La proposta del direttore
Più sicurezza, meno libertà?
“Per non consentire al terrorismo di non impadronirsi delle nostre vite occorre allertare i servizi di sicurezza su un oggetto o una persona sospetti; accettare i controlli di borse e zaini all’ingresso di centri commerciali e ristoranti, anche se questo tocca la nostra privacy; approvare leggi che blocchino l’attività di istigazione alla violenza sui social network; stabilire pene che siano deterrenti efficaci per chi è coinvolto nella realizzazione di azioni terroristiche, sin dalla fase dell’istigazione al terrorismo, passando per il reclutamento, il finanziamento, la collaborazione diretta o indiretta e così via. Israele oggi investe il 6% del suo Pil in sicurezza, l’Europa l’1,5%. Il servizio militare obbligatorio è una pietra fondante della società israeliana. Il fatto che l’esercito sia un esercito di popolo, nel senso più semplice e immediato dl termine, rende tutti i cittadini partecipi in maniera attiva della propri difesa. I servizi di sicurezza israeliano svolgono il loro compito nell’ambito della legge e sotto il controllo del sitema giudiziario. Siamo uno Stato di diritto, combattere il terrosimo non vuol dire che tutto è consentito. Tuttavia la legislazione in Israele consente di adottare misure soddisfacenti a tutela della vita dei cittadini. È possibile che, a volte, per questo, venga toccata sotto qualche minimo aspetto qualità della vita. Ma il diritto di vivere deve avere la precedenza.” (Da una intervista a Naor Gilon, ambasciatore di Israele a Roma pubblicata su “Libero” del 21 luglio 2016).
L’opinione di Pier Luigi Leoni
Una lucida lezioncina sulla prevenzione del terrorismo non può che venirci da Israele, che convive da settant’anni col terrorismo di matrice palestinese, ispirato da un irriducibile rancore, sostenuto da centinaia di milioni di Arabi e foraggiato dagli Stati arabi esportatori di petrolio. Israele sta dimostrando che il terrorismo non si affronta con le chiacchiere e non si risolve con la politica internazionale. Lo statuto dell’ONU risale all’epoca della fondazione dello Stato d’Israele e degli inizi del terrorismo arabo (preceduto, a dire il vero, da quello israeliano). Da allora l’ONU non ha cavato un ragno dal buco e, non solo, il terrorismo palestinese non si è placato, ma sono dilagate altre forme di terrorismo internazionale di matrice islamica. Ma così è. Non possiamo non prendere atto che la libertà è un lusso di cui possiamo godere soltanto se siamo disposti a sacrificarne una parte per tutelare le nostre vite. Se vogliamo ancora il gelato dobbiamo rinunciare alla panna.
L’opinione di Franco Raimondo Barbabella
L’idea di libertà cambia nel tempo, compresa quella attuale che ha origine al culmine dell’età moderna. Mai però in tutti i suoi passaggi è stata concepita come assoluta, senza limiti, che infatti ci sono e sono codificati in coerenza con il clima del momento storico, con le esigenze di sicurezza e con le forme giuridiche con cui si regolano i rapporti sociali.
La sicurezza a sua volta è tema che parimenti evolve. È questione che accompagna la cultura e le logiche di governo della società moderna da quando, già alla metà del seicento, si afferma in Inghilterra l’idea che il cittadino ha diritto alla tutela di sé nei confronti sia dell’autorità costituita che dei suoi simili, sudditi o cittadini. Da allora il potenziale conflitto tra libertà e sicurezza (con la conseguente necessità di un equilibrio) è stato sempre presente e sempre risolto spostando l’asse verso un corno o l’altro del dilemma.
Oggi il dilemma si pone in modo particolarmente forte nelle società democratiche occidentali per le particolari condizioni che si sono determinate: la mondializzazione, i flussi migratori, le nuove ragioni del conflitto sociale, il terrorismo islamico, l’esplosione violenta del disagio e dello squilibrio individuale. Gli organismi internazionali si dimostrano del tutto inadeguati ad affrontare le rapide trasformazioni del mondo, i singoli stati boccheggiano di fronte al groviglio dei problemi vecchi e nuovi, le società sembrano perdere le identità più elementari. Montano di conseguenza il senso di precarietà e la paura. Che fare? Non possiamo certo immaginare soluzioni come singoli. Possiamo però affermare un punto di vista, seppure parziale e magari ingenuo.
Il mio intanto, visto che sono chiamato a commentare quanto afferma Naor Gilon, è che l’esperienza di Israele, tragicamente effettuata in anni e anni di autotutela da nemici interni ed esterni, è straordinariamente preziosa e certamente utile per capire e decidere che fare per ciò che concerne le vaste e complesse questioni del terrorismo. Ma le cose dalle nostre parti sono più complicate.
Ho usato il termine nemico, su cui ho discusso con il mio amico Gigi Franzini sulla mia pagina Fb a proposito della strage di Nizza. È un termine giusto, appropriato, per definire e rapportarsi di conseguenza, culturalmente ed operativamente, con il fondamentalismo e il terrorismo islamista. Il punto però è che una volta che affermiamo che c’è un nemico non è vero che tutto è chiaro, cosicché ne deriveranno azioni conseguenti e lineari. Alessandro Sallusti dice che le distinzioni vanno lasciate agli specialisti. No, le distinzioni fanno parte non solo dei diritti e dei doveri delle menti libere per orientarsi nel mondo ma degli strumenti di governo delle società complesse.
È chiaro chi è il nemico quando questo si costituisce come Al-Qaeda o oggi soprattutto come ISIS o come gruppi identificati che predicano e preparano la violenza. L’ultimo caso è l’attentato dell’altro giorno a Kabul contro gli sciiti. Ma non è chiaro chi è, se non quando si manifesta, qualora ci si riferisca a individui problematici che decidono di fare scempio di persone inermi e di morire gridando Allah Akbar, come è successo a Nizza. In questo caso siamo sicuri che la spiegazione sia l’islamizzazione? O non è vero piuttosto che oggi il riferimento per un certo tipo di individui in certe situazioni è questo (e per questo gridano Allah Akbar), ma in altre situazioni è altro e sarà poi ancora altro a seconda del vento che tira, come se le motivazioni fossero del tutto relative?
Chi sia il nemico infatti è ancora meno chiaro quando si sia di fronte a casi come quello di Ali Sonboly, il ragazzo diciottenne autore della recentissima strage di Monaco. Qui, a quanto sembra, siamo di fronte ad una condizione di squilibrio mentale che si traduce in strage per vendetta nei confronti di coetanei resisi protagonisti di bullismo continuato. Una strage dunque assimilabile, a detta della polizia, non a quelle islamiste quanto piuttosto a quella norvegese di Utoya, il cui autore fu Anders Behring Breivik, che proprio il 22 luglio del 2011 uccise 77 persone.
Ecco perché l’insicurezza ormai regna sovrana in ogni angolo delle nostre società, proprio perché il nemico non è solo fuori di noi, ma è tra noi e per certi versi anche in noi. Per questo in quella discussione su Fb che ho richiamato prima dicevo che, mentre si impone una lucida e tosta difesa delle conquiste di civiltà che ci distinguono, c’è anche bisogno di ripensare in profondità le coordinate della convivenza. Tanto per dire, non viene in mente che oltre a tutti i temi che ci assillano ce n’è anche uno che non ci assilla solo perché forse sta a fondamento e viene prima di tutti gli altri cosicché paradossalmente ci rimane nascosto, cioè quello dell’educazione e della formazione del cittadino, all’interno di una ridefinizione ideale, morale e pratica, delle ragioni di una convivenza attiva?
Combattere senza incertezze e ambiguità l’ISIS e tutte le forme del fondamentalismo islamico ritengo sia cosa non discutibile. Organizzare la sicurezza nei suoi diversi aspetti come tema prioritario è indispensabile, e in questo senso l’esempio di Israele è prezioso. Ma a mio parere, proprio in connessione con i problemi della sicurezza, c’è da fare anche molto altro e in questo altro ci sono questioni che attengono alle regole sociali e al loro rispetto, all’attenzione per le condizioni delle persone e in particolare all’educazione forte e continuativa all’esercizio della cittadinanza attiva e responsabile. Insomma, non politiche dell’assistenza ma quelle che chiamerei politiche della speranza. Questioni non semplici e certo di lungo periodo.
La proposta di Leoni a Barbabella
Oltre il femminismo
“Anche Dio fa dei progressi nell’apprendimento: lo si nota dai miglioramenti nella creazione della donna nei confronti dell’uomo.” (Zsa Zsa Gabor). “Il movimento per la liberazione e l’emancipazione delle donne ha fatto moltissimo; diciamo che poi ci siamo accontentate di un’uguaglianza formale: credendo (o fingendo di credere) che la parità sia raggiunta, si fa poco o nulla per proseguire un percorso che, nonostante i molti passi avanti, è in realtà ancora ben lontano dall’essere concluso. E allora ci vuole disparità.
Ci vogliono leggi e azioni a nostro favore: la mia è una vera e propria presa di posizione teorica, dobbiamo avere molto più degli uomini se davvero vogliamo recuperare il meno avuto fino a oggi, perché è soltanto con la disparità che possiamo liberarci dalla discriminazione che ci accerchia e ci sovrasta. Voglio non solo leggi a nostro favore, ma azioni e iniziative capaci di privilegiare “spudoratamente” le donne, anche con norme ad hoc come le quote rosa, che dovranno diventare fucsia, decisamente più decise del rosa.
Ai vertici, al timone, al comando servono donne di valore. Dobbiamo esigere tutti i servizi che possano garantirci un felice svolgimento del nostro lavoro extra domestico, visto che gli uomini, intesi come padri, spesso si tolgono il pensiero accompagnando i figli a scuola (non andandoli a riprendere), considerandolo quasi un atto eroico. Solo se riusciremo a cambiare l’idea dell’uomo superiore potremo parlare di effettiva parità.” (Da una intervista all’avvocato Giulia Bongiorno pubblicata su “Il piacere della lettura” del 16 luglio 2016).
L’opinione di Barbabella
Giulia Bongiorno, avvocato di fama (lei non vuole che la si chiami né avvocata né avvocatessa, un atteggiamento culturale di pregio), forte dei suoi successi ha scritto un libro di successo (“Le donne corrono da sole. Storie di emancipazione interrotta”, ed. Rizzoli, 2016) e da tempo rilascia interviste interessanti il cui senso complessivo è sempre un messaggio contro la violenza femminicida e la falsa parità. Personalmente apprezzo tale messaggio.
Non riesco però a seguire Giulia Bongiorno nelle sue punte di esasperazione, come quando per recuperare le disparità di trattamento e di condizione delle donne invoca “azioni e iniziative capaci di privilegiare ‘spudoratamente’ le donne, anche con norme ad hoc come le quote rosa, che dovranno diventare fucsia, decisamente più decise del rosa”. Ritengo questa una strada sbagliata e controproducente, il tradimento di una mobilità sociale e di un avanzamento fondati sul valore personale. La vera parità a mio parere non si ottiene con la velocizzazione forzata, in cui si inseriscono le furbe (che non sono minori né meno abili e pericolose dei furbi), ma con la preparazione e con la lotta aperta ai trucchi e alle ingiustizie.
Né mi pare che Giulia Bongiorno riesca a centrare la realtà quando in una intervista a “DiLei” a domanda risponde:
D. “Cominciamo dal titolo del suo ultimo libro, “Le donne corrono da sole”, nel senso che sono sempre di corsa, ma anche che c’è molta strada da fare per raggiungere la parità?”
R. “Entrambe le risposte, ma non solo. Nel titolo c’è anche la solitudine. La solitudine delle donne che, a differenza degli uomini, non riescono ad allearsi tra loro.
Purtroppo, non riusciamo a restare coese in vista di un obiettivo comune. Se la persona con la quale dovremmo cooperare non ci piace, non la stimiamo o comunque non ci sta simpatica, la cancelliamo dalla nostra vita. Invece, gli uomini sono dotati di una maggiore capacità di mediazione. La conseguenza è immediata e diretta: due uomini si coalizzano anche se non si sopportano; due donne, no.”
Non so quali esperienze abbia fatto e faccia la Bongiorno. Le mie mi dicono un’altra cosa: che anche gli uomini sono malati di solitudine, difficile che facciano gruppo se non per cose superficiali e per interessi particolari, proprio come le donne. Queste generalizzazioni appaiono sempre più come stereotipi. E anche invocare canali particolari di ascesa sociale appare oggi più un retaggio ideologico del femminismo tradizionale che uno strumento sensato ed efficace di cambiamento. Resta comunque il fatto che le idee di Giulia Bongiorno non sono mai banali.