La proposta del direttore
Stefano Parisi: Assemblea Costituente anche se dovesse vincere il Sì
“Propongo l’Assemblea Costituente perché sostenere le ragioni del No impone di battere la propaganda renziana del “o Sì o caos”. Chi è per il No e ha uno spirito riformatore deve indicare una prospettiva e determinare un campo di ragionevolezza e responsabilità per il dopo referendum. L’Assemblea Costituente non ha nulla a che vedere con le larghe intese, che sono la causa del nostro gigantesco debito pubblico. L’Assemblea Costituente non è un modo per sdrammatizzare il referendum.
È l’unica proposta concreta per avviare una fase riformatrice efficace, rapida e consapevole. Se c’è volontà e forza politica una legge snella, di 2 o 3 articoli, che abolisce il Senato e istituisce l’Assemblea Costituente, può essere approvata in pochi mesi, insieme alla legge elettorale, per poi andare al voto già nella primavera del 2017. La riforma costituzionale del Presidente del Consiglio è confusa, rischia di creare un grave contenzioso tra Regioni, Comuni e Stato, non garantisce nessuna stabilità di Governo né rapidità nel processo decisionale. Ha avuto un percorso parlamentare confuso, con maggioranze mutate nel tempo, circostanza che ha ulteriormente squalificato sia il suo contenuto che il dibattito politico che ha accompagnato il processo parlamentare e, oggi, la campagna referendaria… La profonda frattura che sarà generata dall’esito del referendum rischia di portare l’Italia in un lungo periodo di instabilità, debolezza e ulteriore vulnerabilità. L’Italia ha bisogno di riforme, profonde, efficaci, chiare.
Abbiamo bisogno di un Governo sì forte, ma soprattutto stabile, di una chiara ripartizione di competenze tra Governo centrale e Amministrazioni locali, una sola Camera, meno Regioni, una chiara scelta verso il federalismo fiscale che avvii una dinamica positiva tra territori competitivi, e un Parlamento la cui maggioranza corrisponda alla maggioranza degli italiani. È necessario costruire con ordine una nuova Costituzione che, dopo 70 anni, dia un quadro solido e coerente al nostro Stato. Una Costituzione che accompagni l’Italia nel futuro con solide basi democratiche, che le consentano di tornare ad essere un’economia forte, luogo di crescita e di opportunità per tutti.” (Da una lettera a “La Repubblica”)
L’opinione di Franco Raimondo Barbabella
Come si sa, la storia procede in modo tortuoso e ciò che sembra impossibile oggi può diventare inevitabile domani. Chi volesse ripassare anche solo mentalmente il processo che portò alla nascita della Costituente, che tra il ’46 e il ’47 elaborò la Costituzione repubblicana entrata in vigore il 1° gennaio 1948, si accorgerebbe che quel risultato fu frutto di un complicato processo storico di cui poco prima non erano scontati né l’inizio né la fine.
Oggi Stefano Parisi lancia l’idea di una nuova Costituente per fare una riforma costituzionale migliore di quella boschianrenziana. Non è detto che non ci riesca, ma anche in questo caso non sembrano garantiti né l’inizio né tantomeno la fine. Infatti, guardando per ora solo alla partenza, il primo passaggio – parte integrante della proposta di Parisi – è appunto la sconfitta della riforma boschianrenziana nel referendum d’autunno, forse possibile ma per ora ancora molto incerta.
Io penso che ragionando su un piano di pura astrazione, cioè a prescindere dai condizionamenti della realtà effettuale del momento, l’idea di Parisi sia la più rispondente al bisogno di guadagnare un prodotto finale di alto livello qualitativo, coerente e funzionale, capace di conferire al sistema un rinnovato slancio democratico, come anche di ottenerlo con un percorso in cui le diverse culture politiche possano sviluppare al meglio la relativa capacità di proposta, con una vasta partecipazione popolare proprio nel merito delle scelte generali e dei contenuti specifici. Insomma, una vera e propria rifondazione delle ragioni del nostro essere popolo che prende coscienza del perché e del come vuole stare insieme.
Un sogno, certo. Ma l’idea si presta alla coltivazione del sogno. Non vi si presta invece la riforma boschianrenziana, ottenuta a colpi di maggioranza con lo schiacciamento delle forme reali di pluralismo, carente e confusa sotto diversi aspetti, portata al referendum costituzionale con la logica plebiscitaria di chi pensa e dice “o con me o contro di me”. La maschera è: più efficienza, più stabilità, meno costi della politica. La realtà, e comunque la probabilità, è: meno democrazia, ancor meno qualità (possibile?) del personale politico, probabilissima confusione istituzionale, trionfo dell’improvvisazione. È vero che con la riforma boschianrenziana finalmente si cambia, si sbloccano situazioni incancrenite, ma cambiare non vuol dire automaticamente migliorare, come dimostrano anche parecchi altri fatti, vicini e lontani.
Dunque l’idea di Stefano Parisi non solo non mi dispiace, ma in sé mi entusiasma. Mi si affloscia però quando penso che essa arriva oggi sulla scia lunga di un riformismo costituzionale non solo confuso ma parziale, e condotto, dopo i ripetuti fallimenti delle diverse Commissioni bicamerali (da quella Bozzi a quella De Mita-Iotti a quella D’Alema), con la ripetuta affermazione delle logiche di comando della maggioranza di turno. Ciò che è cominciato con la legge 3/2001 (centrosinistra), approvata con soli 4 voti di maggioranza proprio al termine della legislatura e confermata dal successivo referendum costituzionale (il primo della storia repubblicana), passato però con la partecipazione al voto del solo 34,1% degli aventi diritto. Una vera svolta nel modo di trattare la materia delicata delle riforme costituzionali, una forzatura che ha prodotto il varo, negli ultimi quindici anni, di ben nove riforme su dieci ad opera della sola maggioranza parlamentare. Gli effetti si sono visti. Perciò il ritorno ad un modo di lavorare meditato, partecipato, approfondito e nel contempo realmente pluralista, cioè una nuova svolta verso un metodo antico, di sicuro migliore di quello delle “sveltine efficientine” di maggioranza, sarebbe altamente auspicabile. Sarà dunque davvero questa la cosa che vuole fare Parisi? Ne sarà capace? Ne avrà la forza? Oggi il dubbio è spontaneo e obbligatorio.
A questo dubbio se ne aggiunge un altro, politico. Io mi convinco sempre più che, saltati gli schemi tradizionali, oggi non si può più ragionare con in testa gli schieramenti precostituiti (destra, sinistra, centro, centrodestra, centrosinistra, ecc. ecc.), quanto piuttosto che bisogna guadagnare posizioni chiare su quella che appare essere da tutti i punti di vista la vera questione di fondo, il discrimine primo delle scelte, che è di tipo culturale: appunto, cultura liberale o cultura illiberale, ancora una volta società aperta o società chiusa. E anche, conseguentemente, centralismo e cerchi magici o riorganizzazione del sistema regionale e locale per una compartecipazione autonoma e nel contempo unitaria. E ancora, corporazioni, caste e privilegi, o pari opportunità e capacità e merito. Da questo punto di vista la proposta Parisi sembra ancora non solo incompleta, ma incerta e opaca. Comunque conviene osservarne con attenzione gli sviluppi, perché si tratta di qualcosa che in linea di pura teoria rompe realmente gli schemi, divenuti rapidamente consunti, degli improvvisati innovatori di oggi.
L’opinione di Pier Luigi Leoni
La magagne della costituzione “più bella del mondo” già furono, senza fortuna, messe in rilievo durante i lavori dell’assemblea costituente e furono oggetto di dibattiti in sede politica e giuridica durante tutto il dopoguerra. Ma soprattutto inquinarono l’attività legislativa e politica con effetti perversi. Gli Italiani si sono ritrovati uno Stato inefficiente e corrotto che ha lasciato mano libera all’impresa e alla mafia, con l’effetto di una forte avanzata economica nel Centro-Nord e la persistente arretratezza del Sud, che ha fornito mano d’opera alle imprese settentrionali impoverendosi delle forze più sane.
Il cosiddetto “miracolo economico”, peraltro più debole di quello con cui sono risorte le altre potenze distrutte dalla guerra, Germania e Giappone, si è impelagato, da due decenni, in una crisi dalla quale governi deboli e camere legislative pletoriche, incapaci di riforme profonde, non riescono a farci uscire. Non credo che gli Italiani siano mediamente più mascalzoni del resto degli esseri umani. Credo che si siano invischiati in un modo di vivere dove la certezza del diritto è un’utopia, in quanto le leggi sono troppe, scritte male e vessatorie, pane per i denti di una pletora di avvocati, di commercialisti e di astuti faccendieri. Pochi rispettano la legge, anche perché spesso non è rispettabile e spesso non sono rispettabili nemmeno coloro che la dovrebbero far osservare. Se le persone per bene sono molto più rare che settant’anni fa, qualche colpa l’avrà anche il “sistema”. E il “sistema” è stato impostato durante l’assemblea costituente, in un momento in cui sinceri democratici dovevano trovare il modo di convivere coi sostenitori del sistema sovietico e spartire non essi il potere sotto le sempre più distratte ali protettrici degli Americani.
Non finì come in Grecia, cioè con un massacro, ma nemmeno come in Germania e in Giappone, dove i comunisti erano fuori gioco. Non è troppo tardi per rimediare e l’azione di Renzi è tenace e coraggiosa, ma solo un’assemblea costituente che ospiti tutte le forze in campo può dare profondità e spessore a una riedizione della costituzione nazionale. Se non altro perché si può far tesoro dell’esperienza italiana e di quella degli altri Paesi democratici. E anche perché, con le quote di sovranità cedute e da cedere all’Europa, il compito non dovrebbe essere estremamente complicato.
La proposta di Barbabella a Leoni
Roma si arrangi. Giù le mani dalla discarica di Orvieto.
“Intendiamo rassicurare rispetto all’intervento della Sindaca di Roma Virginia Raggi che durante l’infuocato Consiglio Comunale capitolino di ieri ha elencato gli 11 punti del suo progetto per rispondere all’emergenza-rifiuti. Tra essi, si prevede ‘l’ampliamento della platea dei siti finali per recupero e smaltimento’ e, al nono punto, si cita la richiesta di ‘priorità di conferimento dei rifiuti romani rispetto a terzi che già conferiscono verso impianti Acea già esistenti (San Vittore, Aprilia, Orvieto, Terni)’.
In buona sostanza, la Sindaca vuole risolvere il problema dei rifiuti nel modo più comodo: destinandoli a un’altra regione, agli impianti di Terni e Orvieto vogliamo ricordare che la normativa attuale prevede che si possano accettare i rifiuti extraregionali solo in presenza di accordi che ad oggi non esistono e che neanche si prevedono.
Per quanto attiene alla discarica di Orvieto, l’Ambito Territoriale ha già deciso di ridurre fortemente i conferimenti attraverso l’attivazione, ormai pressoché completa e diffusa su tutto il territorio provinciale, della raccolta differenziata spinta, incentivando concretamente il riuso dei materiali raccolti.
I Consigli Comunali di Terni e Orvieto da tempo hanno deciso di andare al superamento delle discariche come prevede la normativa europea. Terni e Orvieto non sono la discarica di Roma, la Sindaca lavori per trovare vere soluzioni ai problemi della Capitale e non scarichi su altre comunità le proprie responsabilità”. (Dalla nota congiunta con cui i sindaci di Orvieto e Terni, Giuseppe Germani e Leopoldo Di Girolamo replicano al programma di smaltimento dei rifiuti romani prospettato dalla sindaca Raggi).
L’opinione di Leoni
Che si aspettava la bella e supervotata, ma incauta, sindaca di Roma? I suoi collaboratori non l’avevano informata che Orvieto ha già dato in occasione della famigerata crisi dei rifiuti in Campania e che ancora si sta leccando le ferite? C’è l’Austria pronta a incenerire, a caro prezzo, i rifiuti di Roma in quei termovalorizzatori dei quali Roma, al contrario di altre capitali europee, non si è mai voluta dotare.
La comprensibile avversione della popolazione romana agli inceneritori, invece di essere affrontata dalle precedenti amministrazioni con l’informazione e con il coraggio di prendere decisioni anche impopolari, è stata sfruttata per arricchire una manica di farabutti, sedicenti politici e sedicenti imprenditori. Adesso la sindaca, promossa da un movimento pregiudizialmente ostile agli inceneritori, dovrà spremere il popolo romano per pagare l’inceneritore austriaco di Zwentendorf, dove già arrivano rifiuti da Napoli e dalla Campania. Questo mondo sarà pure una valle di lacrime, ma qualche risata ogni tanto ci può scappare.