di Mario Tiberi
Al fine di offrire alla schiera di lettrici e lettori una migliore comprensione di chi realmente io sia, mi concedo la licenza di divulgare ancora più ampiamente uno scritto già pubblicato nella rivista “Le Grandi Firme della Tuscia”, a cura del Circolo Culturale Orvietano “LETTERALBAR”.
Se vorrete leggerlo, non mi resta che ringraziarVi per la cortese attenzione.
A come prima lettera dell’alfabeto; A come albero; A come aiuto.
Curzio Bonaparte stava meditando sulla vocale per eccellenza, quando decise di mettere per iscritto l’andirivieni furibondo dei suoi pensieri e, così, scrisse.
“Senza le “A” non si può comunicare nulla, senza le “A” non si può scrivere nemmeno una novella.
La prima lettera di un qualsiasi scritto ha già in sé un significato, un piccolo o grande destino a seconda che la si stampi in minuscolo o maiuscolo. Nei libri antichi, la prima lettera veniva impressa a forma di colorati arabeschi, oppure di fiori ornamentali e, persino, di variopinti piumati uccelli.
Quasi un albero è la prima lettera e i suoi rami si trasformano nelle pagine di un libro, di un giornale, di una narrazione.
A come aiuto; forse mi porterà buona sorte perché ne ho bisogno.
Perché mi sembra di aver esaurito ogni goccia di speranza dentro, avendola bevuta giorno dopo giorno. Mi sento come bruciato e il sole non è mai stato tanto rapace come in questo periodo qui.
Il paesucolo dove abito, striminzito e maledetto, e dove si consuma la mia vita quasi fosse un moccolo sporco di fumo, da tempo mi va stretto e non mi ci riconosco più. Mi pare di consumare inutilmente la mia vita come stando nell’angolo buio di una chiesina sconsacrata e abbandonata dagli uomini e dal cui altare, ricoperto di ragnatele, promana un odore acre di sangue ingiustamente versato.
Posso ancora solo sognare di alzare i tacchi e volare via, al pari di un alitante uccello gonfio di nequizie diafane, quasi invisibili, come invisibile è ogni essere umano giusto costretto a dover subire le malvagità altrui. Strano uccello, questo. Fatto solo di parole.
Migliaia di parole messe in fila su fogli di carta igienica rubati, di notte, nella latrina lercia di un manicomio e che, con progressiva disperazione, ti rendi conto che a nulla sono servite se non, spesso, a suscitare l’ilare sorrisino sarcastico di un mondo triste e vaneggiante.
Non importa come, né quando, ma voglio volare via dal grigiore di questa prigione soffocante prima che sia troppo tardi e, purché, io sia ancora vivo; io che non so più chi sono e non so più perché abbia atteso tanto.
Non mi sono impazzito all’improvviso. Abbiate pietà. E con la vostra pietà alimentate la mia residua speranza: che qualcuno mi riconosca per quello che sono e corra in mio aiuto.
A come prima lettera dell’alfabeto; A come albero; A come aiuto…… e ho scritto tutto”.
P.S. : il paesucolo di cui nel brano può essere uno, nessuno o centomila. Nella specie è riferito all’Italia delle ingiustizie diffuse e delle dilatate diseguaglianze, all’Italia dei pavidi “conigli” e delle “pecore” servili, all’Italia degli scandali delle banche e della pubblica amministrazione sottaciuti e tenuti nascosti dalla stampa di regime, sia quella parlata che quella scritta; all’Italia, insomma, così com’è connotata dall’acrobatico autoritarismo renziano.