La proposta del direttore Dante Freddi
Potete esprimere la vostra opinione sul messaggio contenuto nel video del papa “2016. Anno della misericordia”? Il video, soltanto un paio di minuti, è QUI.
L’opinione di Pier Luigi Leoni
Il video proposto dal Direttore è sconvolgente perché il Papa dice esplicitamente ciò che molti teologi dicono da tempo e che una parte della gerarchia cattolica dice a mezza bocca o non condivide affatto. Il fatto è che, secondo una metafora molto usata, il gregge dei cristiani, per non disperdersi e per incrementarsi, ha bisogno di pastori e di regole. Per questo la Chiesa ha elaborato una dottrina (che è anche una disciplina) e l’ha imposta con durezza e spesso con crudeltà. Anche se ha sempre affermato il primato della coscienza e l’infinita bontà e onnipotenza del Creatore. Lo stesso Gesù manifestò la sua cultura ebraica e la sua passione per la giustizia in alcuni anatemi e minacce di dannazione eterna, ma concluse la piena maturazione della consapevolezza della sua missione con la preghiera: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno». Ma in seno alla Chiesa, al di fuori della gerarchia, è maturata una teologia non collimante con la dottrina ufficiale, che però ha influenzato la dottrina ufficiale. Così è avvenuto, per esempio, con la caduta del principio extra Ecclesiam nulla salus (al di fuori della Chiesa non v’è salvezza). Mi sembra che Papa Francesco stia cercando di far convergere il filone tradizionale della teologia cattolica e quello innovativo nel segno della misericordia, che è sia il nobile sentimento di compassione attiva verso l’infelicità altrui, sia un attributo di Dio in quanto giudice benigno e soccorritore degli uomini. Che c’è di più bello che chiedere a Dio «Perdonami, perché non so quello che faccio» ed essere sicuro di essere perdonato?
L’opinione di Franco Raimondo Barbabella
Aristotele, nella Metafisica, parla della filosofia come scienza delle cose supreme mossa dalla meraviglia. E ne fa il tratto distintivo della grecità, ciò che differenzia la dimensione del filosofare dalla sapienza delle altre culture antiche. Noi da lì veniamo. La filosofia nasce e si alimenta del bisogno di conoscenza. Dunque, chi prova meraviglia non solo riconosce di non sapere, ma con animo aperto si dispone a ricevere quel nuovo sapere che appunto gli suscita meraviglia.
Papa Francesco viene anche lui da lì. Egli sa trasmetterci meraviglia perché lui stesso prova meraviglia. Egli non si presenta come colui che sa tutto e si carica del compito di trasmettere al mondo l’unica verità. Accetta le verità parziali, la possibilità che si possano parlare lingue diverse, e che però proprio per questo si possa avere la volontà di capirsi in ragione del riconoscimento di capisaldi comuni: essere tutti figli di Dio ed essere tutti capaci d’amore.
Questo a me pare il fondamento teoretico anche della “riscoperta” della centralità della misericordia, tanto da farne tema di anno giubilare, nel tentativo di rimotivare il mondo contemporaneo e ricollocare la funzione evangelica dell’ecclesia. Il contrasto con le vecchie rigidità ideologiche è evidente, ma esse sono morte da sole, per suicidio o per autoconsunzione. Come è evidente anche il contrasto con le diverse forme di fanatismo religioso, che invece è vivo e vegeto, e con le tante facce degli egoismi, che brutalizzano individui e popolazioni.
Però è anche in contrasto con chi non s’è ancora accorto che nel mondo sta cambiando tutto e che siamo nel bel mezzo di una rivoluzione sia dei rapporti umani che delle forme statuali e delle modalità classiche dell’organizzazione sociale. In questo senso, il messaggio di papa Francesco assume un significato e un valore non solo ideale, di auspicabile prospettiva dialogica tra credi diversi, ma di spinta all’azione per intervenire fattualmente e positivamente, qui ed ora, sulle condizioni di un’umanità sofferente. Giacché, con antica espressione di ben diverso contesto, mentre più d’uno torna a coprire con il grido “Deus vult” ogni misfatto e miseria, qualcun altro, consapevole dei bisogni reali di oggi, sa che la fine della rapina delle risorse umane e materiali, insieme alla rifondazione della speranza, è il passo da compiere con urgenza. Per cui è giusto che quel qualcuno a sua volta gridi: “Ne ha bisogno l’uomo!”, e che sia costui ad essere prioritariamente incoraggiato e sostenuto.
Tuttavia non deve sfuggire che è proprio sul terreno della spinta all’azione che il messaggio di papa Francesco, così forte e intellettualmente dirompente, rischia di arenarsi. Egli, il papa, indica con lucidità una via per l’uomo di oggi, e dietro le sue parole si può leggere la lunga storia del pensiero umano, con i problemi risolti e quelli che da secoli stanno ancora lì a ricordarci che siamo esseri limitati, condannati o al contrario premiati, o solo naturalmente portati, a configurare continuamente insieme agli altri le condizioni della nostra esistenza. Basterebbe, per rendercene conto, solo riflettere sul senso della disputa tra Erasmo e Lutero sul libero arbitrio, che ad esempio per Claudio Magris segna la nascita della modernità e si proietta sull’oggi perché riguarda il potere che l’uomo può attribuirsi o pretende di potersi attribuire.
Il papa dunque, diciamo così, “fa il suo mestiere”. Ma gli altri? E noi? Quale è il nostro “mestiere” di uomini del nostro tempo? Senza addentrarci troppo nel labirinto dei perché, potremmo limitarci a dire che è urgente porre un argine a quella che recentemente anche Romano Prodi ha chiamato la montante stupidità umana, mai tanto evidente come ora nella storia recente. Ma sarebbe davvero troppo poco.
Allora farò riferimento al pensiero del grande filosofo liberale lettone, naturalizzato britannico, Isaiah Berlin, che in un discorso del 1988, tenuto in occasione del Premio Giovanni Agnelli, ad un certo punto così si espresse: “Se la fede antica e perenne nella possibilità di realizzare l’armonia ultima è un’illusione e sono giuste le posizioni a cui mi sono appellato, Machiavelli, Vico, Herder, Herzen; se ammettiamo che i Grandi Beni possono scontrarsi fra loro, che alcuni di essi non possono convivere benché altri possano – in breve, se ammettiamo che non si può avere tutto, né in teoria né in pratica –, e se la creatività umana può dipendere da una varietà di scelte che si escludono a vicenda: ebbene, allora, per ripetere la domanda di Černyševskij e di Lenin, “Che fare?”. Come possiamo scegliere tra le varie possibilità? Che cosa e quanto dobbiamo sacrificare e che cosa? Non c’è, mi sembra, una risposta netta. Ma i conflitti, anche se non si può evitarli, possono essere attenuati. Si può arrivare a un equilibrio tra le opposte esigenze, a un compromesso …”.
E qualche anno dopo, in un discorso del 1994, dirà: “Purtroppo non ho nessuna risposta conclusiva da offrire: solo che se vogliamo che i sommi valori umani in base ai quali viviamo vengano perseguiti, allora, per evitare il peggio, dobbiamo arrivare a compromessi, accordi, baratti. Un po’ di libertà in cambio di un po’ di eguaglianza, un po’ di libera espressione individuale in cambio di un po’ di sicurezza, un po’ di giustizia in cambio di un po’ di compassione.” (Un messaggio al Ventunesimo secolo, 25 novembre 1994).
Come si vede, Berlin, rispetto all’idea ricorrente secondo cui per ogni importante interrogativo può esserci solo una risposta, esprime una posizione di lucido relativismo riformista, lineare e concreto come la tradizione dell’empirismo comanda. Il suo esercizio tuttavia non è facile, perché richiede lungimiranza e coraggio, sia per vedere e indicare le soluzioni dei problemi che per accettare le limitazioni nel perseguirli. Dovrebbero essere queste le caratteristiche di una leadership diffusa ai diversi livelli. Oggi, ritengo non a caso, la invocano in molti. Ad esempio, in Italia, Giuseppe De Rita (si veda da ultimo il Corriere della sera di giovedi 14 gennaio); negli USA, Thomas Friedman, che sul New York Times non si stanca di dire che nel mondo di oggi – con ciò che inducono “globalizzazione, legge di Moore e madre natura” – c’è bisogno più che nel passato di leader all’altezza delle sfide nei diversi campi.
E noi, tutti noi, possiamo fare qualcosa? Penso di si, se non altro perché, oltre che di pancia, siamo dotati di cuore e circolazione sanguigna, e soprattutto di cervello, che al massimo delle sue potenzialità si manifesta come ragione critica. Una facoltà che, se posseduta, nessuno ci può togliere, e se attiva, può fare molto. Certo, un suo buon esercizio, come detto, richiede anche coraggio. Un mix che non si vende al mercato. Kant avrebbe semplicemente detto: Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! Credo che questo sia il modo migliore per sintonizzarsi con il messaggio rinnovatore di papa Francesco.
La proposta di Leoni a Barbabella
Ma com’è questo film di Checco Zalone? È davvero così graffiante?
“Sempre più persone oggi tendono a offrire un’immagine di sé sensibile, ambientalista, animalista, pro-gender, politicamente ipercorretta: il risultato è che è sempre più difficile fare ironia senza scatenare l’ira di qualcuno. Checco Zalone ha invece l’ingenuità (o il coraggio?) di inserire scene e battute scurrili tirando dentro anche il sesso, gli animali, i portatori di handicap e perfino un certo maschilismo. Ma fatevi pure una risata: ricordiamoci che siamo italiani. Mica norvegesi.”
(http://catania.liveuniversity.it/, QUO VADO? : per noi è sì. La recensione del film in soli quattro punti,)
Sono tra coloro che nell’ultima settimana hanno affollato le sale cinematografiche (che non è vero che sono morte) per vedere l’ultimo film della coppia Nunziante – Zalone, quel Quo Vado, che già nel titolo preannuncia la formula azzeccata della comicità nostrana. Il film è divertente, trama leggera e scorrevole, battute qualcuna banalotta ma per gran parte azzeccate, tecnica comunicativa diretta, tecnica cinematografica avvincente. Che si vuole di più per una serata d’inverno? Successo indiscutibile, 56 milioni di incassi in due settimane, cose fantasmagoriche. La cosa migliore? La canzone in stile Celentano La prima Repubblica … Non andrei molto oltre, perché trasformare un film comico riuscito in un test di quanto sia diffuso tra gli italiani l’iperpoliticamentecorretto o per contro il bisogno di riderci sopra e sbeffeggiarlo mi sembra francamente un esercizio inutilmente masochista. Preferisco limitarmi a due osservazioni sul perché gli italiani si sono lasciati attrarre in gran numero da questo film. Si, Checco Zalone è un buon marchio, ma ce dell’altro. Le persone, soprattutto in periodi come questi, hanno bisogno di respirare un po’ d’aria liscia, se volete anche ingenua, insomma di staccare per un attimo la spina. Se poi la proposta è sufficientemente intelligente e curata, e anche un po’ originale ma non troppo, il gioco è fatto. Il nostro cinema degli anni d’oro ci ha costruito sopra la sua fortuna. Inoltre, ridere dei nostri vizi è sempre un buon modo per esorcizzarne gli effetti, soprattutto quando la realtà è andata oltre, cosicché non si corre più il rischio di offendere chi ne è ancora coinvolto, o quando non si ha nessuna intenzione di pentirsene. Giusto, non siamo mica norvegesi!