Il patrimonio comunale: ricchezza o palla al piede? L’esempio del Casermone.
Elzeviro di Pier Luigi Leoni
I Comuni, oltre ai beni destinati a servizi pubblici, sono normalmente proprietari di beni patrimoniali disponibili, che possono essere alienati per realizzare investimenti o utilizzati per ricavarne una rendita. La provenienza di tali beni può essere la più varia: lasciti, acquisti, fine della destinazione a pubblici servizi ecc. Da un punto di vista giuridico-contabile, tali beni costituiscono ricchezza per la collettività. E il senso comune collima con la legge e la ragioneria. Infatti la vendita di un bene comunale viene percepita come un impoverimento, come una negatività. Persino quando, come nel caso della vendita della farmacia comunale di Orvieto, il Comune fece un affare eccezionale. Il senso comune induce ancora a rimpiangere quel piccolo carrozzone superato dall’avvento del servizio sanitario nazionale perché, sulla carta, il patrimonio comunale ne fu effettivamente diminuito. Ma va data un’occhiata all’altro lato della medaglia. La gestione di un patrimonio da rendita, soprattutto se immobiliare, costituisce un problema per i privati e rappresenta una catastrofe per un ente pubblico. Basta raccogliere lo sfogo di un qualsiasi privato che possegga terreni e fabbricati e che debba barcamenarsi tra tasse, manutenzioni e affittuari morosi. Basta dare un’occhiata a quanti appartamenti e capannoni rimangono invenduti, sfitti e spesso fatiscenti. Allora ci si può rendere conto che la ricchezza può suscitare invidia, ma, quando comporta l’impegno nella gestione di un patrimonio immobiliare, non dà la felicità. Se per un privato la gestione di un patrimonio immobiliare è complicata, per un ente pubblico è praticamente impossibile. Si dovrebbero pretendere dall’amministrazione e dalla burocrazia comunale un impegno assiduo, una competenza spiccata e un disinteresse eroico che chi campa di voti e di stipendi non può avere. È per questo che se si facesse correttamente il calcolo di quanto vale effettivamente sul mercato il patrimonio disponibile del nostro Comune, di quanto costa di personale per la gestione, di quanto costa di manutenzione e di quanto si degrada ogni anno, si correrebbe a venderlo e, in alcuni casi, a regalarlo. Tanto per fare un esempio, il Casermone quanto vale sul mercato? Quanto si degrada ogni anno? Quanto costerebbe se fosse correttamente manutenzionato? Certo, si può coltivare la speranza che prima o poi piovano soldi pubblici e privati e che la comunità orvietana ne tragga beneficio. È già successo nel passato e gli Orvietani ancora rimpiangono i soldatini, i loro parenti, i militari di carriera, le forniture alla caserma, le trattorie e i cinema sempre pieni e via dicendo. Sono quindici anni che rimpiangiamo e speriamo, confortati dal fatto che ci troviamo in zona con pericolosità sismica bassa, soggetta soltanto a scuotimenti modesti.
Commento di Dante Freddi
Il Casermone è emblematico di quanto sia difficile valorizzare un immobile che copre uno spazio significativo della città. Non è un palazzo che si può vendere, perché è considerato strategico e per quindici anni è stato considerato il futuro volano dell’economia cittadina. La precedente Amministrazione, presa per il collo, tentò di disfarsi della palazzina comando, ma senza esito.
Fatto è che compiuto l’errore fatale quando fu bloccato il lavoro di Risorse per Orvieto di Barbabella, si fermò un processo e un metodo per valorizzare la ex Piave. La crisi economica che è succeduta dal 2008 in poi ha definitivamente affossato ogni prospettiva e mettere l’immobile nella Fondazione Patrimonio Comune dell’Anci finora non ha prodotto risultati conosciuti, a meno che anche Germani non lavori con la stessa “riservatezza” di Còncina. Poi c’è l’ex ospedale, di cui si occupa la Regione e che se non si individua prima possibile una soluzione, spero in accordo con la città, costituisce un altro bel pezzo di Orvieto che sta andando in pezzi.
Nella logica economica privata, chi ha patrimoni immobiliari e non ha soldi per mantenerli, vende quelli che non servono e con il ricavato rende funzionali gli altri, ritenuti coerenti con un progetto economico. Credo che per gli enti pubblici dovrebbe funzionare nello stesso modo. A Orvieto è stato già fatto così e un esempio è la vendita del palazzo delle zitelle sperse, venduto e valorizzato a fini residenziali. Poi c’è anche il caso emblematico di Palazzo Simoncelli, ristrutturato, destinato a Museo della ceramica e di fatto inutilizzato, perché i musei sono cosa seria e costosa da gestire. Un palazzo comunale bello, ristrutturato e non sappiamo che farci. Un altro tipo di problema. Insomma, ci vuole un progetto per avere consapevolezza di quanto è utile e di quanto non lo è, né oggi né ipoteticamente per il futuro, e assumersi la responsabilità di decidere e il coraggio di operare.
Commento di Franco Raimondo Barbabella
Considerazioni giuste queste di Pier Luigi, sia rispetto ai problemi di gestione dei beni immobiliari privati che di quelli pubblici. Mi riferisco in particolare, per quanto riguarda i privati, al modesto patrimonio della casa di proprietà e a ciò che è stato lasciato in eredità o è frutto di legittimi guadagni e investimenti o è strumento di lavoro e, per quanto riguarda il pubblico, al patrimonio comunale accumulato per vicende storiche e trasmesso alle generazioni presenti perché lo conservino ed eventualmente lo trasmettano potenziato.
D’accordo dunque, con due sole osservazioni. La prima sulla proprietà immobiliare privata così come sopra descritta. Io trovo miope una linea di governo che con la tassazione e con mille vincoli burocratici e balzelli scoraggia la formazione e il mantenimento del patrimonio immobiliare personale e familiare a tal punto che il solo mantenimento di ciò che hai ereditato diventa un problema che ti assilla.
La seconda sul patrimonio immobiliare pubblico, soprattutto se di proprietà di piccoli comuni. Mantenerlo e trasmetterlo ai posteri, se possibile migliorato e incrementato, dovrebbe essere un obiettivo esplicito e non derogabile. Se si vende vuol dire che si è amministrato male. Se si svende si commette un delitto contro la comunità, e ci dovrebbe essere il coraggio di promuovere una iniziativa legale contro gli amministratori per danno erariale.
La situazione di Orvieto è poi del tutto particolare. Il patrimonio pubblico della nostra città è, per tappe storiche, la città stessa, la sua realtà fisica e la sua anima. Non solo, ma è anche la sua possibilità di futuro, economico, civile, di identità e di ruolo. Esso va visto per questo in modo unitario al di là delle distinzioni di proprietà e organicamente connesso con l’acrocoro tufaceo, con l’ambiente naturale e con il territorio di riferimento.
Per questo ho sempre parlato, ossessivamente, di visione e di progettualità. Orvieto non può essere governata alla stracca, con i metodi del furbismo paesano, con lo sguardo sghembo e con l’obiettivo della carrieretta. Orvieto o pensa ed agisce in grande, in modo lungimirante, o non è. Chi governa qui o lo fa fregandosene delle miopie, delle invidiuzze e delle maldicenze quotidiane, e assumendosi tutti i rischi di chi sa che, anche se è onesto, può trovare sempre chi gli frappone ostacoli e in essi inciampare, o è meglio che pensa ad altro. Qui il sogno è un obbligo. Il sogno è strategico. Lo è stato ieri. A maggior ragione lo è oggi. E nessuno pensi che ragiono così per nostalgia. Sono pronto a confrontarmi con chiunque sulle ragioni di oggi, oltre che naturalmente su quelle di più lungo periodo.
Qualcuno si ricorderà che mi sono occupato anche di ex Piave, insieme ad un gruppo di persone perbene che non cesserò mai di ringraziare per la loro lealtà e la loro dedizione al compito ricevuto. Lo spirito e le concrete modalità di pensiero e di azione con cui ce ne siamo occupati era quello che ora ho detto. Ci hanno impedito di andare avanti. L’ho considerato e continuo a considerarlo oggi un vero e proprio delitto contro la città, e non ho capito né capirò mai perché su questo tutti hanno taciuto e tutti continuano a tacere. Vedo che nemmeno Pier Luigi ne fa cenno, ma lui è stato uno dei pochissimi che sempre, dall’inizio alla fine, mi ha aiutato e incoraggiato, avendo ben capito sia l’importanza di quella sfida sia il modo in cui ci abbiamo lavorato.
A più riprese si è brigato per liberarsi di questo straordinario patrimonio, fino a ipotizzare nemmeno la sua svendita ma addirittura di regalarlo a qualcuno, quasi appunto a liberarsi di un peso. Incredibile, da straordinaria opportunità ad un peso di cui liberarsi! Forse più che di strani disegni si è sempre trattato di pochezza o di coscienza del fallimento da parte di pezzi significativi delle nostrane classi dirigenti.
Ora però basta. Dopo aver impedito in tutti i modi ad RPO di agire, dopo aver brigato per fare di quel complesso uno spezzatino, dopo aver tentato di piazzare purchessia la sola Palazzina Comando, dopo aver affidato la soluzione a sperimentati carrozzoni e a chi si sapeva fin dall’inizio che non avrebbe combinato niente, non pensino di farla finita con qualche trucchetto e giustificazioni massmediatiche nella speranza che gli orvietani ingurgitino la pillola anche senz’acqua. Lì, insieme al complesso del patrimonio, c’è il futuro della città. Quella roba è un pezzo di città, per cui nessuno ha il diritto di occuparsene senza il dovuto rispetto. Questa volta voglio sperare che nel caso gli orvietani lo impediranno.
Perché il sapere razionale è migliore del “mito di un’illusione”, a cui tuttavia nessuno deve negare il diritto di cittadinanza
Elzeviro di Franco Raimondo Barbabella
In questo periodo, prendendo anche occasione dalla struttura della nuova serie della nostra rubrica, più che occuparmi di commenti alle notizie pescate qua e là, sto cercando di prendere spunto dai fatti che quotidianamente accadono per tentare di capire il mondo in cui viviamo. Questo è il senso delle riflessioni che ho proposto con i primi tre elzeviri. Vorrei continuare, anche per offrire ai miei amici Pier Luigi e Dante e agli affezionati lettori (non importa se pochi o tanti) occasioni per darmi addosso, magari anche con gusto.
Prima di affrontare l’argomento che mi urge dentro è necessaria però un’altra premessa. Io parto dall’assunto che la democrazia liberale, pur con tutti i difetti che non è necessario ancora rammentare, rappresenta il punto più evoluto dell’organizzazione politica della società moderna, per la semplice ragione che, a differenza delle dittature, delle oligarchie e delle autocrazie, contiene connaturata in sé la possibilità dell’autocorrezione e dell’esercizio del potere fondato sul consenso. Parlo di possibilità, ben sapendo quanto nella realtà sia difficile che ciò si realizzi come sarebbe auspicabile.
Ovvio che la fonte ideale delle diverse forme di democrazia liberale storicamente esistenti è il pensiero liberaldemocratico. Altrettanto ovvio, come detto, che la distanza tra il pensiero e la sua attuazione pratica spesso è grande e che in Italia, per vicende storiche particolari, si è affermata, con la sconfitta del fascismo, una forma di regime che è certamente democratica ma altrettanto certamente ha poco di liberale: molto conservatorismo, anche di segno opposto, molto estremismo, soprattutto parolaio, e poco, pochissimo, riformismo, cioè cultura di governo delle cose possibili, da fare sul serio sfidando anche l’impopolarità con in testa il bene comune.
Ecco perché nell’elzeviro della scorsa settimana ricordavo l’importanza del passaggio dagli dèi al logos di duemilacinquecento anni fa e i guai che derivano dal permanere anche nelle moderne società industriali di un pensiero mitologico che spesso fa violenza al pensiero razionale. Le sue forme sono molto diverse, si manifesta con modalità ora più leggere ora più forti, e però sempre provoca illusioni, che prima o poi la realtà smentisce di sicuro ma che nel frattempo creano incrostazioni, sia nelle menti che nelle istituzioni, difficili poi da scalfire.
Viviamo nella società dell’apparire, del “sei quel che vedi” (Sartori): se tv, siti web e giornali ti bombardano dal mattino alla notte con le immagini degli immigrati che si spostano per terra e per mare in cerca di Europa, l’effetto è l’imminenza dell’invasione. Sicché, che essa poi ci sia o no poco importa, “scatta una logica di difesa e di protezione anche quando non ci sono le condizioni di fatto”, e nelle consultazioni elettorali avanzano le formazioni populiste: è successo tempo fa nelle Midlands con la Brexit, ed è successo da poco nel Maclemburgo con le elezioni regionali tedesche. In quelle realtà inglesi e tedesche non ci sono affollamenti di migranti, eppure hanno vinto i personaggi che, come Boris Johnson e Frauke Petry, si fanno interpreti della paura che i migranti arrivino e sconvolgano assetto sociale e livelli di vita.
È il trionfo della teoria del sociologo e filosofo canadese Marshall McLuhan secondo cui “il medium è il messaggio”: indipendentemente dal contenuto trasmesso, lo strumento della comunicazione produce effetti pervasivi sull’immaginario collettivo e influenza gli orientamenti degli individui. Ecco allora la ricerca spasmodica del successo mediatico, del consenso immediato, il presente senza passato e senza futuro. È anche la rivelazione ultima del postmoderno, per cui “non ci sono fatti, solo interpretazioni”: la realtà ce la possiamo inventare come ci pare, basta che ci sia qualcuno che ci crede.
Le conseguenze sono di ordine diverso, e si possono fare esempi di ogni tipo e per ogni dove. Ad esempio, può accadere che un pediatra stimato si suicidi perché incapace di sopportare la sentenza di colpevolezza emessa senza processo dal “circo mediatico”. Oppure si può leggere un’intervista di Michele Santoro in cui si afferma che non ha importanza se si trasforma il figlio di un mafioso in un personaggio mediatico perché per capire la mafia a questa tipologia di persone conviene rivolgersi (sic!). Oppure, ancora, si può assistere alla trasformazione della politica nello spettacolo quotidiano degli annunci renziani che danno per fatto ciò che è solo immaginato, o anche vedere lo srotolarsi giornaliero della doppia verità pentastellata tra trasparenza annunciata e decisioni secretate. Roma, diventata capitale anche della verità inventata.
Non parliamo poi di ciò che accade nei più diversi luoghi della provincia italiana, compresa la terra nostra, in cui può accadere che i rappresentanti del popolo vestano la fascia tricolore per capeggiare manifestazioni o firmare documenti contro questa o quella cosa schiacciandosi sulle posizioni dell’ambientalismo del no, senza vergognarsi di poter essere smentiti da parte della realtà e dell’evidenza, o di fare danno alla collettività lisciando il pelo alle reazioni emozionali primitive di un’opinione pubblica depistata e disorientata.
Concludo, ed ecco allora la questione: non nego né l’inevitabile esistenza né l’utilità del mito quando per mito intendessimo la passione ideale che diventa progetto di trasformazione, disegno ambizioso che genera dialettica tra alternative possibili e perciò discutibili, scontro di forze, accordi e disaccordi, e infine soluzioni che poi magari sarà possibile aggiornare o cambiare in futuro. Questa è la normale, anzi auspicabile, vicenda delle idee feconde e delle relazioni positive che generano e trasformano la realtà. Io credo che vada aspramente combattuta la riduzione di tutto ciò a caricatura, a illusione mediatica, inganno continuato e aggravato, vero e proprio delitto contro la coscienza individuale, oltre che danno culturale e sociale profondo.
La necessità del pensiero razionale di cui parlo io è l’esercizio del pensiero critico, che non esclude affatto, né nella vita individuale né in quella collettiva, l’importanza delle emozioni, delle passioni e delle fedi, ma solo non è disposto a tornare all’epoca in cui i fenomeni si spiegavano con la volontà divina costretta ad intervenire in ogni dove e sotto dettatura di chiunque ne avesse bisogno per carenza di ragionamento. Io, piuttosto che affidarmi agli autoproclamati detentori dell’unica e assoluta verità che periodicamente compaiono sulla scena per mettere a posto il disordine umano, preferisco continuare a coltivare le più modeste ma solide opinioni sostenute a tal fine con argomentazioni documentate, frutto della fiducia nel sapere costruito faticosamente dagli uomini per amore del loro destino comune.
Dopodiché ognuno sceglie ciò che più corrisponde alle sue personali convinzioni. Purché poi si assuma anche le responsabilità delle conseguenze che insieme ad altri inevitabilmente provoca. Io mi riservo, come penso farà o dovrebbe fare chi condivide la medesima posizione, di combattere ciò che ritengo errato o dannoso. Senza pregiudizi.
“La realtà ce la possiamo inventare come ci pare, basta che ci sia qualcuno che ci crede”, cita Barbabella. È sufficiente infatti seguire un po’ FB e media vari per rendersi conto di quanti siano i creduloni che prestano fede alle bufale che girano e quanta adesione raccolgano quei post che esagerano la realtà, o ne raccontano una falsa o “lavorata”, tale da aderire perfettamente all’idea, all’illusione, al mito che il navigatore ha in testa, alla notizia che vuole e che cerca. Informazioni che rafforzano la convinzione del lettore e si moltiplicano, diventano una stupidaggine virale, diventano una realtà che pesa poi sulle scelte della democrazia come le verità vera. L’esempio dei migranti citato all’inizio dell’intervento di Barbabella è perfettamente calzante. Le idee che circolano sull’emigrazione, ad esempio, non scaturiscono da “passione ideale che diventa progetto di trasformazione”, ma sono spesso mostri generati con piccole notizie, qualcuna vera qualcuna montata, anche banali ma ormai sufficienti per alimentare il mito dell’invasione musulmana.
In questo affollamento di informazione i giornalisti dovrebbero costituire un presidio di tutela dell’informazione e sostenere la capacità di ragionare e l’onesta ricerca della verità. I giornalisti, del web o della carata stampata o della televisione, hanno come fondamento nel loro codice etico la funzione di disvelare la verità, che esiste, più o meno “velata”, e che è il punto di partenza per qualsiasi ragionamento, almeno per chi abbia voglia di confrontarsi. Ma, caro Franco, è battaglia dura, perché credere quello che vorremmo e coccolare la nostra illusione è più facile che argomentare su quanto non vorremmo e innescare un ragionamento leale, che tolga qualche velo che opacizza la verità e ci aiuti a vedere e agire meglio.
Pensa che in Italia c’è ancora chi crede al mito della Padania e gira con le corna, nel caso quelle da bue.
Non c’è una piega nel ragionamento di Franco e non solo lo sottoscrivo, ma riconosco che mi è utile nell’orientarmi civilmente e politicamente. Ma una piega c’è nella realtà umana. Quella che Erasmo da Rotterdam, con geniale leggerezza, chiamava follia; non nel senso di pazzia, ma di stoltezza. Del resto tutto ciò che a Franco non piace nell’andazzo odierno che cos’è se non stoltezza? Il problema è se essa sia rimediabile solo con la razionalità. Io propendo per chiedere un aiutino alla Provvidenza.