La proposta di Dante Freddi
Praticamente fallita l’operazione di sensibilizzazione degli operatori sulla gestione del Palazzo del popolo, meglio tornare al Cinema Palazzo?
Vi propongo queste righe, legate al palazzo dei congressi, ma che vanno ben oltre lo specifico argomento: “Tutti si sono soffermati nel ribadire che questo àmbito turistico ha l’assoluta necessità di una cooperazione tra pubblico e privato, che devono sentirsi ugualmente coinvolti nel Convention Bureau e nello sforzo per offrire il meglio della città e dell’organizzazione, dalla logistica ai servizi all’ambiente. A questo punto dell’incontro sarebbe stato interessante ascoltare le domande degli interessati al business, albergatori, ristoratori, commercianti ( ai commercianti tocca il 15% del volume di spesa congressuale e agli albergatori il 47%). Ma non c’era nessuno, tranne un paio di albergatori, Promiting e altre sei o sette curiosi, compreso Pelliccia, Mencarelli e me.” (http://orvietosi.it/2016/04/tavolo-del-turismo-sul-palazzo-dei-congressi-che-potrebbe-essere-il-nuovo-cinema-palazzo/)
L’opinione di Franco Raimondo Barbabella
D’ora in avanti, se sento qualcuno che dice di voler emigrare per incompatibilità ambientale, facendo intendere che da altre parti le cose vanno meglio che qui, giuro che lo prendo a calci. Ma dove troverà mai un luogo in cui si invitano fior di “esperti” che ti spiegano con puntuta competenza che le attività convegnistiche continuano ad esistere e coinvolgono un sacco di gente, che però vengono preferite location in ambienti urbani che funzionano, e addirittura che ci deve essere un Convention Bureau per organizzare la promozione! Già, dove lo troverà mai? Dice: ma è roba che ripetono da decenni tutti gli “esperti” che gli amministratori periodicamente invitano per farsi spiegare e per spiegarci quello che già sappiamo! E dai, ma non lo sai che repetita iuvant? Dice: ma non iuvant un bel niente se si va avanti a spiegazioni che non si traducono mai in azioni! Iuvant, iuvant, basta riflettere.
E allora riflettiamo. L’articolo di Dante Freddi è oggettivamente importante: in un colpo solo disvela lo stato reale della città e il clima culturale che ne è a fondamento. Lo stato reale è quello di una città che ha potenzialità notevoli, che però non riesce a utilizzare con lungimiranza traendone i possibili e naturali vantaggi. Il clima culturale è quello della rinuncia a farsi domande, a cercare spiegazioni e a darsi prospettive. Esaminiamo i due punti.
La città, nonostante il titanico sforzo di risanamento di Gnagnarini, non riesce a entrare in una fase di dinamismo e di fiducia, di organizzazione moderna e di investimenti significativi, con miglioramento della fiscalità da produzione. Naturalmente c’è da chiedersi: c’è una via facile per tradurre le potenzialità in azioni e le azioni in risultati? Risposta facile: certo che no! Ma almeno ci si vuol chiedere perché (perché = logiche attuali e cause profonde) fallisce il bando per la gestione del Palazzo del popolo come location congressuale?( la scadenza del bando è il 3 maggio ndr) Siamo sicuri che è colpa degli operatori, locali e non, troppo distratti, paurosi e miopi? Non è che magari mancano proprio quelle caratteristiche di contesto, anche qui citate, che possono convincere qualcuno o più di uno che un investimento in quella struttura potrebbe essere conveniente oggi e domani, o anche oggi per domani? Ah, se si ammettesse per una volta che una sede congressuale richiede una politica congressuale e che questa richiede una politica turistica, che a sua volta richiede un’idea di città, che è inserita in una visione territoriale che spazia e spazia e spazia, e che proprio perché spazia dà speranza e fiducia, e per questo (certo, non solo per questo) attrae gente che si dispone a rischiare, investe e poi opera, partecipando ad un progetto generale che il potere pubblico garantisce e sostiene! Per una volta, che diamine!
Il clima diffuso è pesante, si respira sfiducia e rinuncia. C’è da chiedersi: c’è una via facile per rovesciare un clima culturale consolidatosi in decenni di battaglie a perdere? Un clima da lotta al pensiero che osa pensare, di omologazione tera-tera in cui ognuno che passa si sente in dovere di spararla più grossa di chi l’ha già sparata grossa. Un clima di rinuncia, che accetta le sconfitte come se fossero frutto del destino cinico e baro o dei brutti e cattivi di turno. Risposta facile: certo che no! Ma anche su questo facciamoci almeno una domanda: quando è cominciata la svolta, perché è cominciata, e con quali conseguenze? Sì, perché non è stato sempre così: in un certo periodo la speranza c’era eccome! Non dice niente il fatto che è ormai da un quarto di secolo che si evita di farsi quella domanda? E non dice niente il fatto che da un decennio a questa parte quelle che erano impostate come opportunità siano state progressivamente trasformate in pesi di cui liberarsi purchessia? Di più: non significa niente che non si tratta di accadimenti casuali o dimenticanze, ma di scelte coscienti, una specie di rimozione collettiva a guida sicura, come anche dimostrano iniziative di stretta attualità? Si pensa davvero che tutto questo possa non avere peso nei comportamenti delle persone? Anche perché non tutti sono disposti a bere le bugie come oro colato.
Il vezzo provinciale di atteggiarsi a moderni mediante un’ipocrita e prepotente rimozione delle cause profonde dei problemi di oggi impedisce, che lo si ammetta o no, di elaborare strategie efficaci proprio per i problemi di oggi. Coloro che a suo tempo combatterono contro la politica come visione e progetto (ricordate il refrain “piccolo è bello”?) possono gloriarsi di aver vinto, ma non possono ancora impedirci di pensare e di dire la nostra, e stiano sicuri che la diremo con assoluta serenità ma anche con grande chiarezza. Cominciamo da qui e da alcune affermazioni di base. Il falso realismo delle soluzioni spicce, che è stato imposto ieri con ruvida e miope brutalità, costringe oggi i più a tenere lo sguardo fisso sul dito e a non vedere nemmeno uno spicchio di luna. Così, stato reale della città e clima culturale sono diventate facce della stessa medaglia. Così, classe dirigente e corpo molle si confondono. Conseguenza: il passato coscientemente rimosso nasconde nel presente una realtà altrimenti squadernata davanti agli occhi liberi. Dunque, perché meravigliarsi se fallisce un bando, e proprio quel bando?
Una città e un territorio che, al di là di ogni finzione, nella sostanza consentono che si possa dare veste istituzionale alla rimozione della verità e alle diverse forme di estremismo, negano spazio alla ricerca razionale e alle visioni progettuali, e di conseguenza necessariamente alimentano la lotta per l’egemonia (parola che, come dice un caro amico, conserva ancora oggi la sua forza euristica) quasi esclusivamente sul terreno del no, quale futuro possono avere? Se dura così, forse solo quello della protesta di facciata e però della sostanziale dipendenza dalle decisioni altrui. Pensate davvero che sia qui che altrove nessuno se ne sia accorto? Pensate davvero che gli operatori economici se la sentano di rischiare in una situazione come questa? Allora, non resta che farci gli auguri? Forse no, se si sarà in grado di reagire al clima attuale. Ma bisognerà fare alla svelta, usare la testa con lo sguardo lungo, avere coraggio e mettere in cima il bene comune. Perciò gli auguri sarà comunque opportuno farceli.
L’opinione di Pier Luigi Leoni
Le piccole città si devono liberare dal provincialismo, cioè dalla chiusura della mente a ciò che avviene nel mondo. Cioè devono combattere la presunzione di conoscere tutte le ricette per la soluzione di tutti i problemi. La gestione del Palazzo dei Congressi costituisce un problema? La soluzione di moda dell’impresa pubblico-privata è andata a carte quarantotto? Perché si insiste? Perché si scomodano degli esperti che non rischiano niente a dire la loro? Non è più logico andare alla ricerca soggetti che hanno realizzato gestioni di successo rischiando in proprio e metterli in gara? Il mondo è grande, basta cercare con un po’ di umiltà. E forse si scoprirebbe che il problema non è solo quello della gestione del Palazzo dei Congressi, ma di tutti i beni culturali che Orvieto possiede in abbondanza.
La proposta di Barbabella a Leoni
Ma, al confronto con gli altri dell’Eurozona, è proprio vero che l’Italia è il Paese dei corrotti e degli evasori?
“L’illegalità come elemento di antropologia culturale è la tesi di Galli della Loggia: gli italiani sono un popolo di immorali trasgressori, corrotti e corruttori irredimibili.
Una tesi che ha radici ben solide nell’immaginario come dimostra l’“Indice della percezione della corruzione”, elaborato dal Transparency International, che ci viene annualmente propinato per convincerci che siamo il popolo più corrotto del mondo. …
Tuttavia si parla di percezione della corruzione, rilevata con interviste che chiedono valutare il grado di corruzione della nazione. È un meccanismo che si auto-alimenta: prima ti convinco che sei il più corrotto dei popoli, poi ti intervisto e – sorpresa! – l’intervistato conferma che siamo il più corrotto dei popoli.
Ultimamente, però, il caso Volkswagen, le manipolazioni e falsificazioni di Deutsche Bank (sul prezzo dell’oro, sulle valute e sul bilancio), gli scandali della Siemens, (accusata di maxi corruzioni in ben 20 Paesi) hanno un po’ fatto traballare il mito dell’Italiano mafioso e corrotto e del Tedesco biondo e dalla moralità integerrima. Sarebbe importante verificare, più che le percezioni, i dati reali sul grado di corruzione comparando i diversi Paesi europei. Ma questi dati non esistono, se tralasciamo la “bufala” dei 60 miliardi (la metà della corruzione di tutta la U.E.!) diffusa dalla stessa Commissione Europea nel 2014.
Esistono però i dati sull’evasione fiscale, altro mantra dell’autorazzismo italiano. Cosa ci dicono? Che non siamo così tanto più evasori degli altri. A fronte di un PIL che vale il 12% di quello dell’Eurozona (dati Eurostat), abbiamo una evasione che vale il 12% di quella dell’Eurozona se prendiamo i dati di Confindustria 2015 o del 18% se prendiamo i dati di Tax Research di Londra. …
Insomma, la narrazione dell’enormità della corruzione e dell’evasione fiscale italiane è più mito che realtà ma, riproposta in continuazione dai media, riesce a influenzare negativamente l’opinione degli Italiani su loro stesi, fino convincerli della loro inferiorità culturale, morale e persino antropologica rispetto agli altri popoli.
A che fine? Scalfari l’ha detto chiaramente nei suoi editoriali: siccome siamo corrotti, evasori, spendaccioni, incapaci di governarci è bene che la Troika venga a mettere ordine nei nostri conti, nella nostra politica e nella nostra moralità, riavvicinandoci alla “durezza del vivere” (Padoa-Schioppa), visto che la ricchezza che ci ritroviamo non ce la meritiamo.
Questi influencer, che non sanno cosa farsene delle libertà costituzionali e del tenore di vita che i nostri padri, con il loro lavoro e il loro sacrificio, ci hanno lasciato, ardiscono ad essere colonizzati e depredati dai Paesi che controllano la Troika. Ma di loro si occuperà, a suo tempo, la storia.”
(Mauro Magistri, Blasting News, 26 aprile 2016)
Le nazioni, come gli individui, hanno una immagine di sé (gli psicologi la chiamano autoimmagine) che si scosta sia dalla realtà come la vedono gli altri, sia dalla realtà vera e propria. Né l’opinione moralistica di Galli della Loggia, né quella calvinista di Scalfari, né quella da avvocato d’ufficio di Magistri colgono, secondo me, l’autoimmagine degli Italiani. La penso come Erasmo da Rotterdam, che cito più sotto nella mia traduzione dal latino. Gli Italiani non ignorano i propri vizi, ma si ritengono ciò nonostante superiori agli altri popoli. Esattamente come ogni popolo. E questo è il motivo per cui, bene o male, nonostante la loro folle storia, se la cavano.
Mi rendo conto che la natura, come ha infuso un amor proprio particolare nei singoli individui, ne ha instillato uno comune a tutti i cittadini di ciascuna nazione, e addirittura, di una stessa città. Di qui la pretesa degli Inglesi di primeggiare, oltre che nel resto, sul piano della bellezza, della musica, delle laute mense; gli Scozzesi vantano nobiltà, parentele regali, nonché dialettiche sottigliezze; i Francesi rivendicano la raffinatezza dei costumi; i Parigini pretendono la palma della scienza teologica vantandone un possesso quasi esclusivo; gli Italiani affermano la loro superiorità nelle lettere e nell’eloquenza. Tutti si cullano nella piacevole convinzione di essere i soli non barbari fra i mortali. Primi, in questo genere di felicità, sono i Romani, ancora immersi nei bellissimi sogni dell’antica Roma; quanto ai Veneti, si beano del prestigio della loro nobiltà. I Greci, quali inventori delle arti, si vantano delle antiche glorie dei loro famosi eroi; i Turchi, e tutta quella massa di autentici barbari, pretendono il primato anche in fatto di religione e quindi deridono i cristiani come superstiziosi. Molto più gustoso è il caso degli Ebrei che aspettano sempre incrollabili il proprio Messia. gli Spagnoli non la cedono a nessuno in fatto di gloria militare; i Tedeschi si compiacciono dell’alta statura e della conoscenza della magia.