La proposta di Dante Freddi
Referendum costituzionale: conoscere per decidere
“E’ di fatto cominciata la campagna elettorale per il referendum costituzionale di ottobre. Come nel caso del referendum istituzionale del 2 giugno 1946 (repubblica-monarchia) gli Italiani si stanno schierando in modo sempre più netto e, come nel 1946, l’argomento più o meno esplicito è la paura: paura di un governo autoritario se passa la riforma; paura di un ritorno alla palude degli ultimi decenni se la Costituzione rimane com’è. Forse è bene informarsi e approfondire prima di decidere, anche se ciò può far aumentare la paura.”
(http://www.ilpost.it/2016/05/04/referendum-costituzionale/)
L’opinione di Pier Luigi Leoni
Non posso ricordare il clima del 1946, ma ricordo i racconti dei miei familiari e quel che ho letto nei libri e visto nei documentari. “O la Repubblica o il caos” era la minaccia dei repubblicani per rintuzzare la paura dei monarchici che con la repubblica sarebbero arrivati i comunisti. E purtroppo entrambe le minacce erano realistiche. Anche nel referendum del 1946 i due fronti erano variegati.
Propendevano per la repubblica non solo le sinistre, ma anche molti cattolici moderati nonché molti fascisti arrabbiati per il “tradimento” di Re Vittorio Emanuele III. Propendevano per la monarchia i settori moderati, ma anche dei convinti repubblicani timorosi che il successo della repubblica avrebbe dato slancio alla sinistra massimalista.
Ma gli Italiani, compreso il nuovo Re Umberto I, avevano poca voglia di caos, tanto che il chiacchieratissimo referendum fu preso per buono senza pesanti disordini e il nuovo Re se ne andò in esilio ad alcune migliaia di chilometri di distanza dal padre. Questo per dire che è il caso di informarsi e non farsi condizionare dalle minacciose prospettive che provengono da entrambe le parti.
L’opinione di Franco Raimondo Barbabella
Sinceramente, non mi convince questa interpretazione della formazione dei due campi contrapposti sul referendum costituzionale fondata sulla paura: da una parte paura del caos (se vincono i no) e dall’altra paura del governo autoritario (se vincono i si). In analogia con il referendum istituzionale del ’46: da una parte “O la Repubblica o il caos” (lo slogan di Nenni) e dall’altra “O la monarchia o il comunismo”.
Penso piuttosto che, più che di realtà, si tratti del desiderio di alcuni (in verità non pochi) che le cose vadano così. E sarebbe un bel guaio, perché si applicherebbe anche a questo appuntamento tanto rilevante per il futuro di tutti noi la logica grezza e suicida del tifo calcistico. Insomma, non si tratterebbe tanto di una pronuncia del popolo sovrano sulla bontà o meno della riforma renzian-boschiana della nostra Carta quanto piuttosto di un referendum pro o contro Renzi.
Chiunque poi vincesse questo similmilaninter alla fine ne trarrebbe vantaggi solo sul terreno della propaganda e i cittadini ne subirebbero solo le conseguenze, che è difficile dire se più positive o negative nell’uno o nell’altro caso. Perché, se vincesse il no come frutto di tutte le “culture contro”, ci si fermerebbe alla situazione attuale senza che nel frattempo sia stata fatta emergere (semplicemente perché la miriade di sigle lo impedisce) una proposta alternativa organica e realistica migliore di quella contestata. E perché, se vincesse il si e la riforma fosse confermata così com’è, nelle condizioni che si stanno creando emergerebbero con forza tutte le contraddizioni che essa ha in sé e che introduce in aggiunta nel sistema esistente senza che si sia pensato a programmare per tempo l’innesto del nuovo nel vecchio o la sua sostituzione mentre il treno è in corsa.
Con questo non sto dicendo che è meglio che vinca il no, perché in verità la riforma contiene anche aspetti sicuramente apprezzabili, oltre al messaggio generale che si può e si deve cambiare, un messaggio che, pur nella sua genericità, può aiutare la modernizzazione di un Paese per troppo tempo bloccato sia dai molti cultori del no a tutto, sia dal furbismo diffuso, sia e soprattutto da classi dirigenti troppo attente alla difesa dei privilegi, naturalmente a partire dai propri.
Allora, che cosa sarebbe auspicabile dal punto di vista del cittadino inerme ma ancora disposto a ragionare sulle cose da fare per migliorare il proprio Paese? Due cose essenzialmente, che si reggono insieme in quanto entrambe espressione di una cultura riformista di stampo democratico-liberale, così rara in Italia ma mai così essenziale come quando si discute di riforme essenziali. La prima: “spacchettare” il referendum per temi il più possibile omogenei in modo da dare la possibilità ai cittadini di pronunciarsi su questioni precise delle quali si può avere conoscenza fondata. La seconda: una campagna informativa sistematica nel merito dei diversi aspetti della riforma, cosicché la decisione del cittadino, di ogni cittadino, sia frutto di consapevolezza e non di partito preso, di coinvolgimento demagogico e tanto meno di bassa propaganda e di paura.
Si dice: ma nelle riforme costituzionali tutto si tiene, per cui, se modifichi un aspetto poi devi modificare tutto il resto. Bene, appunto, giusto così. Poiché nella riforma così com’è ci sono aspetti palesemente problematici, il voto per parti separate darebbe non solo la possibilità di un pronunciamento popolare più consapevole, risultando così anche un’occasione irripetibile di crescita democratica diffusa, ma consentirebbe poi anche di passare ad una nuova fase che potremmo definire di “razionalizzazione delle riforme”. E si potrebbe forse riconquistare quel livello culturalmente e politicamente elevato del processo riformatore che avrebbe potuto assicurare solo quell’Assemblea Costituente che l’inciucismo trasversale a suo tempo ha puntigliosamente evitato.
Da ultimo, una semplice domanda: perché ci dovrebbe essere impedito di pronunciarci su questioni specifiche come queste: è giusto o sbagliato abolire il CNEL?; è giusto o sbagliato abolire le province?; è giusto o sbagliato passare da un Senato di eletti ad un Senato di nominati?. È sensato “ridurre tutto ad uno”, costringere dentro un si o un no questioni così diverse e ciascuna così importante? Ripeto, riterrei lo “spacchettamento” una scelta intelligente perché in questo caso nessun soggetto potrebbe sottrarsi al dovere di portare argomenti razionali a sostegno della propria tesi, e tutti i cittadini almeno in teoria potrebbero esprimere la propria scelta con consapevole responsabilità.
Questo modo di ragionare mi impedisce dunque ad oggi di prendere partito per il si o per il no: sarebbe un prendere partito pregiudizialmente. Certo, se dovessi stare all’avvio della campagna referendaria da parte del governo e della maggioranza, la tentazione di schierarmi subito per il no sarebbe forte, ma sarebbe ancora più forte la tentazione di schierarmi senza tentennamenti per il si se dovessi stare alle posizioni dei professionisti del no o di certi magistrati, come quella espressa dal consigliere del Csm Piergiorgio Morosini in un’intervista al Foglio di qualche giorno fa presentata come “Fermare Renzi” con il no al referendum perché ci sarebbe il pericolo di una democrazia autoritaria. Perciò, lo ripeto, niente schieramenti pregiudiziali. È necessario invece generare attività che ci consentano di entrare nel merito dei diversi aspetti della riforma, ciò che cercheremo di fare anche come Comunità in Movimento, con ciò ponendoci espressamente e orgogliosamente sul terreno di una politica che non rinuncia alla nobiltà di conoscere e pensare prima di parlare e decidere, e anche dopo aver parlato e deciso, se del caso rivedendo anche le posizioni già espresse.
Lo so che, rovesciando il pensiero hegeliano, è prudente affermare che “tutto ciò che è razionale non è necessariamente reale” e che “tutto ciò che è reale non è necessariamente razionale”, ma che volete farci?, abbiamo questo viziaccio di farci domande e di cercare risposte che attingano acqua al pozzo della ragione. Per questo ci prendiamo ancora la libertà di ragionare e di farlo ad alta voce.
La proposta di Leoni a Barbabella
Il rapporto del Centro Studi Città di Orvieto con le università americane: un ripiego o una risorsa da sviluppare?
“La crisi della Fondazione Centro Studi Città di Orvieto, nata per la promozione di una università orvietana che varie circostanze, a cominciare dalla evoluzione della legislazione nazionale, hanno bloccato, sembra in via di superamento. E ciò grazie alla tenacia di alcuni amministratori comunali, al generoso impegno degli attuali amministratori, ma anche alla risorsa mai venuta meno dei rapporti con le università americane. La presenza degli studenti americani a Orvieto e il loro lavoro accademico dedicato alla nostra città sono fenomeni di limitata rilevanza o possono consolidare fruttuosi rapporti internazionali?”
(http://orvietosi.it/2016/05/ecco-la-nuova-orvieto-secondo-gli-occhi-degli-studenti-della-kansas-state-university/)
L’opinione di Barbabella
Con Pier Luigi Leoni, Vittoriano Calistroni ed altri, nominati dal sindaco Toni Concina in un comitato misto di esperti e di consiglieri comunali con il compito di verificare se e a quali condizioni fosse possibile salvare e rilanciare il CSCO, qualche anno fa in estate lavorammo intensamente per alcune settimane e alla fine dimostrammo che non solo era possibile ma era anche necessario per il futuro del nostro territorio ottenere quel risultato. Di fatto rovesciammo un orientamento molto diffuso che voleva morta e sepolta quell’esperienza: c’era di mezzo la consueta lotta politica all’orvietana (in realtà manco tanto solo orvietana) per cui ciò che ha fatto uno deve essere distrutto da un altro, ovviamente senza entrare nel merito. Io stesso fui nominato in quel comitato con forti “opposizioni amiche” alle quali Toni Concina seppe resistere.
Allora, se il CSCO esiste e va è anche merito di quel momento di coraggio che mise da parte il politichese e seppe imporre l’interesse generale della città. Al quesito che mi pone ora Pier Luigi rispondo dunque che si, il rapporto con le università americane è una importante risorsa, che mi auguro venga implementata con decisione e lungimiranza. Non saprei dire fin dove può spingersi, ma è sicuramente un’opportunità da utilizzare senza risparmio di energie e di iniziative appropriate.
Tuttavia va ricordato che le potenzialità del Centro Studi vanno ben al di là del rapporto con le università americane e si legano ovviamente alla volontà e alla capacità di utilizzare le potenzialità generali di Orvieto, di cui ho detto tante volte e che quindi non sto qui di nuovo a elencare. Noi stessi le indicammo nel nostro documento per il rilancio del CSCO. Quelle potenzialità restano uno degli assi strategici più importanti della città, parte rilevante della sua politica se vuole avere il senso di se stessa. Ecco, questa politica, come ho detto altre volte, ancora non la vedo. Non vorrei che ci si illudesse che il CSCO ormai c’è e va da sé, e in sostanza che basti la sopravvivenza.