La rubrica del lunedì, dopo un anno, ha cambiato impostazione e ha coinvolto anche Dante Freddi.
E’ così: Franco Raimondo Barbabella e Pier Luigi Leoni scrivono un elzeviro ciascuno su un argomento che preme loro. Freddi e Leoni commentano l’elzeviro di Barbabella; Freddi e Barbabella commentano l’elzeviro di Leoni.
Più incrociati di così?
Elzeviro “Il sapore della libertà”
di Franco Raimondo Barbabella
La libertà ha i suoi odori e i suoi sapori. Se siamo stati attenti li abbiamo sentiti nelle immagini che le televisioni, i social e i giornali di tutto il mondo ci hanno trasmesso dando notizia della liberazione di Mambij, la roccaforte siriana occupata due anni fa dall’ISIS e oggi appunto liberata ad opera di truppe siriane con alla guida battaglioni curdi.
Le donne di ogni età che si tolgono il velo e lo bruciano, i liberati che abbracciano i liberatori senza chiedersi a quale religione appartengano, le ragazze che fumano ostentatamente una sigaretta, gli uomini che si tagliano con orgoglio la barba in pubblico, i bambini che giocano finalmente liberi i giochi della tradizione. Sono scene che da sole dicono che cos’è in ogni luogo il profumo della libertà: sentire epidermicamente e sapere razionalmente che ognuno può decidere della propria esistenza e che le gabbie del dispotismo con le sue disumanità prima o poi verranno rotte. È anche fiducia nella positività della storia e nella possibilità per gli individui di avere in essa uno spazio da conquistare. È speranza e fiducia nel futuro.
Chi volesse la controprova di tutto ciò potrebbe affacciarsi sul panorama opposto che ogni giorno offre di questi tempi la Turchia del neosultano Recep Tayyp Erdogan. Mentre scrivo ascolto la radio che trasmette un servizio di Mariano Giustino da Istambul. Giustino riferisce dell’ultimo provvedimento governativo di restrizione delle libertà di tutti con la scusa di combattere i seguaci di Fetullah Gülen, l’imam che secondo Erdogan è stato l’ispiratore del fallito colpo di stato: l’invito-ordine di distruggere in tutte le scuole tutto ciò che in qualsiasi forma può parlare del movimento dell’imam ieri amico e oggi nemico numero uno. Ecco, lì si percepisce l’odore e il sapore della libertà perduta e il legame stretto tra la possibilità per gli individui di determinare la propria vita, il tipo di ordinamento statuale e la forma che assume concretamente l’esercizio del potere.
La libertà dunque si assapora quando si riconquista o quando si perde, quasi sempre a seguito di eventi tragici, raramente per evoluzione o involuzione lenta e graduale. Ma la condizione attuale dell’Occidente, e in esso dell’Europa (e dell’Italia con tutte le sue particolarità), non è detto che non ci costringerà a prendere atto di un’ulteriore novità della storia contemporanea: la rinuncia alla libertà non tanto e non solo in nome della sicurezza, e nemmeno solo dell’efficienza e della stabilità, pure richiamate ormai in modo assillante quasi come unici obiettivi di governo, quanto piuttosto per consunzione, frutto dell’abitudine, dell’indifferenza e della noncuranza.
Colpiscono infatti fenomeni sociali e culturali e comportamenti che solo pochi anni addietro sarebbero stati impossibili da pensare. Sembra, ad esempio, che sia scomparso dall’orizzonte sia dei discorsi che delle riflessioni il legame stretto che connette la libertà con la democrazia politica e i diritti soggettivi. Le soluzioni ai problemi politici o di governo e/o di gestione della cosa pubblica ormai vengono indicate o in termini di risparmio di tempo e denaro (perfino la riforma costituzionale viene giustificata così) o in termini di rottamazione di persone (Renzi) o di interventi sommari e sbrigativi (Grillo, Salvini, e non solo). Di cambiamento non si parla per migliorare, dicendo in che senso e come, ma solo per cambiare, perché cambiare sembra essere il verbo della verità, non importa quale.
Soprattutto, si ha la netta sensazione che sia scomparsa dall’orizzonte culturale e politico la consapevolezza che libertà e democrazia sono arrivate gradualmente, al prezzo di lotte durissime, lungo tutto il corso dei secoli dell’era moderna. Non sono un regalo, ma una conquista ottenuta con lacrime e sangue. Per questo si deve sapere che vanno manutenute con attenzione e amore, e se del caso difese a brutto muso. Ogni disattenzione, ogni furbizia, ogni noncuranza, dovunque e da parte di chiunque, su questo terreno equivale a colpa grave.
Non sto gridando al golpe e non sto accusando qualcuno. Sto dicendo che respiro un clima che non mi piace e annuso odori sgradevoli che si stanno spargendo nell’ambiente sociale e stanno penetrando nelle coscienze. Discorsi che si misurano a metro quadro di carta stampata o a numero di retwittate, provvedimenti di governo, generali o locali, che sono strategici solo nel senso che servono a mantenere o a conquistare potere, vantaggi per sé subito e al domani ci penserà qualcun altro. Libertà concreta e democrazia reale fuori dall’orizzonte teorico e pratico di gran parte della classe dirigente.
No, così non può andare. Non possiamo farci male da soli in modo programmato. Libertà e democrazia stanno insieme e sono cose maledettamente concrete. Cose che hanno un senso tutti i giorni. Cose che devono funzionare per come è la loro essenza. La Siria e la Turchia ce lo ricordano con il linguaggio brutale dei fatti. Perciò è indispensabile che ognuno di noi, mentre sopporta i limiti della democrazia e opera per attenuarne gli effetti problematici, talvolta anche sgradevoli, contribuisca a diffondere i sapori e gli odori della libertà che della democrazia è l’elemento più vitale.
Còlgo l’appello finale di Franco, perché è un pensiero che ho sempre condiviso, convinto anch’ io che “è indispensabile che ognuno di noi, mentre sopporta i limiti della democrazia e opera per attenuarne gli effetti problematici, talvolta anche sgradevoli, contribuisca a diffondere i sapori e gli odori della libertà che della democrazia è l’elemento più vitale”.
La libertà è termine complesso, perché va storicizzato e quindi porre dei punti fermi per affermarne i contenuti che la definiscono oggi secondo la nostra sensibilità dovrebbe essere lavoro quotidiano per chi non è disponibile a metterla in discussione, per sé e per chi verrà.
Qualche mese fa scattai una foto a Sabbioneta, la città ideale costruita da Vespasiano Gonzaga. Sui preziosi soffitti del palazzo ducale era sempre presente il suo nuovo stemma gentilizio, (è in home) in cui campeggiava la scritta LIBERTAS, ottenuto per sugellare la sua indipendenza dai più potenti cugini, i Gonzaga di Mantova, garantita dall’imperatore.
Libertà quindi come indipendenza di un potente verso altri potenti, con un significato completamente diverso da quello di libertà come componente imprescindibile della democrazia politica e della giustizia sociale, che assunse secoli dopo nello stemma della DC postbellica.
A mio avviso regge ancora saldamente ed è la più aderente alla nostra sensibilità occidentale la dottrina delle quattro libertà che definì Franklin Delano Roosevelt come ispiratrice della sua azione politica e amministrativa. Le quattro libertà da garantire, senza cui non esiste la LIBERTÀ, sono la libertà di parola e di espressione, la libertà di culto, la libertà dal bisogno e quella dalla paura.
Mi sembra chiaro, stando così le cose del mondo, che c’è da impegnarsi ogni giorno per conquistarle e mantenerle.
Il valore della libertà, nella concezione greco-romana che ha influenzato la civiltà occidentale, era legato alla pratica della schiavitù. Erano gli schiavi (ai quali, almeno nell’antica Grecia, erano assimilati gli artigiani) a consentire lo sviluppo della personalità dei liberi e la loro dedizione alla politica e alla filosofia. La schiavitù, nonostante l’evoluzione della morale e del diritto, è stata praticata legalmente in nell’America popolata dagli Occidentali, fino a centocinquant’anni fa. Ma alcuni suoi aspetti erano ancora presenti, di fatto, anche nello Stato liberale e sono presenti nello Stato democratico. Gli Orvietani hanno ben presente la mezzadria, che formalmente era un contratto con diritti e doveri reciproci tra padrone e contadino; ma di fatto, fino all’ultima guerra, il figlio del contadino non era libero né di cambiare mestiere né di emigrare perché la forza-lavoro della famiglia colonica andava conservata per non rischiare la disdetta del contratto da parte del padrone. E, in caso di vertenza, i contadini non avevano i soldi per pagare l’avvocato che, d’altronde, insieme al padrone e al giudice, faceva parte della stessa casta, con buona pace della giustizia e ella libertà. Oggi stesso, anche quando godiamo di un certo benessere e magari abbiamo messo da parte qualche risparmio per affrontare le malattie e la vecchiaia, siamo circondati dall’indigenza di una parte consistente della popolazione, quella che fa la fila nelle agenzie di collocamento, che frequenta i dormitori e le mense della associazioni benefiche e che piatisce per essere assistita dai servizi sociali. Quindi, se vogliamo goderci la libertà, e se vogliamo che la godano il maggior numero di persone, non limitiamo l’esercizio della democrazia al dibattito politico e alla libere elezioni, ma «damose da fa’», come dicono a Roma.
Elzeviro “Rifugiati al lavoro: una proposta irricevibile”
di Pier Luigi Leoni
Mario Morcone, capo del dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione, propone di impiegare i rifugiati e coloro che hanno presentato richiesta di asilo in lavori socialmente utili nei settori che più hanno bisogno di mano d’opera, come l’agricoltura, le costruzioni e l’assistenza agli anziani. Ovviamente non dovrebbe trattarsi di lavori forzati, ma di prestazioni volontarie sollecitate con incentivi economici. Vale a dire che, invece di lasciare queste persone ad abbrutirsi aspettando il pranzo e la cena, si offrirebbe loro una “paghetta” per invogliarli a rendersi utili. Morcone richiama alcune iniziative spontanee già in atto a livello locale e propone una normativa nazionale. Egli è perfettamente in linea col principio costituzionale della “repubblica democratica fondata sul lavoro” (se vogliamo dare un peso a una disposizione altrimenti piuttosto banale).
La proposta è stata accolta con favore nei settori del buonismo nazionale, ma ha suscitato reazioni negative che ne mettono in evidenza l’impraticabilità.
La prima incongruenza è che ogni eccezione alle normative sul lavoro, frutto di lotte sacrosante, non può che avere carattere eccezionale e transitorio ed essere finalizzata allo stabile inserimento nel mondo del lavoro. Così furono accettati dall’opinione pubblica i cantieri scuola e di lavoro e gli ingaggi temporanei in lavori socialmente utili.
La seconda incongruenza è che le masse crescenti di italiani che hanno bisogno di lavoro non possono tollerare che, mentre si lesina sui sussidi ai disoccupati, si scantona dalla discussione sul reddito di cittadinanza, si lasciano languire decine di migliaia di esodati e si arretra in materia di sanità pubblica, si spenda denaro pubblico per ospitare persone che nessuno ha chiamato, invece di rispedirli là da dove sono venuti. Ci vuole poco a risvegliare il demone del razzismo. Già ha cominciato Matteo Salvini, di cui tutto si può dire tranne che non abbia la battuta pronta: “Vallo a spiegare a uno dei 4 milioni di italiani disoccupati… Questo è fuori, io lo licenzierei e lo metterei su un barcone.”
Chi si lamenta perché vede questi immigrati oziare e vorrebbe che almeno facessero qualcosa, un po’ come proposto da Marcone, offre una soluzione semplice a un problema complesso e quindi difficile da applicare, perché è contro sindacati, leggi, disoccupati, occupati impauriti dalla paura di perdere il lavoro. Chi liquida però la proposta di Marcone perché toglierebbe lavoro ai disoccupati italiani, “prima dobbiamo pensare a noi”, entra nello stomaco ma intorpidisce la ragione. Tutti sappiamo che non ci si può girare dall’altra parte e rimandarli tutti a casa soltanto perché sono tanti, diversi, anche neri e qualche volta puzzano, in più anche musulmani, che soprattutto a chi non è cristiano dà tanto fastidio. Un Governo in cerca di soluzioni, pur riaffermando che prioritario è crearle nei paesi da dove provengono, dovrebbe impegnarsi per capire chi è la “persona” che chiede ospitalità e facilitare con il massimo dell’efficienza burocratica una risposta di accoglienza o meno rispetto al singolo individuo. E se fugge dalla morte per guerra o per fame non mi sembra che faccia molta differenza. Quando non ci sarà più fame o guerra torneranno in molti nei loro paesi, altri rimarranno perché ormai integrati e cresceranno e si moltiplicheranno come europei. Intanto compiamo scelte legislative che consentano di rendere dignitosa la presenza di questi ospiti disgraziati, anche con lavori di sistemazione dei luoghi dove sono ospitati o altro di utile a loro e a noi, superando legacci, per risolvere l’emergenza mentre si cercano criteri di visione, stabili, equi, razionali, misericordiosi. Non possiamo per pigrizia mentale o per paura seguire i “costruttori di ingiustizia”
È buonismo? Meglio che stare dietro a Salvini, che sta portando indietro di un secolo la cultura politica e la sensibilità per il problema dei più deboli.
COMMENTO di Franco Raimondo Barbabella
Il prefetto Morcone in verità è in buona compagnia: che i rifugiati debbano lavorare lo ha detto anche Chicco Testa («gli immigrati vengano pure a Capalbio, ma non stiano tutto il giorno a bighellonare»), lo ha condiviso Claudio Martelli, e soprattutto è un’opinione generata da reazione abbastanza comune (“basta ospitarli gratis, o lavorano o tornano da dove sono venuti”, e simili). Però è un’opinione superficiale, un po’ buttata là, come va di moda oggi, tanto per saggiare le reazioni. Lo fa notare lo stesso Martelli: «mi chiedo perché la proposta sia venuta dal capo Dipartimento immigrazione e non dal governo, da un ministro, da un sottosegretario. Vedo gravi lacune dello Stato e dell’esecutivo: il problema è di fatto demandato ai Comuni. Ma dov’è un piano serio dello Stato … ?». È anche un’opinione che fa il paio con quella sciacallesca che nega il problema e lo vorrebbe liquidare semplicemente con i respingimenti e le espulsioni. Per costoro è tutto semplice: esercito, polizia, galera, fino alla “pulizia delle città” (Salvini). Come per converso è tutto semplice per certo buonismo catto+++: basta aprire il cuore, accogliere tutti e tutto andrà a posto. Chissà che invece non potrebbe essere parecchio più efficace, bello, buono, intelligente, produttivo, ecc. ecc., se si fosse capaci di governare i processi che richiedono di essere governati: decidere chi accogliamo (e certo, chi non accogliamo, fuori!), dove li accogliamo, come li integriamo, e però anche organizzare e verificare l’efficacia delle decisioni, fare le cose per bene, stabilire chi ne ha la responsabilità. Almeno in questo vogliamo imitare la Germania, che lo scorso 26 maggio ha approvato una legge che da una parte obbliga i rifugiati e i migranti a frequentare corsi di integrazione (corso di lingua e corso di storia e cultura tedesca) e dall’altra riduce drasticamente le prestazioni sociali a chi si rifiuta di parteciparvi oltre ad operare una stretta robusta sui permessi di soggiorno? Assurdo comunque che si affrontino problemi così complessi con proposte ad effetto mediatico. Ovvio che in questo modo non si fa che alimentare il razzismo latente, quello che si manifesta nella mentalità comune quando i diversi si presentano in massa e disturbano le nostre fragili sicurezze. Anche con qualche buona ragione, perché chi qui già c’è difficilmente potrà capire perché mai i suoi problemi di lavoro e i suoi diritti di cittadinanza dovrebbero essere posposti a quelli di chi arriva senza essere chiamato, quali che ne siano i motivi.