di Mario Tiberi
Tra le attività introspettive del genere umano, al quale mi sento di appartenere a tutto tondo, può forse rientrare a pieno titolo quello che mi è venuto di definire “il minuto filosofico giornaliero”, nel quale trovo fertile giovamento per il mio Spirito al pari della Preghiera e, del quale, espongo qui di seguito le risultanze relative alla trascorsa settimana.
Alberto Moravia, durante tutto il corso della sua attività letteraria, a più riprese ha affrontato il tema dell’indifferenza incentrandolo sull’angolo di osservazione del metodo dubitativo e, quindi, elevando ad aporia dialettica la constatazione secondo cui gli italiani, o perlomeno la maggioranza di essi, sarebbero un popolo di indifferenti.
Buona parte degli italiani sarebbe allora insensibile o non interessata ai contemporanei fenomeni sociali, economici e politici? E ai quali risponderebbe con la “forma mentis” del disincanto, della noncuranza, del qualunquismo “menefreghista”? O forse, rassegnati, si cullano dondolati da un torpore morale e culturale il cui destino finale è l’apatico appiattimento delle coscienze e della capacità di provare sentimenti profondi?
Se una entità ha lo stesso valore di un’altra e di un’altra ancora, e così via all’infinito, niente ha più valore. Nulla di più banale, ma nulla di più vero!
D’altronde il padre del nichilismo, a cui corrisponde uno “status” di assoluta indifferenza per ciò che circonda l’esistente, è venuto a mancare all’inizio del Novecento e, dunque, non vi è da stupirsi se il ventesimo secolo sia stato caratterizzato proprio da quest’ultima condizione, tanto individuale che collettiva, così come era stato ipotizzato con lungimiranza dallo stesso Nietzsche. Né l’inizio del terzo millennio sembra offrire migliori e più rassicuranti prospettive. Anzi, tutt’altro!
Viene da chiedersi allora se codesta disincantata visione, questo non coinvolgimento, dipendano da una strutturale incapacità connaturata all’essere umano o, non piuttosto, sia semplicemente il frutto di una momentanea paura o di un persistente timore. Comunque sia, paura o timore di interrogarsi e/o di esprimere l’autenticità e l’unicità che sono in ognuno di noi.
Come è stato spesso sottolineato, viviamo nell’epoca delle sensazioni e non dei sentimenti, delle emozioni forti ed estreme e non della quiete, della tranquillità e della serenità esistenziale. Siamo più desiderosi di stordirci e distrarci con qualunque effimerità che ci distolga dalla vera, pur dura, realtà e dall’impegno che essa comporta. Il mondo virtuale lo abbiamo forse abusivamente trasferito nella nostra concreta quotidianità?
Il suggerimento, che mi sembra di poter esternare, è quello di non essere indifferenti agli indifferenti, di non essere intolleranti verso di loro o, peggio, di non considerarli affatto. Vanno, al contrario, affascinati, stimolati, interessati.
Ciò, però, non può significare semplicemente che gli indifferenti vadano lusingati con sinuose seduzioni prive di contenuto, ovvero non supportate da ragioni che possano risultare ricche di ampie e obiettive validità. Non si tratta di “persuadere” l’altro per il raggiungimento di corporativi interessi personalistici ma, all’opposto, di “convincere” il potenziale interlocutore della fondatezza delle proprie idee tramite argomentazioni plausibili e possibilmente inoppugnabili.
E’ con l’arte della sofistica, definita da Aristotele “la sapienza apparente ma non reale”, che si incantano e indottrinano le masse, oscurando così una dialettica basata sulla logica razionale.
Gli indifferenti non vanno persuasi per imporre loro, subdolamente, il proprio personale punto di vista, ma vanno spronati a ritrovare in loro stessi l’interesse, la curiosità e la molla che li spinga a costruire rapporti sociali tali da essere efficaci ad affrontare e risolvere, insieme, i problemi di tutti.
Quanto sopra non può che avvenire se non per il mezzo di un linguaggio popolare e democratico, non certo autoritario e, dunque, con il dialogo aperto a tutti e dove tutti si rendano disponibili ad ascoltare le ragioni altrui nella prospettiva di un accordo comunitario che assuma le sembianze di un “Patto globale di saldezza democratica e di stabilità sociale”.
Nella filosofia critica di I. Kant, la persuasione o il convincimento sono considerati credenze soggettive e private, opinioni e non verità, mentre la convinzione ha un carattere oggettivo: i primi non possono essere argomentati e, quindi, accettati pubblicamente come validi; la seconda certamente sì.
E’ di tale ritrovata convinzione nelle proprie doti d’intelletto raziocinante che necessita un popolo di indifferenti per superare, coraggiosamente, gli ostacoli derivanti da riflussi privatistici sconfinanti verso l’astensione dai pubblici doveri. Vale per gli Italiani, che si debbono riappropriare dei loro diritti costituzionali scippati loro da un ceto politico prepotente e corrotto; vale per i miei concittadini Orvietani, che si debbono affrancare da una Orvieto ridotta a città comatosa e in avvilente stato di frustrazione.
La conclusione, che mi permetto di sottoporre all’attenzione riflessiva della pubblica opinione, può sintetizzarsi nella seguente immagine: sottrarre gli indifferenti dalla loro condizione di cefalopodi, cioè di coloro che strisciano con il cervello e ragionano con i piedi.