La proposta di Dante Freddi
Brexit è fatta. Uscire è uscire, senza ricatti
“Avremo preferito non aver ragione, ma i primi effetti della Brexit sono devastanti per le famiglie e le imprese britanniche. Quali saranno le conseguenze per gli agricoltori del Regno Unito e per le merci, l’industria, i servizi, i flussi migratori? La situazione è pesante per tutte le piazze finanziarie, ma la zona euro ha tutte le chance per riequilibrare circuiti finanziari impazziti. Londra non ha le stesse possibilità di reazione. … Uscire vuol dire uscire.
E non può essere accolta la “balbettante comunicazione” del primo ministro Cameron di prendere tempo, di far negoziare l’uscita a un nuovo premier a partire dal prossimo autunno. La comunicazione al Consiglio europeo dell’esito del referendum, da parte del governo britannico secondo l’art. 50 del Trattato, deve avvenire rapidamente. Così stamattina hanno chiesto il parlamento europeo e il presidente della Commissione, Juncker.
Rispettare la volontà popolare non può voler dire alimentare una situazione di incertezza. Per l’Unione non è un funerale, ma una ripartenza che impone un cambio di passo nella direzione di una maggiore integrazione. Abbiamo capito che il fronte europeo è diviso fra spinte europeiste e tentazioni secessioniste. Bene, la sfida va accettata e i primi commenti delle cancellerie europee e delle forze politiche sono incoraggianti. Anzi, quello che sta avvenendo nel Regno Unito sarà utile a smorzare gli umori di quanti predicano che da soli si potrà vivere meglio. Il tracollo immediato che ha colpito una delle piazze finanziarie più importanti del mondo, con ripercussioni gravi sull’economia reale, potrà far capire cosa potrebbe accadere a paesi molto più fragili se verranno assecondate spinte populiste. Pensate alla Polonia e all’Olanda, nazioni molto esposte a venti anti-europei ma con economie che potrebbero diventare in un battito d’ala simili a quella della Grecia.
La reazione giusta alla Brexit è prendere atto che l’Unione deve cambiare per integrarsi più, per evitare che il peso delle contraddizioni interne agli Stati membri si scarichi sempre sul piano europeo, per dotarsi di una governance più democratica. Cambiamento sì, ma senza ricatti.” (David Sassoli, L’Huffington Post, 24.06.2016)
L’opinione di Pier Luigi Leoni
L’Unione Europea è nata da un processo in cui le convenienze economiche e finanziarie si sono intrecciate con aspetti emotivi, come la paura di nuove guerre e l’invidia per la prima potenza mondiale rappresentata dagli Stati Uniti d’America. Ma l’intreccio tra razionalità ed emozioni è nella natura dei comportamenti umani individuali e collettivi. Un intreccio che è presente anche nel risultato del referendum britannico. La ragionevolezza suggerisce di prendere atto rapidamente della nuova realtà e di ridare forza all’Unione Europea con riforme che affrontino i nodi che stanno erodendo il consenso popolare all’Unione: disoccupazione, ridimensionamento del welfare, immigrazione fuori controllo, impoverimento e rischio di fallimento degli Stati che, per debiti e per debolezze di vario genere, non riescono a tenere il passo degli Stati più forti. Il Regno Unito, legato da rapporti economici tradizionalmente stretti con India, Canada e Australia può cavarsela. Ma Italia e Spagna, per non parlare della Grecia, non possono andare da soli da nessuna parte. Riusciranno a dominare, grazie alla paura del tracollo economico, l’orgoglio nazionale?
L’opinione di Franco Raimondo Barbabella
La Storia non è lineare, si sa: qualche volta fa un balzo improvviso, spesso procede a zig zag, altre volte sembra arretrare. È proprio quest’ultima l’impressione che suscita il BrexitYes di giovedi 23 giugno, indipendentemente dal giudizio che se ne vuol dare.
Ha scritto Antonio Polito: “È iniziato un tempo più cupo, più pessimista, dominato dalla paura, dalla voglia di chiudersi nel protezionismo, nell’isolazionismo, nel nazionalismo. Dicono che è una reazione all’Europa tedesca. Forse. Ma questo movimento di rivolta urla «Blut und Boden», sangue e suolo, proprio come gli autori del romanticismo tedesco contro i Lumi della ragione. Dobbiamo temere tutto ciò molto più dei disastri di Borsa, delle turbolenze finanziarie, del lungo e caotico negoziato che ora si aprirà.”
Ecco, questo è il punto, un mutamento di clima, in cui c’è un po’ di tutto: gli effetti della globalizzazione e quelli degli otto anni di crisi, l’allargamento della forbice povertà-ricchezza, l’impoverimento materiale e culturale dei ceti medi, la restrizione degli ambiti del potere e il crescente distacco dalla gente comune dei ceti privilegiati. Ma soprattutto due fattori: la diffusa frustrazione spesso mista a ignoranza, che trasforma il popolo in folla disposta a seguire i demagoghi di turno, e l’opportunismo di leader senza visione e senza scrupoli, che usano la folla per disegni di ascesa personale.
Qualche prova? La città operaia di Sunderland che vota in massa Leave al seguito di capipopolo come Nigel Farage e Boris Johnson in odio ai Londoners (sinonimo dei potenti e degli approfittatori si Londra) e che, quando si accorge che Leave ha vinto e si rende conto delle conseguenze, si cosparge il capo di cenere e si lamenta e teme per il suo stesso futuro (anche dato che ha beneficiato degli aiuti europei in misura piuttosto rilevante). O, sul fronte opposto degli opportunisti spregiudicati cacciatori di potere, proprio il premier (oggi ex) David Cameron, di fatto travolto dal suo stesso azzardo, avendo promosso il referendum al fine di risolvere a suo favore i contrasti interni al suo partito. Non solo, ma avendolo fatto per sostenere il Remain dopo aver detto peste e corna dell’Europa.
La storia non è lineare, dicevamo. E con essa la democrazia. Il referendum è di sicuro uno strumento di democrazia, perché in democrazia “il potere appartiene al popolo”. Ma se il popolo decide senza un’informazione corretta (ad esempio se non sa che gli immigrati hanno prodotto nel Regno Unito molta più ricchezza di quanta non ne abbiano usata), quella che al momento appare democrazia può generare effetti che nei fatti e nel tempo la travolgono. Se i potenti di turno mistificano la realtà e ingannano, di certo non fanno gli interessi del popolo che pure li segue. Nel corso della storia (gli esempi sono tanti; per i più recenti si guardi all’America latina) la democrazia diretta si è tradotta il più delle volte nella sua negazione non appena chi la predicava ha raggiunto suo tramite il potere. Occhio dunque, la natura delle cose si misura più con gli effetti che con le parole e le intenzioni.
La storia non è lineare, anzi può essere diretta da quella che Hegel ha chiamato “l’astuzia della ragione”, per cui la Ragione (lo Spirito umano) utilizza le passioni e le ambizioni degli uomini per raggiungere fini che sono all’opposto di quelle passioni e ambizioni. Mettiamo ad esempio che la Brexit alimenti la volontà degli scozzesi di staccarsi dall’Inghilterra con un nuovo referendum giustificato dal fatto che in grande maggioranza hanno votato per il Remain. E mettiamo che ciò accada effettivamente. Si tratterebbe di un esempio di come in concreto agisce nella storia l’“astuzia della ragione”: ciò che non è avvenuto prima avviene dopo a causa dell’improvvida iniziativa di chi tutto questo voleva evitare.
La storia non è lineare, però è dialettica, e può accadere che ciò che al momento sembra un gran guaio si trasformi poi in inaspettata opportunità. Per esempio, potrebbe accadere che l’Europa moribonda rialzi la testa e diventi quella che non è mai stata, cioè l’Europa non dei potentati finanziari, dei particolarismi e del formalismo burocratico, ma dei cittadini. L’Europa che accoglie i migranti ma non permette a nessuno di mettere in questione i suoi valori e le sue conquiste. L’Europa preoccupata di dare un futuro ai suoi giovani. L’Europa senza frontiere che tuttavia sa difendersi e competere nel mondo globalizzato. Insomma, l’Europa unita che era nel sogno di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi a Ventotene. L’Europa politica che dà potere reale al Parlamento e alla Commissione e lo toglie al Consiglio, dove siedono i capi di stato e di governo. L’Europa che oggi non c’è per il costante prevalere degli egoismi nazionali, interpretati ora dalla Francia, ora dalla Germania, ora dal Regno Unito, meno dall’Italia ma senza che questo alla fine abbia prodotto qualche merito tangibile.
Potrebbe accadere, ma accadrà? Difficile dire. Certo, una reazione non può mancare, perché il prevalere dei populismi e dei nazionalismi sarebbe insieme la tomba di uno dei vertici più alti della civiltà umana e di coloro che, essendosi trovati in questo tempo a interpretarne le possibili proiezioni, non ne sono stati per nulla all’altezza. Da qui a svelare il mistero di ciò che ci attende nell’immediato non passerà molto tempo. Per capire il futuro lo sforzo sarà invece ben maggiore e il tempo di sicuro più lungo. Ci vuole uno scatto, ci vuole il sogno, oltre a politiche concrete coraggiose. Ma le divisioni sull’atteggiamento da tenere rispetto all’attuazione della Brexit che si registrano in queste ore tra i governanti dei maggiori paesi non fanno sperare nulla di buono. Speriamo di essere smentiti.
La proposta di Leoni a Barbabella
Usare con discrezione web, stampa e bocca
Un pensiero di Cesare Viviani pubblicato su SETTE (settimanale del Corriere della Sera) del 10 giugno mi fa sospettare che dovremmo tutti usare il web, la stampa e la stessa bocca con maggiore discrezione. Mi ricorda l’avvertimento di mio padre (prima di parlare, chiedi il permesso al cervello) e quello di mia madre (prima di parlare, gira tre volte la lingua in bocca). Miei cari, ricordo gli utili scappellotti che mi avete dato e quelli che continuate a darmi dal luogo misterioso in cui adesso vi trovate.
“Oggi, se si è riservati e si trattengono alcune esperienze e conoscenze, pensieri e stati d’animo, senza comunicarli a nessuno, un siffatto comportamento può essere stigmatizzato come offensivo, quasi fosse un insulto, o come un’anomalia patologica, in questa epoca della supercomunicazione in cui tutto deve essere dichiarato e trasmesso. Eppure, a pensarci bene, se uno non ha anche propri pensieri, avrà solo i pensieri di tutti. E se uno non ha anche le proprie esperienze, avrà solo le esperienze di tutti, persino gli stati d’animo di tutti. Non avrà niente di particolare, di caratteristico, di peculiare. Si guarda allo specchio e avrà l’espressione di tutti, e percepirà se stesso così simile alle altre persone da rischiare di non riconoscersi.” (Cesare Viviani, SETTE, 10.06.2016)
L’opinione di Barbabella
Non so quale tipo di inquinamento sia da considerare più grave, se quello ambientale o quello umano. So però che ciò che Viviani chiama supercomunicazione è la distorsione di un bisogno naturale, giacché l’uomo è un animale sociale in quanto comunica con i suoi simili e con il mondo. La società contemporanea ha potenziato al massimo grado questa condizione fino a fare della comunicazione l’identità stessa dell’epoca presente, al punto che la nostra viene appunto chiamata società della comunicazione.
Da qui l’idea che la comunicazione sia tutto e perciò debba avvenire in tutti i modi: parola, immagine, scrittura, e l’insieme di queste forme. Che cosa ci si guadagna? L’illusione di esserci, di fissare se stessi nell’eternità. Appunto un’illusione. Che cosa ci si perde? L’intimità, la ricchezza interiore, la capacità di meditare, la profondità del pensiero.
Viviani scrive poesie ed ama il linguaggio allusivo, simbolico, sfuggente, enigmatico. Naturale che sia così, se si vuole andare al di là di ciò che appare e cogliere ciò che dura oltre la nostra vita, fino al senso dell’eterno. Il silenzio e la riservatezza diventano virtù.
Dunque no all’esagerazione, che fa male a noi e agli altri. Non dimentichiamo però che le esagerazioni sono tali perché c’è una normalità fatta di cose belle e positive, che arricchiscono le persone singole e le loro relazioni sociali.