di Mario Tiberi
Siam così giunti al termine, ma di fatto non è solo che l’inizio, della lunga “galoppata” alla scoperta delle ragioni morali, sociali, giuridiche, istituzionali, politiche e culturali poste a fondamento del voto non confermativo di una Costituzione non riformata, bensì “deformata” per non dire “deturpata”.
Deformata e deturpata a cagione soprattutto della frettolosità e del pressappochismo che ne hanno accompagnato l’iter parlamentare e che, inevitabilmente, hanno finito per gettare le basi di un infelice approdo sfociato nella confusione normativa e nel disordine legislativo.
In codesto marasma caotico, un unico dato appare incontrovertibile: l’accentramento di tutti i poteri nelle mani dello Stato a danno delle Autonomie Regionali e Comunali e, nello Stato, a favore del governo nazionale con contestuale e massiccia riduzione della sovranità popolare, contrazione questa altamente pregiudizievole per la tutela dei legittimi interessi delle cittadine e dei cittadini italiani e della loro diretta rappresentanza nel Parlamento della Repubblica.
Orbene, personalmente possiedo una concezione del tutto diversa per ciò che concerne un democratico ordinamento costituzionale e, così mi auguro, che la possieda l’italica cittadinanza nella sua stragrande maggioranza: “Costituzione intesa quale Patto Solenne che unisce un popolo sovrano e che, in tal modo, sceglie liberamente come vivere insieme in una società giusta, armonica ed equilibrata”.
Ma in quale polverosa soffitta viene relegata, oggi, la sovranità del popolo se non nei cassetti autarchici di poteri opachi e sostanzialmente irresponsabili? E’ così che si spodesta un popolo dalla sua sovranità!
E se viene meno la sovranità, cioè la libertà di decidere in piena autonomia e indipendenza della nostra stessa libertà, la Costituzione non ha più ragion d’essere in quanto legge fondamentale della civile convivenza. Diverrà, al massimo delle sue potenzialità, un mero strumento di governo di cui, chi momentaneamente è al potere, si servirà finché gli tornerà utile per poi calpestarla quando non lo fosse più. Del resto, la storia istituzionale degli ultimi anni fornisce prova lampante che proprio questa strumentalità ha rappresentato la caratteristica dominante delle più recenti vicende pubbliche: la Carta Costituzionale non è stata collocata al di sopra della politica, ma sotto di essa e dunque forzata e disattesa in innumerevoli circostanze nel silenzio compiacente della politica stessa, della stampa e, persino, della scienza giuridica.
In ragione di dover divenire “strumento” e non “fine”, si sono all’uopo adottate statuizioni per cui il governo centrale non abbia a dipendere dal Parlamento e, ove necessiti, porre il Parlamento medesimo, supremo organo della rappresentanza popolare, nella condizione di non nuocere rispetto al dispiegarsi delle imposizioni governative.
Riassumendo, proviamo a seguire la seguente logica concatenazione: la Costituzione è la massima espressione della sovranità appartenente al popolo; se viene meno la sovranità, non vi può essere una costituzione realmente democratica e di cui unico beneficiario sia il popolo stesso; se, infine, i cittadini non saranno più i destinatari privilegiati delle garanzie costituzionali, le porte dell’autoritarismo oligarchico si spalancheranno repentinamente.
Sostenere quindi il NO al referendum di ottobre ha, nella sostanza, codesto preciso significato: opporsi alla perdita della nostra sovranità per difendere i nostri diritti e le nostre libertà.
Un’ultima ragione, ma certo non meno valida di altre ed espressa in forma interrogativa, per aderire con convinzione al NO referendario: vi saranno pur fondati motivi perché i più illustri giuristi italiani tra i quali Rodotà, Zagrebelsky, Villone, Besostri, Gallo, Pardi, Bonsanti, si stanno spendendo a fondo affinché la Costituzione Italiana non sia stravolta e umiliata?!? Alle lettrici e ai lettori la ovvia risposta!
Onde definitivamente concludere, ho principiato la redatta “esalogia” con un proverbio e, con un proverbio a mezzo della lingua che mi è più vicina, termino: “Certa amittimus, dum incerta petimus” (Tito Maccio Plauto) – Chi lascia la strada vecchia per la nuova, sa cosa lascia e non sa cosa trova -.