliate gradire queste sagge parole di Gotthold Ephraim Lessing che, a mio avviso, ben inquadrano la bellezza e il limite della conoscenza umana.
«Il valore di un uomo non risiede nella verità che possiede, o che crede di possedere, ma nel sincero impegno che egli assume cercandola. Poiché è la ricerca e non il possesso della verità che ne accresce le forze, e in esse soltanto l’uomo trova la possibilità di un progresso costante verso la perfezione. Il possesso ci rende tranquilli, pigri, orgogliosi: se Dio tenesse nella mano destra la verità tutta intera e nella sua sinistra il solo anelito, sempre vivo, alla verità – anche se questo conducesse sempre e solo all’errore – e se egli dicesse: «Scegli!», io mi getterei umilmente sulla su mano sinistra e direi: «Fammi dono di questo, Padre! Poiché la pura verità può appartenere a te soltanto».