Scuola 1. Per una buona scuola anzitutto bisogna battere il pessimismo culturale
Elzeviro di Franco Raimondo Barbabella
Nei giorni scorsi gli studenti sono tornati a scuola. Insieme ad altri obbligati a farlo, anche a me che non ne sono obbligato è venuta la voglia di fare qualche riflessione sullo stato e il senso della formazione scolastica oggi. Dedicherò a questo argomento due interventi, il primo con l’elzeviro di questa settimana. Comincio da lontano, ma poi arrivo al punto.
Nei giorni scorsi si sono svolte due discussioni su giornali diversi e su argomenti apparentemente lontani ma, volendo, perfettamente convergenti e utili allo scopo. L’una, su Il Foglio, verteva sulla questione se essere ottimisti o pessimisti sull’Europa del futuro alla luce di dati consolidati di lungo periodo: per Luciano Pellicani la sinergia tra mercato, scienza e tecnologia, ha assicurato negli ultimi 180 anni un miglioramento incontrovertibile delle condizioni di vita in tutto il globo, a tal punto da renderci ottimisti su un futuro da costruire con fiducia, per cui bando alle visioni denigratorie ispirate dalla filosofia heideggeriana secondo cui l’industria moderna fondata su scienza e tecnologia avrebbe distrutto insieme alla natura anche le cose più ricche e autentiche della vita; Giuseppe Bedeschi dal canto suo, mentre riconosceva le ragioni di Pellicani, invitava a riflettere sulle molte e profonde ragioni della crisi ideale ed etico-politica dell’Occidente e in esso dell’Europa: quando entrano in crisi gli ideali e le ragioni profonde dell’identità dei popoli che hanno creato nei secoli una civiltà, allora è difficile pensare ad avere la forza per nuove capacità espansive. Perciò niente ottimismo di maniera, ma reagire si può e si deve.
La seconda discussione si è svolta nelle ultime settimane su Il Sole 24 Ore e riguardava il tema se ci sono e quali sono le ragioni per le quali va salvaguardato il liceo classico come fiore all’occhiello della tradizione italiana. Ha preso il via domenica 28 agosto con gli interventi di Nicola Gardini e Guido Tonelli, un umanista e uno scienziato, concordi nel sostenere che il classico è sia un’ottima palestra per il pensiero critico sia il luogo formativo privilegiato per coltivare il carattere disinteressato della cultura. Direi concetti scontati, sia per chi come me da lì viene sia per chi ne ha sentito solo parlare. Non scontati invece gli interventi di domenica 11 settembre di Angelo Varni, Vincenzo Fano e Claudio Giunta che, mentre hanno dato atto della validità di quel tipo di studi, hanno sottolineato l’apporto culturale del pensiero scientifico e sono tornati ad affermare con forza quell’unità della cultura che particolarmente nel panorama italiano ha stentato e stenta ad essere accettata come norma. Si tratta però soprattutto di fare ormai decisi passi avanti rispetto a miti e stereotipi. In particolare Giunta ha evidenziato che esiste oggi la percezione diffusa che questo tipo di scuola non sia più il veicolo privilegiato per la selezione delle élite. Di qui la sua crisi: classe dirigente oggi lo si diventa anche per altre vie. E così, mentre Varni invita a non chiuderci nel passato, Fano si chiede quali sono oggi i saperi necessari per farsi strada nel mondo e propone un curricolo che preveda un gruppo di saperi fondanti insieme a diverse opzioni capaci di stimolare una formazione insieme solida e personalizzata. Cosicché, infine, Armando Massarenti si chiede: “E se siamo tutti d’accordo che sono le capacità logiche e argomentative – il pensiero critico – gli strumenti decisivi, perché non mettere queste al centro dell’intero sistema educativo?”.
Che cosa lega le due discussioni? Si tratta della preoccupazione di persone avvedute che i modi attuali del pensare diffuso siano del tutto inadeguati ad affrontare le sfide di un mondo cambiato, che non potrà essere vissuto sia se ci si attesta sul pessimismo culturale oggi imperante sia se si punta sulla pura ripetizione dell’esistente. Ma esiste la possibilità di stabilire qualche punto fermo per una reazione positiva, invertire la rotta del pessimismo comodo, della stanchezza culturale e dei miti educativi inservibili? Io non credo a soluzioni facili e di breve periodo, ma credo anche che esista la possibilità, oltre che la necessità, di mettere qualche punto fermo e qualche accento marcato. Il primo e fondamentale è, come detto, l’esercizio del pensiero critico, al cui fondamento non può non essere posta l’idea che “le differenze fanno ricchezza”.
Fu quella la scoperta degli illuministi nel secolo XVIII°, scoperta feconda sia perché da essa è derivata l’idea della tolleranza sia perché con essa si sposa perfettamente l’idea che le nazioni non necessariamente si scannano e anzi possono collaborare in nome di interessi e di valori comuni. Ma da essa non deriva in alcun modo l’appiattimento del buonismo che si è via via affermato da alcuni decenni e che vede oggi in tutti i concetti fondamentali della modernità ciò di cui prioritariamente liberarsi: l’individuo, la scienza e la tecnologia, la sana competizione, il mercato, la democrazia, l’Europa. Non regole condivise e rispettate, ma diritto di fare ognuno per sé. Non coerenza e studio, ma spiegazioni fantasiose e scienza soggettiva. La verità costruita sui social, cure mediche affidate agli stregoni. In fondo, perché meravigliarsi di tutto ciò se si dà per acquisita la verità delle verità: “non ci sono fatti, solo interpretazioni”?
Ecco allora che cosa intendo per reazione al pessimismo culturale imperante come presupposto per avere una buona scuola: la decadenza sarà inevitabile se non torneremo ai fondamentali della modernità. Le differenze fanno ricchezza perché valorizzano l’individuo, la sua capacità di scelta e la sua responsabilità. Le idee non sono tutte uguali. La competizione non è il male. Il sapere richiede coraggio e non si ottiene con formule magiche. Il governo è quello delle cose possibili con il coraggio delle scelte e la selezione delle classi dirigenti. La scuola o assume rapidamente la funzione di luogo privilegiato della formazione critica del cittadino o non avrà più alcun senso.
Commento di Dante Freddi
L’intervento del nostro preside emerito è titolato “scuola 1” e ci fa presupporre che ci sarà un seguito. Gli siamo grati perché ci regala la sua quarantennale esperienza. L’ampia e approfondita esposizione mi trova d’accordo pienamente e mi piace estrarre soltanto un paio di pensieri, non per approfondirli, che non c’è bisogno, ma per evidenziarli.
“L’esercizio del pensiero critico, al cui fondamento non può non essere posta l’idea che “le differenze fanno ricchezza”.
È il presupposto dello sviluppo della cultura e della conoscenza, a cui deve tendere la scuola nel suo processo educativo, ma anche la società e la politica, per offrire modelli di comportamento solidi e costruire cittadini che hanno introiettato il metodo per pensare.
Altro punto: “Le differenze fanno ricchezza perché valorizzano l’individuo, la sua capacità di scelta e la sua responsabilità. Le idee non sono tutte uguali. La competizione non è il male. Il sapere richiede coraggio e non si ottiene con formule magiche. Il governo è quello delle cose possibili con il coraggio delle scelte e la selezione delle classi dirigenti. La scuola o assume rapidamente la funzione di luogo privilegiato della formazione critica del cittadino o non avrà più alcun senso”.
Questa è la “summa” del pensiero di Barbabella, che propone come intellettuale in occasioni diverse, da anni. È un pensiero da condividere con scuola, società, politica, per spingere la comunità a cui ci riferiamo verso un ottimismo che soltanto questi valori e le azioni che ne conseguono possono alimentare.
Commento di Pier Luigi Leoni
Franco sostiene il valore fondamentale del pensiero critico affermatosi nel mondo moderno fino a quando non è stato messo in crisi dalla fuga nel relativismo come reazione alla complessità della realtà contemporanea. Alla scuola spetterebbe la rieducazione al pensiero critico. Il pensiero critico dovrebbe salvarci da “l’appiattimento del buonismo che si è via via affermato da alcuni decenni e che vede oggi in tutti i concetti fondamentali della modernità ciò di cui prioritariamente liberarsi: l’individuo, la scienza e la tecnologia, la sana competizione, il mercato, la democrazia, l’Europa”. Mi permetto di rilevare che l’individuo, la scienza, la tecnica, il mercato e la democrazia, nel momento in cui vengono considerati valori irrinunciabili, determinano una forma di assolutismo che, nell’ambito del fenomeno della globalizzazione, si traduce in neocolonialismo. La civiltà occidentale infatti cerca di imporre un modello che molti popoli della terra stentano a recepire e al quale alcuni popoli reagiscono con efferata violenza. Con buona pace del pluralismo culturale e della tolleranza. Prendiamo ad esempio il fenomeno dell’immigrazione in Europa. I cinesi si adattano al libero mercato con una facilità impressionante e si arricchiscono, mentre gli islamici si adattano raramente e a fatica, sognano la conquista dell’Occidente e simpatizzano con quelli di loro che seminano il terrore. Non sarebbe meglio che gli uni e gli altri se ne stessero a casa loro e ci lasciassero in pace a goderci il nostro pensiero critico da rivitalizzare con una buona scuola? Del resto anche il pensiero critico deve prendere atto che non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Quanto al liceo classico, io lo renderei obbligatorio.
Abbiamo costruito troppi muri. Finiranno col caderci addosso?
Elzeviro di Pier Luigi Leoni
È ormai assodata la straordinaria propensione al risparmio degli Italiani e la loro preferenza per l’investimento in fabbricati. Molto denaro nelle banche e molti capitali immobilizzati nelle case. Tanto che non esiste al mondo un’altra nazione in cui più dell’85 per cento delle famiglie abitino in case di proprietà. E abbondano le famiglie dotate di seconda e terza casa. All’enorme mole di capitale privato, sotto forma di risparmio e di patrimonio immobiliare, corrisponde l’enorme indebitamento della Stato. Indebitamento che comporta insufficienza dei pubblici servizi e mancanza di risorse per combattere la povertà. È vero, come disse Ronald Reagan che “il modo migliore per non essere poveri è cercare di non far parte di loro”, ma è anche vero che è compito morale e giuridico dei ricchi, per il tramite dello Stato e anche direttamente, di combattere la povertà. Ma se il denaro depositato in banca corre rischi molto seri, il patrimonio immobiliare ha continuo bisogno di manutenzione e di ammodernamento, oltre a essere colpito da tasse inevitabilmente sempre più pesanti. Basta un’occhiata al centro storico di Orvieto per rendersi conto della grande quantità di edifici, anche importanti dal punto storico e architettonico, carenti di manutenzione e di utilizzazione. Se i prezzi dei fabbricati, sebbene si siano ridotti, non tracollano del tutto è perché i proprietari hanno ancora redditi e risparmi per non essere costretti a svendere. Ma quanto durerà? A chi spera che il problema venga risolto dalla politica ricordo un aforisma di Milton Friedman: “Le soluzioni governative a un problema sono solitamente cattive quanto il problema”. Nel frattempo è bene che i giovani, che sono meno cocciuti degli anziani, investano, se possono, in tenore di vita.
Questo degli investimenti del risparmio è un tema caldo in Italia, con le tante banche che traballano, caldissimo a Orvieto. L’edilizia soffre ormai da anni e ci sono più case che persone che possano abitarle. Fortuna il turismo e la trasformazione di molte abitazioni in B&B. Ma rimane che vasti immobili privati, oltre quelli pubblici, sono inutilizzati e cadenti, fin quando non cadranno. Gli investimenti in altre forme, con quello che sta accadendo nel rapporto tra CRO e suoi investitori, crea un clima di sfiducia generalizzato che sarà difficile recuperare. Né è pensabile che chi ha qualche risparmio si metta a studiare tecnica bancaria o economia. Un tempo ci si fidava delle banche, ora ci sono i consulenti finanziari che operano particolarmente nella gestione dei risparmi dei privati, e comunque ci vuole un’attenzione a cui pochi sono preparati. La Consob, che avrebbe dovuto tutelare sulle azioni delle banche, rileva che il nostro è un popolo di ignoranti in economia, per questo prendono periodicamente robuste “sole”.
Un professore universitario della Bocconi, qualche giorno, dopo una dettagliata e chiarissima esposizione sul Bail in, ha concluso che c’è una tendenza ineluttabile che si sta realizzando: il denaro si separerà dai coglioni.
Mi sono sentito coinvolto e confermo che è vero: ho investito in azione BpB vendute da CRO.
Soluzione giusta è quella da te suggerita, saggio Piero: investire in qualità della vita.
Mi sto orientando al tuo consiglio e vado in vacanza. Ci guadagnano tutti, soprattutto noi.
Commento di Franco Raimondo Barbabella
La tesi di Pier Luigi è che il combinato disposto di capitale privato immobilizzato nei depositi bancari o nel mattone e di enorme indebitamento dello Stato sia all’origine della carenza dei servizi pubblici come della difficoltà di combattere la povertà. E ne fa derivare due conseguenze: sfiducia alla nella capacità dello Stato di affrontare questi problemi e invito ai giovani a non fare come i loro padri e a spendere quello che guadagnano in tenore di vita, cioè senza pensare troppo al futuro.
In questo c’è una logica, che è evidente di per sé e che per questo non mi pare necessario aggettivare. La mia visione è diversa. Tento di spiegarmi. Anzitutto io penso che il risparmio e l’immobilizzazione del capitale privato nel patrimonio immobiliare non siano di per sé fattori negativi. Lo sono invece, da una parte aspetti diffusi di mentalità e di costume, e dall’altra carenze politiche di classi dirigenti inadeguate sul piano sia dello spessore morale che delle capacità e della cultura. Basti pensare alla commistione tra partiti e banche e al conseguente arraffa arraffa della ricchezza di tutti con sistemi clientelari al limite della criminalità organizzata, al lungo periodo degli scempi ambientali e alla mancanza di controlli sul rispetto delle regole urbanistiche laddove stabilite seppure con colpevoli ritardi, e oggi alla vera e propria punizione di chi ha osato conservare il proprio patrimonio magari cercando di metterlo a reddito per sopravvivere.
C’è di più. Io penso che l’Italia, tra le molte altre, ha la particolarità di avere un patrimonio storico straordinario, costituito non solo da edifici e monumenti, ma proprio dal tessuto urbano complessivo: i centri storici delle grandi città, le città piccole e medie, i borghi, le ville e i casali. Salvaguardare, manutenere, usare e mettere a reddito questo patrimonio è dovere e interesse privato e pubblico, perché qui sta gran parte delle ragioni, oltre che della qualità di vita e dello stile italiano, della forza attrattiva del Paese, del suo potenziale turistico e culturale. Credo fermamente che la cura di tale patrimonio e la sua messa a reddito facciano tutt’uno con il nostro futuro civile, economico e sociale. Per questo ritengo anche che questa dovrebbe essere una delle priorità di una politica sana e lungimirante, sia a livello generale che a livello locale.
Ciò che non è per classi dirigenti che hanno sempre privilegiato l’interesse immediato a detrimento di visioni non improvvisate e improntate alla prevalenza del bene comune. Di esempi ne abbiamo avuti a iosa, sia nel lungo che nel breve periodo, e se in questo si è segnalata più abbondantemente di altre la classe dirigente democristiana soprattutto al sud, non sono affatto mancati esempi da parte della classe dirigente di sinistra, in particolare comunista, anche dalle nostre parti. All’estremo opposto oggi abbiamo fulgidi esempi di moralismo e populismo che vedono in chi si dà da fare i corrotti e i mascalzoni fino a prova del contrario, con l’effetto di scoraggiare chiunque abbia ancora un briciolo di coraggio e voglia di guardare avanti.
Dunque no al liberismo sfrenato alla Milton Friedman e alla sfiducia nei confronti del potere pubblico. Anzi, impegno deciso a cambiare gli orientamenti delle classi dirigenti sia del livello locale che di quello nazionale. Non si può pensare che le cose si aggiusteranno da sole, come è pia illusione che i ricchi si convincano a distribuire la loro ricchezza in forza di un dovere morale. Niente statalismo, anzi forte impulso all’iniziativa privata. Ma regole e rispetto di esse si. Vogliamo anche dire informazione e trasparenza, cultura e competenza, disinteresse personale e coraggio di scelta? Ai giovani bisogna dare fiducia e fornire esempi positivi. Senza scelte lungimiranti li ridurremo non a investire in tenore di vita ma o a emigrare o a elemosinare la sopravvivenza.
Come dico nel mio elzeviro, si tratta di ricostruire il tessuto connettivo morale e intellettuale, civile ed economico, del Paese, guardando ai piani alti con la lungimiranza del pensiero critico moderno, la positività delle differenze che combattono la mollezza e incoraggiano le sfide, la scommessa sulla potenza mobilitante della democrazia. Niente di scontato, niente certezze assolute. Solo coraggio di pensiero e di azioni conseguenti. Quanto al liceo classico quel che penso l’ho già detto, e soprattutto ho cercato di dimostrarlo praticamente in trent’anni di presidenza di un liceo, che non era affatto contrapposto al classico ma diverso e stimolatore di una visione generale riformatrice fondata proprio sulla positività delle differenze coltivate sul serio.