Le dure repliche della realtà
Elzeviro di Franco Raimondo Barbabella
Tra l’ottavo e il sesto secolo avanti Cristo in Grecia avvenne il passaggio “dagli dei al logos”, cioè da una spiegazione mitologica ad una razionale della realtà. Furono le figure sapienziali poi chiamate filosofi ad operare questo straordinario passaggio culturale che influenzerà la storia dell’Occidente avendo trovato in Socrate il suo emblematico interprete. Socrate, interprete appunto del motto scritto sul frontone del tempio di Delfi “Conosci te stesso”, filosofo della ricerca razionale, della verità mai conclusa, del dialogo che mette in gioco il sé con l’altro da sé.
Qualcun altro, sempre filosofo, nella seconda metà dell’ottocento, attribuirà non a caso a Socrate la colpa di aver minato dalle fondamenta la forza vitale dell’Occidente proprio in ragione della sua ricerca razionale della verità. Sicché il Novecento, ovviamente senza colpa di chi aveva condannato la razionalità socratica in nome di un vitalismo irrazionale (peraltro con qualche giustificazione, a causa dell’allora dominante autoritario scientismo), è stato il secolo del ritorno al mito, anzi, il trionfo dei grandi miti, che in politica si sono tradotti nelle formazioni statuali del comunismo e dei fascismi con la punta estrema del nazismo. Tutti finiti come sappiamo.
Ma “le dure repliche della storia” non sono bastate a convincere i più che il prevalere del mito sulla ragione è fonte inevitabile di disastri. La storia non è “magistra vitae”, come pensavano i nostri padri romani; la storia però si vendica delle illusioni. La realtà smentisce (certo, non sempre e non automaticamente, perché spesso ci vuole la pazienza della ricerca, il coraggio della denuncia, il sacrificio della fede nella verità) il mito che per un certo tempo imperversa e corrompe animo e mente degli uomini. Quante volte è successo nei decenni che abbiamo appena alle spalle? Non so più dire, così tante sono state le esperienze che ci rattristano l’anima e ci strizzano il cervello!
C’è stato il crollo dei regimi comunisti, la tragica illusione dello stato perfetto realizzato con la forza. C’è stata la vicenda tragica dei regimi fascisti e del nazismo con l’illusione della razza perfetta che si ottiene depurando l’umanità con l’eliminazione delle scorie biologiche e culturali. C’è stata poi la parabola triste del pacifismo unidirezionale, che ha riposto le bandiere arcobaleno quando è stato a tutti evidente che i focolai di guerra non si diffondono solo a copertura degli interessi americani. C’è stata, e questa c’è ancora, l’illusione del furbismo e buonismo all’italiana, che tutto risolve tragicamente con le folate di solidarietà a detrimento di modalità razionali di prevenzione, programmi fatti con lo sguardo lungo e realizzati con paziente e controllata continuità. Si potrebbe andare avanti un bel po’.
C’è insomma una cultura consolidata dell’illusione, eredità di una preferenza per il mito che risale alle origini della cultura occidentale e che per diverse ragioni si è infiltrata nelle nostre midolla. Fra le cose minori, ma non certo ininfluenti sulla nostra vita, si arriva perfino al “Patto con gli italiani” di Berlusconi, al “Governo delle slides” di Renzi, al “Dio Po” e alla “Padania” della Lega, alla “Gaia” di Casaleggio e al “Vaffa Day” di Grillo. Un politica massmediatica che richiede l’espulsione dell’informazione, dell’analisi razionale e della decisione consapevole dall’orizzonte del cittadino.
La realtà si è puntualmente incaricata di distruggere tutte queste esperienze con fondamento nella mentalità mitologica, quella che preferisce le illusioni della perfezione all’accettazione delle cose possibili ottenute con sforzo, lucidità e coraggio. La rivoluzione impossibile al posto delle riforme faticose ma possibili. La chiacchiera al posto della responsabilità. Perché tutto ciò è accaduto e continua ad accadere? Non credo sia a disposizione una spiegazione univoca. Di sicuro in ogni caso non basta dire che l’illusione appartiene alla natura degli uomini (è un’ovvietà) né che è stato sempre così e così sempre sarà.
Si tratta anzitutto di un problema di sapere e di cultura. Se in alcune parti del mondo prevale una cultura razionale che in politica si traduce in riformismo lungimirante (ad esempio nel Nord Europa), vuol dire che la coltivazione del mito come strumento ingannevole del potere non è frutto né del destino cinico e baro né di un abile folletto ingannatore, ma che ci sono cause storiche lontane e responsabilità identificabili vicine. Dunque cambiare si può. Non è facile, né indolore, né cosa che avviene schioccando le dita. Ma chiunque di noi che lo voglia può fare qualcosa per andare in quest’altra direzione.
Il pensiero di Barbabella auspica un “riformismo lungimirante” , che sostituisca sistematicamente “la coltivazione del mito come strumento ingannevole del potere”. Condivido la “direzione”.
Ma è possibile riformare la realtà senza abbracciare un’illusione su cui fondare il confronto con il contrario e costruire onestamente il proprio pensiero, e quindi l’azione? André Malraux, politico e intellettuale francese del secolo scorso scrive che “I miti sui quali viviamo sono contraddittori: pacifismo e necessità di difesa, organizzazione e miti cristiani, efficienza e giustizia e così via”. Dallo scontro onesto tra miti e illusioni contraddittori può nascere una realtà equilibrata e positiva. Dalla neutralità, dall’assenza di illusione non c’è convinzione da difendere e da mettere in crisi, non c’è l’idea a cui sapere dire Sì e tentare con razionalità di dimostrare il contrario e dire No, fino a giungere al Pensiero, da risolvere poi in azione. Temo che la mancanza di idee robuste che lottano produca indifferenza e quindi decadenza culturale, politica, economica sociale.
Io , ad esempio, sono pacifista, ma sono disponibile a mettere in discussione il mio Mito se di fronte c’è un’idea contraddittoria altrettanto forte e disponibile alla ricerca e alla rinuncia di se stessa per una nuova e diversa possibilità di comporre la contraddizione. Non mi fa paura l’illusione del Mito come limite dello sviluppo lungimirante, ma l’atteggiamento assolutista di chi è talmente affezionato alle proprie sicure illusioni che non sa leggere né presente né passato.
Sul mito mi convince la definizione che ne ha dato il teologo “progressista” Vito Mancuso:
«Il mito è più vero della storia. Ciò che è storico è veramente accaduto una volta, ciò che è mito accade realmente ogni giorno. Il mito è la forma più originaria che il pensiero umano abbia elaborato per esprimere l’intuizione della verità della vita, quella verità che ci circonda e che da una parte è diversa dall’altra, e che appena ci ha fatto vedere bianco subito dopo ci dice nero, quella verità che è ben più della semplice esattezza e che coincide con la logica che muove la vita.»
Forse è per questo che i miti sono presenti in tutte le epoche e in tutte le culture.
La considerazione di Mancuso coincide (“stranamente” per chi non sia abituato a leggere di tutto nonostante i propri pregiudizi) con questo aforisma dello scrittore “reazionario” Nicolás Gómez Dávila: «Chi non sa che due aggettivi contrari qualificano simultaneamente lo stesso oggetto non deve parlare di nulla.»
Qualche anno fa, non essendo dotato di una mente sistematica e di una particolare inquietudine per le sorti dell’umanità, scrissi ciò che segue, e che ancora sottoscrivo.
«Quando cerchiamo di formulare un sistema coerente di idee per comprendere il mondo non possiamo evitare di essere influenzati dai sistemi d’idee coi quali siamo venuti a contatto e, anche se riusciamo a creare un nostro sistema, ci chiudiamo in una gabbia che lascia fuori una parte sconfinata della realtà. Perché non ci rassegniamo al fatto che la realtà è contraddittoria? Più studiamo e più ascoltiamo affascinanti maestri, più ci chiudiamo in gabbia; a meno che non accettiamo la contraddizione che solo l’abbandono e la preghiera ci possono aiutare ad accettare. Cristo ha accettato la contraddizione tra l’amore del Padre e il suo lasciar soffrire il Figlio. Quella sì che è fede.»
Difendiamoci in tempo dall’esondazione del Paglia
di Pier Luigi Leoni
Quando càpito nel parcheggio dietro alla stazione ferroviaria, mi torna in mente il motto del “Filosofo di Castiglione”: «Il tempo sta, sta e poi piove». Il 12 novembre 2012 piovve tanto e quel vasto comprensorio di aree comunali contigue sulla strada della Direttissima e in piazza della Pace, finì sotto un metro e settanta centimetri di acqua. Fu la prova provata, anzi la conferma, che quella zona fa parte delle aree di esondazione del Paglia. Ci furono danni enormi e, per fortuna, nessuna vittima. Ma dovrebbe essere chiaro che quelle aree vanno messe in sicurezza. Per questo, durante la scorsa legislatura, come consigliere comunale, presentai una mozione proponendo l’avvio delle operazioni necessarie per:
- a) mettere in sicurezza la zona in questione realizzando vasti parcheggi sopraelevati a servizio della stazione ferroviaria, del centro abitato di Orvieto Scalo e del Centro Storico, anche in vista di una razionalizzazione del traffico e dei trasporti per il miglioramento della qualità della vita e lo sviluppo del turismo;
- b) costruire ingenti volumi per attività pubbliche e private;
- c) realizzare, a copertura dei parcheggi, impianti fotovoltaici di elevata potenza e meno impattanti, dal punto di vista paesaggistico, dei veicoli in sosta;
- e) finanziare la spesa con capitali privati secondo lo schema, previsto dalla legge, della finanza di progetto.
La mia mozione non ebbe séguito, ma allora dominava il FODRIA (forze oscure della reazione in agguato). Invece adesso governano le forze del progresso.
Ovviamente scherzo, ma la cosa seria è che «il tempo sta, sta e poi piove».
Non mi intendo di ingegneria idraulica, ma ho visto i danni prodotti dall’alluvione del 2012 a monte e a valle del Paglia. Spero che gli ingegneri e le aziende che si stanno cimentando da questa primavera intorno alla messa in sicurezza del fiume e che in questa prima fase spenderanno otto milioni di euro o giù di lì, sappiano garantire che non si verificheranno più disastri come quelli avvenuti, anche in presenza di una piena pericolosa. Nel progetto globale di sistemazione di quella zona sarà inoltre bonificata tutta l’area della stazione, come quella del parcheggio della stazione e dei bus. Insomma, a me questa creazione di aree sopraelevate per salvare le auto dalle piene, per tirare fuori l’area bassa dal pericolo dell’acqua, non mi sembra utile e non mi convince. Ancor meno il risultato estetico immaginabile.
Sono progressista ma mi iscrivo al FODRIA.
Commento di Franco Raimondo Barbabella
Beh, il “Filosofo di Castiglione” non sbaglia di sicuro, essendosi messo al riparo da ogni possibile alternativa. Dunque è certo che prima o poi pioverà, però non si sa quanto e con quale intensità. Sarebbe stato meglio adottare a suo tempo strategie adeguate di tutela delle persone e delle cose dalle esondazioni del Paglia, evitando i danni che invece si sono prodotti, da ultimo nel novembre 2012. Ma, come si sa anche se si fa finta di non saperlo, chi a suo tempo adottò quelle strategie fu combattuto come affamatore del popolo. Era il tempo dell’edilizia aggressiva e dell’uso scriteriato del territorio, modalità d’azione su cui convergevano interessi di corto respiro e su cui maggioranza e opposizione si trovavano volentieri d’accordo. La cosa ha prodotto quello che sappiamo.
Oggi, a seguito delle gravi conseguenze dell’ultima esondazione, qualcosa si è mosso, sia in termini di politica territoriale che di impostazione concettuale delle strategie di protezione e delle opere da realizzare, che appunto sono in corso proprio in questo periodo. Impostazione e capacità realizzativa sulle quali ha inciso in modo particolare l’azione dell’associazione “Val di Paglia Bene Comune” e del “Coordinamento delle Associazioni” che da essa è stato promosso.
Le operazioni di messa in sicurezza evidentemente non dovranno fermarsi a quelle in corso, che sono essenzialmente rivolte al potenziamento degli argini. Si dovrà infatti andare, da una parte verso la realizzazione del Parco ambientale del Paglia, e dall’altra alle opere di messa in sicurezza a monte di Ciconia fino alle zone di nascita del fiume. Questioni complesse, che richiedono una visione urbanistica generale ed operazioni lungimiranti di cui non si vedono ancora segni convincenti nella prassi amministrativa dei diversi soggetti che entrano in gioco.
In questo senso la questione dei parcheggi resta una delle più nebulose. Essa richiama tutte quelle presenti nell’elzeviro e per questo è di per sé questione generale, perché deve per forza rientrare in una programmazione a scala urbana di ciò che si vuol fare non solo di Orvieto Scalo ma anche di Ciconia e del Centro Storico, di quali siano le funzioni urbane per le quali sono indispensabili parcheggi con certe dimensioni e organizzati in un certo modo. Auguriamoci dunque che in qualche maniera e senza tempi biblici si riesca finalmente a conquistare questo modo di vedere le cose, senza di che le opere che si stanno ora realizzando resterebbero certamente monche.