ORVIETO – Si è chiuso ieri al tribunale di Terni l’incidente probatorio sul caso della bambina morta ancora prima di vedere la luce all’ospedale Santa Maria della Stella di Orvieto a settembre dello scorso anno.
Il perito, dottor Luigi Carlini, nominato dal giudice per le indagini preliminari del tribunale di Terni, la dottoressa Simona Tordelli, ha esposto i risultati della perizia eseguita sulla cartella clinica della madre per accertare – come richiesto dal pubblico ministero Raffaele Iannella – l’eventuale responsabilità dell’unico indagato, una dottoressa del reparto di ostetricia e ginecologia dell’ospedale di Orvieto. Ma il numero potrebbe anche aumentare. Non non si escludono infatti responsabilità anche da parte del personale paramedico.
A conclusione del lavoro, il perito avrebbe chiaramente fatto intendere che il decesso della piccola e l’asportazione del rene alla madre, siano state imputabili a una totale disorganizzazione interna del reparto e della struttura in quanto non vi sarebbe stato alcun coordinamento tra personale paramedico e il medico di turno. Inoltre, sempre secondo la perizia, la donna sarebbe stata lasciata per nove ore senza monitoraggio né per lei né per il feto (ne sarebbero stati eseguiti solo due: alle 20.23 e alle 05.07).
Sarebbero state proprio queste gravi lacune ad aver determinato la morte della piccola mentre, all’origine, la sospetta colica della donna sarebbe potuta essere giustificabile dal punto di vista clinico. “In relazione all’omessa diagnosi di colica renale – commenta il legale difensore della famiglia l’avvocato Angelo Di Silvio – non ci sono chiari elementi di responsabilità penale per la ginecologa indagata tuttavia il comportamento dell’intera struttura è da ritenersi totalmente disorganizzato e quindi esistono netti profili di responsabilità civile che giustificano un adeguato e motivato risarcimento del danno sia in merito alla morte della bambina che all’esportazione del rene subita dalla madre”. Ed è di oltre un milione di euro il risarcimento chiesto dai genitori. Un ulteriore elemento emerso durante l’incidente probatorio constaterebbe l’inceppamento della macchina per il monitoraggio del feto avvenuto per due volte così da non rendere constatabile la sofferenza fetale.
“Una situazione di totale sbaraglio” l’ha definita l’avvocato Di Silvio che ha già avviato l’iter civilistico contro la Ausl annunciando anche la deposizione di una memoria alla Procura a cui ora è passata nuovamente la palla.
Al termine dell’incidente probatorio di ieri tutto il fascicolo è infatti tornato nelle mani del pubblico ministero il quale trarrà le conseguenze e si esprimerà sulla richiesta di rinvio a giudizio o sull’archiviazione. Ci sono sei mesi di tempo per decidere.
Per ricordare i fatti, l’ 8 settembre 2015 la giovane madre a poche ore dal taglio cesareo programmato, accusò dei forti dolori all’addome. In ospedale le vennero somministrati degli antidolorifici senza – stando alla tesi dell’accusa – effettuare degli accertamenti specifici sulla natura dei dolori. Purtroppo durante la notte la situazione peggiorò tanto da indurre i medici a un taglio cesareo d’urgenza, ma ormai era troppo tardi per la piccola. Probabilmente, come riassunto dalla difesa dei genitori, una forte emorragia avrebbe provocato l’abbassamento del valore dell’emoglobina causando una mancata ossigenazione e quindi la morte del feto.
A provocare l’emorragia, stando a quanto ipotizzato dall’accusa, sarebbe stato un malfunzionamento del rene della madre, forse non valutato in modo adeguato al momento del ricovero, tanto che la donna ne ha subito l’asportazione. (Sara Simonetti)