La proposta di Dante Freddi
Siria. La guerra negli occhi dei piccoli rifugiati
“I volti sporchi, la pelle arrossata, e gli occhi di chi è stato costretto a crescere all’improvviso. Queste immagini raccontano meglio di mille parole il conflitto siriano: i ritratti sono stati scattati da Muhammed Muheisen, reporter di Associted Press, nel campo rifugiati di Mafraq, in Giordania. ”Andavo a scuola ad Hama – spiega Rakan Raslan, di 11 anni – avevo i miei amici lì. La nostra casa è stata distrutta e siamo scappati”. ”Vorrei tornare a casa mia, ma mio padre vuole andare negli Stati Uniti”, dice la piccola Mona Emad, di 5 anni. Secondo l’ultimo rapporto Unicef, diffuso a cinque anni dall’inizio del conflitto, 3,7 milioni di bambini, di cui un milione di siriani, sono nati in guerra. La guerra ha ucciso più di 250mila persone e la metà della popolazione è fuggita dal Paese16 marzo 2016.”
L’opinione di Franco Raimondo Barbabella
Sono i volti di 14 bambini. È giusto nominarli. Sono: Hammad Khadir, 3 anni; Mohammed Bandar, 12 anni; Zhara Mahmoud, 5 anni; Mariam Aloush, 8 anni; Yasmeen Mohammed, 11 anni; Mona Emad, 5 anni; Hanana Khalid, 7 anni; Aya Bandar, 6 anni; Mayada Hammid, 8 anni; Rakan Raslan, 11 anni; Ahmad Zughayar, 6 anni; Amna Zughayar, 9 anni; Zahara Al-Jassim, 10 anni; Hiba So’od, 6 anni.
Bisogna dunque guardare i volti e più che commentare con parole lasciar fluire i sentimenti. Le parole servono comunque a comunicare anche i sentimenti. Perciò, se si ritiene di potere e dover dire qualcosa, magari per fare qualcosa, allora si dia pure spazio alle parole. Ma niente retorica, per favore, non è proprio il caso. Niente buoni sentimenti a buon mercato, ché ne siamo già pieni. Niente pacifismo da quattro soldi, tanto per sentirsi a posto con la propria coscienza e lasciar fare agli altri ciò che impegna ed espone. Insomma, niente sentimenti venduti al mercato del “volemose bene, ché gnente ce costa”.
Quei volti tristi, quegli sguardi persi nel vuoto, quelle gote arrossate dalle intemperie o dal pianto fresco, generano una tristezza infinita. E richiamano subito alla mente anche qualcosa di più forte e opprimente, ad esempio la foto scattata dalla fotoreporter Nilufer Demir sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia, quella che ritraeva Aylan Kurdi, un bambino di tre anni, senza vita a faccia in giù, tra la schiuma delle onde, nella sua t-shirt rossa e nei suoi pantaloncini blu scuro, piegati all’altezza della vita. Un’immagine che condensa una parte significativa dei drammi del nostro tempo e che da sola dovrebbe indurci a ripensare molte cose. Ma sul serio. Dico sul piano pubblico. E credo che basti questo per intendersi.
Non posso chiudere però senza rilevare che su di noi incombono, tra i tanti, due pericoli particolarmente insidiosi: da una parte l’oblio per eccesso di occasioni e immagini scioccanti, dall’altra l’abilità (sic!) di far convivere esperienze opposte, con la conseguenza di diluire tutto nella piattezza dell’indifferenza. Ad esempio, come se niente fosse, il prossimo 20 marzo celebreremo la “giornata internazionale della felicità”, istituita dall’ONU nel 2012. Certamente è una bella cosa celebrare la felicità. Non so quanto c’entri essa con i caratteri e le immagini della fase storica che viviamo. Che almeno sia un’occasione per consentirci un pensiero per quei bimbi.
L’opinione di Pier Luigi Leoni
Pare ormai accertato che la razionalità pura non esiste e che le nostre reazioni di fronte ai fatti della vita sono condizionate dalle emozioni di base (gioia, sofferenza, rabbia, paura, sorpresa, disgusto) che sono universali e innate, presenti in tutti gli umani come risultato dell’evoluzione verso un adattamento alla vita sociale. Le emozioni indotte dall’ambiente culturale al quale si appartiene esistono e si sovrappongo a quelle innate, ma non le neutralizzano. Poiché la sopravvivenza degli umani e delle società umane esige continue e tempestive decisioni, l’intreccio delle emozioni con il ragionamento è il modo in cui l’evoluzione ha attrezzato gli umani per sopravvivere.
Perciò, di fronte al dramma delle guerre, della fame e delle migrazioni di popoli, e di fronte alle decisioni da prendere, penso che vi sia un sentire comune di sofferenza e di paura, e l’idea generale, basata sul principio culturale di gerarchia, che la soluzione spetti a chi detiene il potere politico. E poiché, con ogni evidenza, i politici al potere non riescono ad adottare in questo frangente decisioni efficaci, ciò alimenta la rabbia e la paura degli individui, e mette in crisi il sentimento culturalmente indotto di affidamento alla gerarchia.
Resta il fatto che, nonostante un sottofondo di emozioni comuni, le reazioni sono differenti; ed ecco venir fuori i predicatori dell’amore universale, i buonisti, i multiculturalisti, i pacifisti, ma anche i razzisti (convinti che esista, come nei cani, una pluralità di razze umane tra le quali la migliore sarebbe quella alla quale credono di appartenere), gli identitari (forma edulcorata di razzismo) e i militaristi.
Come si spiegano queste diverse posizioni nelle quali si divide l’opinione pubblica, nonostante la comunione delle emozioni di base?
Non mi resta che chiamare in soccorso un grande umorista, Jerome K. Jerome, autore di un aforisma genialmente amaro: «Quello che un uomo pensa, e pensa davvero, si sprofonda in lui stesso e matura in silenzio. Quello che un uomo scrive nei libri sono i pensieri che desidererebbe si pensasse che egli pensa». Considerazione che vale non solo per chi scrive, ma anche per chi parla.
La proposta di Barbabella a Leoni
Giù le mani dal mio piatto! Manifesto della libertà di alimentazione
“La libertà di alimentazione è il pezzo più gustoso della libertà di espressione. Io mangiando l’agnello pasquale esprimo il mio essere cristiano, mangiando pesto di cavallo esprimo il mio essere parmigiano, bevendo vino esprimo il mio legame con la terra che prima di chiamarsi Italia si chiamò Enotria, e quando riesco a mettere le mani su una bottiglia di vero assenzio ecco che posso esprimere appieno il mio discepolato verso Baudelaire. …
Dei tanti elementi che costituiscono la libertà di espressione, la libertà di alimentazione è l’unico universalmente accessibile: pochi sono capaci di scrivere un romanzo, di dipingere un quadro, di comporre una canzone, di girare un film, tutti invece sono capaci di mangiare. Pertanto i continui attentati alla libertà di alimentazione sono perfino più gravi di quelli alla libertà di espressione comunemente intesa. …
La libertà di alimentazione è un pezzo della libertà di cultura, proibire un ingrediente per compiacere le signore vegane o i burocrati di Bruxelles è come coprire una statua classica per compiacere un teocrate iraniano. …
La libertà prima che un diritto è un dovere, ci ha insegnato Oriana Fallaci, quindi abbiamo il dovere di non sottometterci ai politici e ai fanatici che vogliono imporci il loro credo alimentare. L’inviolabilità del domicilio fissata nell’articolo 14 della Costituzione va estesa al frigorifero, a tavola ogni uomo dev’essere libero di ubbidire a Dio (“Quanto si muove e ha vita vi servirà di cibo”, Genesi 9,3) o al proprio edonismo, e se la gola è un vizio va considerata materia di confessione e non di legislazione. Resistere ai proibizionisti alimentari è indispensabile per salvare la tradizione dalla completa distruzione e l’innovazione dalla metastasi normativa, per difendere gli artigiani, gli agricoltori, i distillatori, gli allevatori, le identità nazionali, regionali e comunali, gli orti, i macelli, le cantine, le malghe, le trattorie, i laboratori, la varietà dei sapori e dei piaceri, la dignità e lo statuto dell’uomo.”
(Camillo Langone, Il Foglio, 12 marzo 2016)
Un inno alla libertà molto divertente. Particolarmente divertente perché mette insieme verità, mezze verità e fregnacce. Evito di analizzare il testo per non tediare i lettori e mi limito a una considerazione generale. Il proliferare delle disposizioni legali, che a volte sono indispensabili, a volte utili, altre volte inutili, altre volte dannose, nonché la mania di trasformare in disposizioni legali opinioni ancorate alla fede, o anche ai pregiudizi, o anche alle infatuazioni sono congeniali alla natura umana. Gli animali sono guidati dagli istinti e non hanno bisogno di regole. Quando vengono domesticati e quindi assoggettati a regole imposte dagli umani, diventano appendici, a volte penose, a volte divertenti, dei loro padroni. Gli umani, avendo relegato gli istinti nel fondo dei cassetti dei loro cervelli, hanno un bisogno disperato di regole e, se non trovano chi gliele impone, se le impongono da soli. La proliferazione cancerosa delle regole avviene pure nell’alimentazione; e senza bisogno che ce le impongano gli altri. Chi, potendo disporre di pane, aglio, sale e olio di oliva, preferisce un pranzo in ristorante a una bella bruschetta fatta in casa, è vittima della propria condizione umana.