La proposta di Dante Freddi
Secondo voi le frustate di Gnagnarini agli imprenditori orvietani sono giustificate?
“Ora la percentuale di reinvestimento di questi flussi economici per l’innovazione, l’adeguamento e la promozione delle aziende singole e più in generale del sistema Orvieto da parte dei nostri operatori economici ( albergatori, ristoratori e commercianti ) è stata finora, con l’eccezione di qualche eccellenza, in media francamente deludente. Nel contempo in città sono cresciuti i depositi bancari e le intermediazioni immobiliari. Questo non è affatto salutare né per l’economia della città né per il portafogli dei privati”.
(http://orvietosi.it/2016/05/gnagnarini-agli-imprenditori-turistici-devono-ricominciare-a-scommettere-sulla-propria-attivita/)
L’opinione di Franco Raimondo Barbabella
Massimo Gnagnarini nel tempo sembra voler interpretare, seppure dentro la tradizione demomoderata, gli spiriti animali della politica e accentuare (magari involontariamente) la tendenza a dare lezioni. Così, da quando è assessore, è già salito in cattedra almeno tre volte, e pensare che a suo tempo rimproverava a me il tono professorale! La prima nel 2014, all’atto delle dichiarazioni sul bilancio, quando ha detto che i soldi delle leggi speciali furono una spesa improduttiva e non un investimento, di fatto riprendendo la vecchia posizione di alcuni dirigenti PCI nazionali (Luciano Barca) e umbri (Claudio Carnieri) di fine anni settanta, per i quali i finanziamenti pubblici facevano correre il rischio di meridionalizzare la società, tanto che Luciano Barca fu tra i più contrari alla nostra legge speciale. La seconda recentemente, quando, in occasione del consuntivo 2015, ha detto che il bilancio 2016 era il migliore di sempre e si erano create le condizioni per uscire dal predissesto con sette anni di anticipo, intestandosi così un risanamento dato già per avvenuto. La terza ora, con le bacchettate agli imprenditori.
Alla prima, che, devo dirlo, è una vera scemenza [Vóce del sén fuggita/ Pòi richiamàr non vale (Metastasio, Ipermestra, atto II, sc. 1)] ho risposto a suo tempo e non mi ripeto. Mi sia consentito dire comunque che oggi non mi pare che si rifiutino i finanziamenti pubblici (peraltro piovuti addosso e non certo conquistati con iniziative progettuali e battaglie culturali e istituzionali). Sulla seconda dico solo che il nostro amico dovrebbe innanzitutto informarsi bene sul passato prima di spararle grosse (io prima di essere sindaco sono stato assessore al bilancio e, tanto per essere chiari, il bilancio di allora l’ho lasciato sano come un pesce), e poi non essere così netto e indulgente nel giudicare se stesso, anche perché non è una gran cosa né aumentare le entrate con le tariffe per i servizi a domanda individuale e gli incassi a carico dei turisti né usare l’artificio di trasformare, per quattro milioni di euro, un termine breve di rientro in un termine trentennale a partire dal 2019. Si può dire anche, senza offendere, che il bilancio come abile operazione contabile è comunque atto di pura conservazione rinunciataria se non inserito all’interno di una ambiziosa progettualità finalizzata a movimentare le condizioni esistenti sia sul piano economico che su quello della cultura praticata? Sulla terza, quella che ci interessa qui, la valutazione deve essere invece necessariamente più articolata, anche se si lega sia all’una che all’altra se non altro per l’impostazione che vi è sottesa.
Che ci siano problemi strutturali che rendono debole il sistema economico orvietano e che, anzi, non lo rendono affatto un sistema, tanto meno un sistema moderno, anche a causa di una mentalità arretrata diffusa e di comportamenti improntati spesso ad un miope conservatorismo, credo che non vi possano essere dubbi. Ma questo non giustifica un atteggiamento predicatorio da parte di chi ha responsabilità di governo. A fronte dell’immagine di chi vuole operare finalmente una svolta dopo anni di logica del galleggiamento e della noncuranza mi sarei infatti aspettato che più prima che poi fosse stata fatta un’analisi seria delle cause profonde delle debolezze del sistema e delineata almeno una bozza di strategia, oltre che di breve, soprattutto di medio-lungo periodo, dunque proiettata un po’ più in là, più concreta e più ambiziosa, dei consueti annunci.
Gnagnarini invece si limita a dire genericamente agli imprenditori del turismo: non vi dovete più aspettare il sostegno dei fondi pubblici perché non ci sono, dunque invece di tenere i soldi in banca tirateli fuori e investite. Ma gli imprenditori lo sanno benissimo, e chi degli orvietani poteva farlo, in particolare appunto nel settore turistico e commerciale, lo ha fatto, anzitutto per sopravvivere. Altri che ci provano, l’assessore lo sa che straccio di problemi incontrano? Certo, essendo la città appetibile, se non si muovono gli orvietani magari si muoveranno altri. E l’assessore dà per probabile che altri, da fuori, vengano a farla da padroni. Ma come, probabile? Non sta forse già accadendo?
Chiedo: se si vogliono fare sane sollecitazioni di coraggio agli imprenditori, e a tutti dare una generosa dose di fiducia, non sarebbe il caso intanto di smettendola con la rincorsa a dire no e passare a delineare scenari un po’ più ambiziosi, organici, lungimiranti? Non sarebbe il caso di dire quali sono le priorità di investimento, snellire le procedure, mettere ordine nell’arredo e nell’accoglienza, stabilire un sistema di incentivi, dire che cosa ci si vuol fare con la ex Piave e l’ex Ospedale, ecc. ecc?
Chiedo anche: con il consolidarsi nel tempo della ritrosia ad investire, oltre ad una difficoltà finanziaria endemica aggravata dalla crisi generale degli ultimi anni, c’entrano qualcosa le vicende politiche da qualche decennio ad oggi e i comportamenti di una parte delle classi dirigenti? Se il messaggio che proviene dal potere pubblico è scoraggiante, se in pochi anni si lasciano svaporare o si smantellano scientemente faticose costruzioni di progetti e strumenti per lo sviluppo, se si lascia che si impoverisca il ruolo istituzionale della città, con quale autorità si possono poi tirare le orecchie agli imprenditori o a chiunque altro? Gli imprenditori hanno le loro responsabilità ed è bene che se le assumano, perché hanno a disposizione una città per il cui risanamento e buon funzionamento sono stati impiegati, correttamente, ingenti fondi pubblici (conquistati e produttivi, caro Massimo, non regalati e non pura spesa), ma chi governa deve essere il primo soggetto ad esercitare fino in fondo i propri compiti. Tra questi di sicuro non c’è quello di fare le prediche.
L’opinione di Pier Luigi Leoni
Il mio amico Massimo Gnagnarini ha messo il dito nella piaga. Ha sbattuto la verità in faccia agli Orvietani. Ma gli Orvietani non si offenderanno, perché sono affezionati ai loro difetti. Così come non si offesero quando, in un paio di miei libri, cercai di spiegare perché esiste la piaga. Mi autocito.
«L’esperienza conferma ciò che il senso comune ha dato per scontato e ciò che gli studiosi stanno tentando di dimostrare sperimentalmente: la città, come ogni sistema sociale, ha una mente collettiva e possiede una coscienza collettiva. Gli individui, come cellule di un organismo, sono influenzati dal modello mentale collettivo e, nello stesso tempo, lo plasmano. Gli esseri umani, come cellule di un organismo, nascono crescono muoiono, hanno la loro vita, la loro mente, la loro coscienza, il loro destino individuale. Ma sono determinati dai sistemi sociali di cui fanno parte e nel contempo contribuiscono a determinarli. Se poi i sistemi sociali vengono concepiti come sistemi ecologici, dove esseri viventi e materia non vivente risultano organicamente strutturati, ecco che si decolla verso i cieli sconfinati dove scienza, filosofia e religione si attraggono a si respingono in una lotta perenne tra contendenti che hanno il comune scopo di lacerare il velo del Mistero.
In questo quadro appare illuminante e sensata, ancorché inquietante, l’ipotesi che i sistemi sociali siano dotati di un libero arbitrio. Cioè non funzionino secondo catene lineari di causa ed effetto, ma godano di una loro autonomia, di una libertà di scelta orientata ma non predeterminata da una sorta di codice genetico, condizionata ma non soffocata dalle esperienze di vita vissuta, limitata ma non repressa da mille influenze ambientali.»
La proposta di Barbabella a Leoni
L’uso strumentale della storia per darsi spessore diventa un boomerang. Allora, ha senso?
“Ci manca solo il riferimento alle guerre puniche per fare delle dispute elettorali di questi giorni un utile e completo ripasso di storia a giovamento degli studenti che preparano la maturità. Per il resto, l’offerta politico-storiografica passatista appare ben assortita. Nell’epoca della rottamazione non si affievolisce il richiamo del passato, un eccesso di ripiegamento storico, un tornare indietro con la mente e con le parole per darsi nobiltà antica, oppure scagliare contro l’avversario l’anatema di matrice storica.
È diventata una mania. Si polemizza sui partigiani, veri, falsi, sedicenti e autentici per dare una parvenza di profondità secolare alle discussioni sul referendum costituzionale del prossimo ottobre (ottobre: ancora cinque mesi circa). I nipoti dei partigiani veri, che oramai hanno occupato al 96 per cento l’Anpi pur non avendo combattuto sulle montagne contro i fascisti, scomunicano la riforma costituzionale come un attacco alle fondamenta repubblicane e antifasciste. Ma Matteo Renzi e i renziani corrono ai ripari. Esaurita la smania nuovista e postmoderna sentono come il mordere dell’«horror vacui», la percezione di chi rischia di apparire senza radici, nato dal nulla, senza esperienza, senza aver respirato la nostra storia. E allora parte la corsa alla riappropriazione un po’ goffa del passato.
Si tolgono dall’armadio i ritratti impolverati dei grandi dirigenti comunisti del passato per affermare che senza dubbio avrebbero votato a favore della riforma di Renzi. …
Del resto, il fronte del No non se ne sta certo ad attendere passivamente la bordata di citazioni dello schieramento avversario e cita, ma questa non è una novità tra chi sente la Costituzione come un dogma religioso da difendere con intransigenza, Giuseppe Dossetti, il cui spirito è tutt’uno con l’afflato della Costituzione. …
Non c’è tempo da perdere, invece, per i candidati che si stanno impegnando nella tornata delle elezioni amministrative del prossimo 5 giugno (più il ballottaggio). Ha cominciato il candidato a Roma Alfio Marchini, che peraltro vanta in famiglia certificate ascendenze partigiane e si è pure già pre schierato per il No al referendum costituzionale, a spiegare che il nonno, rosso di cuore e di bandiera, tuttavia considerava Mussolini come un grande urbanista del Novecento e l’architettura di epoca fascista come un gioiello da preservare. Poi Giorgia Meloni, sentendosi esclusa dalla querelle politico-architettonica, ha introdotto nella campagna elettorale romana l’urgente tema dell’intestazione di una via a Giorgio Almirante …”
La Prima guerra mondiale, per il momento, resta fuori dalla polemica. Ma chissà.
(Pierluigi Battista, Ma Togliatti, alla fine, vota Sì oppure No?, Corriere della sera 26.5.16)
L’opinione di Leoni
Gli esseri umani hanno cominciato piuttosto tardi a occuparsi della storia con metodo scientifico, vale a dire cercando di ricostruire le vicende dell’umanità basandosi su ogni genere di documento utile. La storia ha soppiantato il mito, ma la nostalgia del mito è rimasta. Perché il mito toglie all’uomo la fame di verità, essendo più vero della storia: non narra fatti accaduti (forse) una volta, ma fatti che accadono ogni giorno. Per questo, pur essendo diventati fedeli del metodo scientifico, facciamo a gara a mitizzare la storia.
La guerra civile italiana del 1943-45 ha scaldato gli animi col tragico spettacolo del sangue fraterno e tale calore arriva fino a noi. Ecco allora il mito della resistenza, anzi i due miti della resistenza: quello, ufficializzato dai vincitori, dell’eroe che combatte per la libertà e quello, tenacemente accarezzato dagli sconfitti, della camicia nera fedele al giuramento.
Per questo, in un momento delicato per la stabilità politica, il contenuto della riforma costituzionale, nonostante gli sforzi dei giuristi per portare il dibattito al loro livello troppo alto per i comuni cittadini, passa in secondo piano. E riaffiorano i miti. Anche a Roma e Milano il momento è delicato, col rischio che il centrodestra si consolidi nella regione più ricca d’Italia e che un movimento inventato da un comico e da un informatico visionario dia scacco a tutti i partiti tradizionali. In questa grande baraonda la tentazione di ricorrere ai miti spacciandoli per storia è troppo forte. Così la battuta “fascisti de core” di Alfio Marchini, che è una bonaria presa per il culo da parte del nipote di un partigiano comunista, può passare per un tradimento del mito ufficiale della resistenza.