La proposta di Dante Freddi
Si farà anche ad Orvieto il Centro commerciale naturale?
Centri commerciali naturali, ad Orvieto un incontro con Confcommercio per parlarne – “I tecnici Confcommercio Umbria illustreranno le opportunità che il bando offrirà alle imprese commerciali e artigianali, grazie al contributo pubblico del 50% a fondo perduto per la realizzazione di investimenti relativi alla promozione commerciale di Orvieto (ad esempio, per promozione web, wi-fi, azioni di fidelizzazione, sviluppo e creazione di un marchio identificativo, segnaletica e portali di ingresso) e alla riqualificazione di ogni singola attività partecipante (ad esempio, arredi, attrezzature, macchinari, impiantistica, insegne).” (http://orvietosi.it/2016/05/centri-commerciali-naturali-ad-orvieto-un-incontro-con-confcommercio-per-parlarne/
L’opinione di Pier Luigi Leoni
Sta per uscire un bando regionale per la valorizzazione degli esercizi di vicinato, come la legge definisce i negozi per la vendita al minuto (fino a 250 mq). Sono previsti contributi a fondo perduto fino alla cinquanta per cento delle spese per interventi di miglioramento delle strutture e della loro promozione. È quindi ovvio che la prospettiva di finanziamenti metta in movimento commercianti, associazioni di categoria e associazioni generaliste. Si torna a parlare di centri commerciali naturali, definizione di moda qualche anno fa e che rispecchia soprattutto realtà come quella del centro storico di Orvieto. Si tratta di una buona occasione per tentare di razionalizzare la rete commerciale del centro storico dandole una identità che non è mai riuscita ad avere nonostante il grande flusso turistico, peraltro favorito dalla crisi economica che trattiene gli italiani negli itinerari interni. Sono attento a ciò che sta facendo in merito il mio amico Gianni Marchesini e ne apprezzo le idee che scaturiscono dalla vivace creatività, dalla profonda conoscenza della realtà orvietana e da una tenace passione. Auguro a lui e a tutti i commercianti orvietani, dei quali apprezzo soprattutto il coraggio e lo spirito di sacrificio, il più largo successo. Credo che gli ostacoli più grandi che dovranno superare saranno l’individualismo, l’abitudinarietà e lo scetticismo; ma d’altro canto la mancanza di posti lavoro dipendente stimola sempre più la pressione dei giovani sul settore dei servizi apportando energia e freschezza. Auguri!
L’opinione di Franco Raimondo Barbabella
L’idea di Centro commerciale naturale (Ccn) non è una banalità. Nasce alla fine degli anni ’90 del secolo scorso, si afferma negli anni 2000 e conosce una sostanziosa diffusione di realizzazioni nel mondo e in Italia soprattutto negli ultimi dieci anni. Oggi esiste anche una vasta letteratura sull’argomento e l’acronimo TCM (Town Center Management) è universalmente conosciuto e accettato.
In realtà la denominazione non rispecchia la realtà (riferendosi al centro città, non è né “naturale” né ha qualcosa a che vedere con il “centro commerciale” vero e proprio), ma è fortemente evocativa, volendo indicare una vocazione tipica dei centri storici che si tratta di cogliere e valorizzare. In questo senso è evidente che l’idea è frutto della presa di coscienza che la lunga fase di concentrazione delle risorse quasi esclusivamente nella realizzazione di centri commerciali capillarmente diffusi, oltre che di ipermercati e poi di outlet, tutti o quasi collocati nelle periferie e comunque lontani dalle zone storiche, si è tradotta in una crisi strutturale delle piccole aziende commerciali e artigianali e dello stesso tessuto connettivo dei centri storici, una parte consistente della ricchezza del Paese, anzi, forse il suo aspetto più significativo.
La reazione è avvenuta nelle diverse regioni con modalità differenti. Il Ccn è una di queste. Ma, al di là delle diversità di approccio, la sostanza è la stessa: attraverso la stimolazione di strategie organizzate di riqualificazione delle piccole aziende commerciali e artigianali dei centri storici si tratta di conferire a questi una rinnovata e vitale funzione urbana. Per cui è evidente che le cose migliori sono avvenute dove si è scelta la strada degli interventi coordinati mediante progettazione strategica e gestione integrata.
Tra le esperienze più interessanti a livello internazionale ci sono quelle inglesi e francesi e in Italia quelle del Veneto (Feltre) e della Toscana (Lucca e Garfagnana, Colle Val d’Elsa e Radicondoli). L’Umbria è partita solo recentemente con il bando per creare i Ccn di Perugia e Terni del 2015 rinnovato nel 2016.
A quanto si legge ora nel comunicato che commentiamo e in quello successivo dell’Associazione Orvietopertutti (OrvietoSi, 3 giugno), pare che uscirà un nuovo bando della Regione che consentirà interventi come quelli richiamati anche per Orvieto. Se il bando ricalcherà quelli per Perugia e Terni, si tratterà di incentivi sia per progetti singoli che consorziati fino al 60% della spesa ammissibile per una serie variegata di interventi di ammodernamento (dal marketing all’e-commerce, dalle insegne all’hi-fi, dall’acquisto di strumenti elettronici per i pagamenti allo sviluppo di brand caratterizzanti, ecc.) con l’obiettivo di innalzare gli standard qualitativi e competitivi delle aziende.
Io credo che si tratti di cosa senz’altro positiva e mi auguro che si faccia nel modo migliore. Mi sia tuttavia consentita almeno un’osservazione, riprendendo anche in questa occasione discorsi fatti all’inizio degli anni 2000 con l’allora assessore Frellicca e in anni più recenti con Pier Luigi Leoni in un numero che non ricordo delle nostre passate rubriche. Si tratta del fatto che non solo arriviamo, come ormai è consuetudine, in ritardo rispetto ad altri, ma arriviamo per sollecitazione esterna al governo locale, con due conseguenze non di poco conto già prima di cominciare.
La prima: l’operazione non sarà parte iniziale e propulsiva di un progetto di città, la cui titolarità non può che spettare al Comune. La seconda e conseguente: se va bene (e speriamo che vada bene, se non altro perché i promotori di Orvietopertutti se lo meritano), se nei tempi ristretti che ci saranno per presentare i progetti si riuscirà (e lo speriamo vivamente) a mettere in piedi un qualche coordinamento e un supporto efficace a chi vorrà aderire, avremo sì aiuti per un certo numero di operatori, miglioreremo sì un pò, qua e là, gli standard qualitativi degli esercizi, ma non riusciremo a fare quel salto di proposta e di organizzazione dell’offerta commerciale e artigianale collegata con il turismo e con l’attesa di cultura che può avvenire solo quando si riuscirà a ragionare e ad agire con logiche di sistema.
D’altronde è la stessa Regione a ragionare così: al di là di concetti scontati che ormai si trovano ripetuti passivamente dovunque, la sostanza delle cose è che si tratta di aiuti (lo ripeto: giusti, sacrosanti) ad aziende che non ce la fanno a stare al passo con le serrate dinamiche del mercato. Così ci si affida poco ai governi locali e molto allo spontaneismo interessato degli operatori, sperando che funzioni. È la politica di basso profilo che va di moda da un certo tempo a questa parte. Io credo che questa, più che una politica inadeguata, sia una non-politica. Mi sbaglierò, ma non è la strategia di chi fa colazione con pane e volpe.
La proposta di Leoni a Barbabella
Contro l’illusione di drizzare il legno storto: una lezione di Gustave Thibon. L’ordine sociale si fonda sull’egoismo dei più e sul disinteresse di pochi.
“Il contadino non ha assolutamente modo di dissociare il proprio interesse dal proprio dovere. Se non rama la sua vigna quando la peronospora si manifesta, o se non taglia il suo grano quando è maturo, è lui e lui solo a venir castigato. Così non ha bisogno di essere esortato dall’esterno alla disciplina e allo sforzo. Il senso della disciplina e dello sforzo emana, per lui, dalla forza stessa delle cose, dalla necessità di tutti i giorni. Accade lo stesso in tutte le altre sfere della società?
Si abbia il coraggio di confessarlo: finché non avremo costruito un ordine sociale in cui l’individuo si trovi saldato alla sua funzione da un sistema di ricompense e di sanzioni immediate e personali, non dovremo stupirci dell’eclissi del senso morale. L’appello alle virtù civiche potrà pur avere degli sporadici risultati, ma non basterà mai a supplire, per la massa degli uomini, l’irresistibile pressione della necessità.
Ma, si potrà rispondere, legare in questo modo il senso del dovere all’interesse, non significa forse avvilirlo? Questa obiezione avrebbe qualche peso soltanto se, nella generalità dei mortali, il senso del dovere potesse esistere allo stato puro, se gli uomini cioè non fossero quello che sono. Contraddicendo totalmente questa utopia, noi affermiamo, di fronte ad una umanità preoccupata soprattutto del proprio interesse personale, che amalgamare così intimamente l’egoismo alle esigenze del dovere, significa nobilitarlo e purificarlo considerevolmente. Penso ai più interessati, ai più avidi dei nostri contadini e dei nostri vecchi artigiani di villaggio: quale amore per la terra e per il mestiere, quale “mistica” dello sforzo e del lavoro ben fatto, impregna e supera la loro sordida sete di guadagno!
Quel che è depravante e corruttore per eccellenza, è precisamente la scissione tra l’interesse e il dovere, e lo spettacolo di una parte della società attuale ne fornisce la prova. Rescissa dall’interesse personale, la virtù perde la pesantezza che l’incarna: nulla più l’aggancia alla terra. Ma l’interesse personale, a sua volta, separato dalla virtù, perde l’ala che lo libera: nulla più lo eleva verso il cielo. È Il divorzio tra l’ideale e il reale: da un lato una morale verbale e inoperante, dall’altro l’anarchico brulichio di egoismi senza contrappeso, che si divorano gli uni con gli altri, con l’inevitabile risultato dell’avvilimento degli individui e della dissoluzione delle società.
Ciò significa che noi vogliamo bandire da questo mondo le virtù disinteressate e le vocazioni eroiche? Pensiamo, al contrario, che nessuna società può fare a meno di una élite che si voti al proprio compito al di sopra di ogni considerazione personale: Tutto in basso crolla, allorché in alto declina lo spirito del sacerdozio e della cavalleria. Le nazioni hanno bisogno di eroi e di santi come la pasta ha bisogno del lievito.
Ma il lievito non è la pasta e, nel pane, la sua proporzione è minima. Noi vogliamo un clima sociale nel quale le vocazioni disinteressate, invece di essere vanamente imposte a tutti, possano essere scelte efficacemente da qualcuno. In altri termini, quello stesso dovere sociale che l’élite compie per scelta propria, sotto la spinta dell’amore e dell’ideale, la massa deve compierlo, al suo livello, per necessità, sotto la spinta dell’interesse. L’armonica coesistenza di una tale élite e di una tale massa costituisce ad un tempo la solidità e la gloria delle nazioni, poiché questi due modi di servire, lungi dall’escludersi o dal contraddirsi, si aiutano a vicenda. Proprio in un’epoca come il Medioevo in cui, dal principe sino all’ultimo artigiano, l’interesse degli uomini si fondeva intimamente con il loro dovere, si è visto fiorire, in tutti gli ambienti, il più gran numero di eroi e di santi.” (Gustave Thibon)
Questo stimolo a conoscere il pensiero di Gustave Thibon è certamente da cogliere e da rilanciare, e si può fare anche con questi nostri piccoli contributi. Il filosofo francese Gustave Thibon (1903-2001) è stato definito “le philosophe paysan” (il filosofo contadino), perché si è formato direttamente sui libri dei grandi filosofi e scrittori mentre lavorava i campi, senza frequentare né scuola né università.
Qualche anno fa, in occasione della ripubblicazione del suo libro più famoso, “Ritorno al reale”, in un magazine elettronico dedicato al mondo del libro tra l’altro si poteva leggere: “La scoperta del filosofo-contadino ha segnato per molti una svolta decisiva.
Il creato di Thibon, seppur sovente aspro e talvolta enigmatico, è stato ed è per molti una casa accogliente e quello di Thibon è un mondo rappacificato, segnato da quella penitenza che permette la riconciliazione dell’uomo con se stesso, dunque con la creazione, infine con il Creatore. La capitalizzazione del male (strutture del peccato) odia e combatte l’ordine dell’universo detestando Dio: ma, non potendolo colpire direttamente, essa agisce deturpando il creato (speculum Dei) e l’uomo suo principe (imago Dei). Il pensiero di Thibon, riguadagna quella dimensione creaturale dell’esistenza – il riconoscersi creatura e il contemplare la creazione – che riconnette a Dio mediante l’innamoramento al reale.”
Nel brano che Pier Luigi mi propone di commentare due sono i passaggi concettuali centrali: 1. “Quel che è depravante e corruttore per eccellenza, è precisamente la scissione tra l’interesse e il dovere, e lo spettacolo di una parte della società attuale ne fornisce la prova. Rescissa dall’interesse personale, la virtù perde la pesantezza che l’incarna: nulla più l’aggancia alla terra. Ma l’interesse personale, a sua volta, separato dalla virtù, perde l’ala che lo libera: nulla più lo eleva verso il cielo.”; 2. “Ciò significa che noi vogliamo bandire da questo mondo le virtù disinteressate e le vocazioni eroiche? Pensiamo, al contrario, che nessuna società può fare a meno di una élite che si voti al proprio compito al di sopra di ogni considerazione personale: Tutto in basso crolla, allorché in alto declina lo spirito del sacerdozio e della cavalleria. Le nazioni hanno bisogno di eroi e di santi come la pasta ha bisogno del lievito.” Naturale dunque che questa sia la conclusione: “Proprio in un’epoca come il Medioevo in cui, dal principe sino all’ultimo artigiano, l’interesse degli uomini si fondeva intimamente con il loro dovere, si è visto fiorire, in tutti gli ambienti, il più gran numero di eroi e di santi.”
Il punto è proprio questo: una società che per riconoscersi tale ha bisogno di produrre santi ed eroi può considerarsi davvero umana? Umana si, ma non certo giusta. Teorizzare il rapporto necessario tra interesse individuale e dovere, correggendo così il “dovere per il dovere” dell’etica kantiana per evitare lo scivolamento contemporaneo o verso l’egoismo puro o verso il moralismo vuoto, non c’è dubbio che sia cosa di grande interesse. Se però da qui si trae la conclusione che “tutto in basso crolla, allorché in alto declina lo spirito del sacerdozio e della cavalleria”, cioè che la società si sgretola se non ci sono più le vite esemplari dei santi e degli eroi, allora mi viene spontaneamente da dire, parafrasando Bertolt Brecht, “infelice quella società che ha bisogno di santi ed eroi”.
E la ragione è presto detta. Non che in assoluto non deve nemmeno pensarsi la possibilità dei santi e degli eroi né che si deve condannare la tendenza di oggi ad allargare a dismisura l’ambito e la possibilità sia della santità che dell’eroismo, quanto piuttosto che deve essere lasciata aperta sia l’ipotesi teorica che la possibilità pratica che tutti possano raggiungere la vetta. Anche sapendo perfettamente che ci saranno sempre differenze individuali ed ostacoli che a molti lo impediranno.
Insomma, la posizione di Gustave Thibon, quando dall’ambito della condotta individuale si trasferisce su quello dell’organizzazione politico-sociale, si ha la conseguenza di pensare tutto di nuovo nei termini di quella società piramidale con una base molto larga e un vertice molto stretto che nell’epoca moderna è stata progressivamente contestata e modificata. Tanto per stare a quel “ritorno al reale” così caro al filosofo contadino.
A mio avviso però c’è poi anche altro, molto più attuale proprio per questo stesso principio. Pensare ad un modo di essere della società fortemente gerarchizzato significa un modo troppo comodo per rinunciare ad ogni impegno sociale. E allora molto meglio attestarsi sull’idea di Max Weber di una società che premia il merito e pretende da ognuno l’esercizio del principio di responsabilità. Se poi, insieme a questi, riuscissimo a farci guidare anche dalla idee di libertà e giustizia, e dalla consapevolezza che nessun io può vivere senza un altro, con tutti gli adattamenti necessari che la realtà storicamente determinata ci suggerisce, allora avremmo in concreto dimostrato che non è impossibile fare il bene proprio insieme a quello altrui. Non avremo raddrizzato il legno storto, ma avremo contribuito, senza essere santi ed eroi (o forse per qualche verso si, anche senza saperlo), a migliorare l’umanità, che non mi pare cosa disdicevole. Lo ha fatto Muhammad Alì, che era partito come ultimo degli ultimi, perché non dovrebbe provarci, pur restando se stesso, anche ognuno di noi?