La proposta del Direttore Dante Freddi
Ridurre il numero delle regioni e costituire la Regione dell’Italia Mediana va bene, ma non con decisioni dall’alto e tenendo ancora una volta ai margini il nostro territorio. “Il nostro Paese ha bisogno di Regioni di dimensioni maggiori rispetto a quelle attuali per garantire migliori servizi a cittadini ed imprese, ridurre la spesa pubblica, contenere la pressione fiscale e recuperare quel peso specifico in Europa che oggi rischiano di avere meno.Ricordiamo che una volta l’Europa era composta da 6 Paesi e aveva 200 milioni di abitanti. Oggi sono 28 i Paesi e mezzo miliardo gli abitanti. È partendo da queste considerazioni che i deputati Giampiero Giulietti, umbro, ed Emanuele Lodolini, marchigiano, appoggiano la proposta di unificare Umbria, Marche e Toscana in un’unica macroregione. Umbria, Marche e Toscana vantano indubbie radici comuni e sono caratterizzate da un’elevata omogeneità sia dal punto di vista economico e politico, che sociale e culturale, hanno affermato i deputati Pd. Per rilanciare il nostro Paese è necessario fare scelte coraggiose che ci spingono verso una riforma costituzionale che preveda anche la riduzione del numero delle regioni.
Dopo le riforme istituzionali che il Governo sta portando avanti con tenacia, in una seconda fase bisognerà anche pensare di ridurre le Regioni. Del resto stiamo ridisegnando l’assetto istituzionale del Paese dal livello centrale ai Comuni. In Francia il Premier ha proposto di passare da 22 Regioni a 13 per dare loro dimensioni europee e capacità di elaborare strategie di sviluppo vere e su scala ampia. Con la fusione di Umbria, Marche e Toscana si potrebbe dare concreta attuazione al progetto dell’Italia di mezzo, un’area di oltre 40.000 km quadrati e 6 milioni di abitanti che avrebbe un peso ed un ruolo maggiori rispetto alle singole regioni. Già oggi Umbria, Marche e Toscana sono chiamate a condividere molte questioni, dalle infrastrutture alla sanità passando per il turismo – hanno aggiunto i deputati Giulietti e Lodolini – ed è proprio da questo tessuto comune che possiamo partire per promuovere una reale integrazione delle tre regioni, valorizzando le specificità e le indubbie eccellenze del territorio umbro-tosco-marchigiano attraverso l’istituzione della regione dell’Italia di mezzo.” [Emanuele Lodolini, deputato PD]
L’opinione di Pier Luigi Leoni
Il dibattito sulla ripartizione del territorio nazionale è cominciato da molti anni, non appena ci si è accorti che l’istituzione delle regioni aveva provocato più guai che benefici. Un dibattito parallelo, ma più sommesso, è quello sul superamento delle regioni a statuto speciale.
Attualmente l’esigenza di ridurre il numero delle Regioni italiane è avvertita un po’ da tutti. Del resto la sanità, che assorbe tre quarti delle attribuzioni e delle risorse regionali, non può essere gestita razionalmente dalle regioni minori, se si tiene presente che certi reparti ospedalieri hanno bacini d’utenza molto più vasti dei territori regionali. Anche il fatto che le regioni sono diventate gli enti di riferimento dell’Unione Europea per la gestione dei fondi strutturali deve essere tenuto presente per renderne più corposa la consistenza demografica e organizzativa.
I costituzionalisti, e non solo loro, si sono sbizzarriti e si sbizzarriscono nel ridisegnare la cartina politica d’Italia, ma ogni proposta di accorpamento delle regioni desta perplessità. Per esempio la proposta di Giulietti e Lodolini ha oggettivamente poco pregio, a parte il fatto che è pensata su misura per blindare l’egemonia della sinistra su gran parte dell’Italia centrale. Infatti taglia fuori il Viterbese e il Reatino; aree che l’evoluzione ormai inevitabile di Roma Capitale in Città Regione rende assegnabili a una macroregione che, senza Roma, non può essere il Lazio. Per non parlare delle affinità culturali ed economiche.
Se la prossima legislatura ci darà una maggioranza riformista forte, anche il nodo delle regioni verrà al pettine e ne vedremo delle belle. Altro che modifica del Senato, nuova legge elettorale e riforma delle province.
L’opinione di Franco Raimondo Barbabella
Sono anni che mi occupo di un nuovo possibile assetto istituzionale che superi gli attuali limiti, avendo come orizzonte quell’Europa che in molti invocano e che però non traducono mai in scelte sia strategiche che di immediata concretezza. Nella mia visione, di tale nuovo assetto fa parte certamente l’idea di un ‘nuovo regionalismo’ con a fondamento il concetto di ‘macroregione’, ma ne fa parte anche quella di ‘ruolo protagonista dei territori’ ed in particolare di quelle che, in vigenza dell’attuale assetto, sono da considerare ‘aree cerniera’, come ad esempio la nostra, al confine tra tre regioni.
Ne sono testimonianza i numerosi documenti programmatici che ho scritto il più delle volte insieme ad altri in occasione delle diverse tornate elettorali, le iniziative istituzionali lontane e recenti, gli articoli su diverse riviste e sulla stampa quotidiana, e in tempi più vicini il convegno, organizzato il 12 ottobre 2012 con gli amici del COVIP, “L’Umbria dopo l’Umbria”, e ora il nascente “Comunità in Movimento”, che parte proprio dall’idea di coordinare i movimenti civici umbri ed extraumbri per costruire dal basso la macroregione dell’Italia Mediana.
Ecco allora che, come ho ritenuto importante, pur con tutti i limiti specifici e di contesto, l’iniziativa legislativa dello scorso anno di Morassut e Ranucci, così ritengo oggi importanti sia le dichiarazioni e le iniziative dei Presidenti delle regioni Toscana, Umbria e Marche, sia quelle di Giampiero Giulietti, deputato umbro, e di Emanuele Lodolini, deputato marchigiano, se non altro perché in tal modo il dibattito potrebbe decollare. Ma non posso nascondere la sensazione che il modo in cui questi esponenti della classe dirigente delle tre regioni stanno affrontando una questione di così grande rilievo non è affatto adeguato.
Intanto è abbastanza lontano dallo spirito con cui Morassut e Ranucci hanno fatto la loro proposta di riordino (tra l’altro anche per sopperire alle carenze gravi della riforma Delrio), ma soprattutto sembra appartenere più ad una strategia di movimentazione di forze all’interno dei DS in vista del congresso che non ad una lucida decisione di imprimere una svolta al processo di riforma, ciò che richiederebbe ben altro atteggiamento e ben altro tipo di iniziativa. Riforme di questa portata non possono essere riforme calate dall’alto.
Per quanto riguarda poi territori come il nostro, questo modo di procedere è quanto di più lontano ci possa interessare, giacché ancora una volta in esso non è che siamo considerati un’appendice, non siamo proprio considerati. La cosa per noi interessante è solo la prospettiva di quella che in un articolo del dicembre dello scorso anno definivo “La regione dei due mari”, un’Italia di Mezzo” che ricomprende si l’Umbria con la Toscana e le Marche, ma che non può non includere anche il Lazio, ovviamente con esclusione di Roma (di per sé regione metropolitana, come in altri Paesi), e comunque le province di Viterbo e Rieti.
Dobbiamo dunque capire che cosa fare, perché è vero che siamo solo all’inizio del dibattito, ma da come si imposta il dibattito già in questa fase si determinerà anche come in concreto si svilupperà il processo di trasformazione reale. Io penso che siamo di fronte ad una grande occasione. Nell’articolo del dicembre dello scorso anno che ho richiamato sopra scrivevo: “Una dimensione buona per economie di scala, organizzazione razionale dei servizi, snellimento burocratico, infrastrutturazione moderna, progettualità territoriale europea. Non solo risparmio, ma modernizzazione e sviluppo, uno sguardo oltre la crisi. Una sfida per le classi dirigenti: più apertura, più dinamismo, più sguardo lungo.” Le vere riforme devono avere questo taglio: lungimiranti e partecipate, prospettiche e includenti. Le rivoluzioni dall’alto o sono state solo proclamate o hanno prodotto grandi guai.
La proposta di Leoni a Barbabella
Ma perché Fiorella Mannoia non si limita a fare la cantante?
“Di fronte agli avvenimenti drammatici che stiamo vivendo, meglio non cercare verità nascoste, ma, voltairianamente, dire verità palesi. E invece straparliamo, alla ricerca di alibi reconditi. È successo di recente a una cantante famosa, Fiorella Mannoia, intervistata da una radio di un’università telematica romana.
Per la Mannoia, che non crede alle notizie della «stampa ufficiale», la responsabilità degli attentati di Parigi è dell’Occidente, secondo l’usurato copione di certa sinistra radicale: è colpa dell’Occidente se in Medio Oriente ci sono islamisti che reagiscono con la guerra santa e sterminano i cristiani, è colpa dell’Occidente se in Europa alcuni estremisti uccidono nel nome del Profeta: «Non voglio difendere quei vigliacchi che fanno attentati, anzi. Io sono molto impaurita… Ma non sono vittime anche i civili morti durante i bombardamenti fatti dagli Usa o da altri Paesi occidentali?». Poi bordate contro Oriana Fallaci: «Esaltarla oggi è un mezzo per fare propaganda elettorale. Non è che siccome una sia stata una grande giornalista e una grande scrittrice avesse capito tutto». Chi ha capito tutto, invece, è Fiorella Mannoia: pochi dubbi, molte certezze. È contro il Giubileo di papa Francesco, ritiene che i pentastellati siano l’unica vera forza di cambiamento. Resta di sinistra, «semmai si sono spostati gli altri». Credere di parlare a nome delle vittime e dei poveri, solo perché si è vittima delle povere idee.” (Aldo Grasso – Corriere della Sera – 22 novembre 2015)
Poiché sono d’accordo con Aldo Grasso potrei fermarmi qui. Aggiungo dunque solo qualche annotazione, anche per rispetto di chi mi ha proposto di esprimermi su questo argomento.
Penso di Fiorella Mannoia la stessa cosa che penso di Adriano Celentano quando, strapagato, fa il guru ecologista in tv, o di Vasco Rossi quando, trabordante anche lui, viene ripreso mentre passeggia in campagna e dice di cercare la verità: penso che sono ottimi cantanti e che perciò è auspicabile che continuino a deliziarci con le loro canzoni e se possibile si astengano dal dirci banalità che ci intristiscono.
Proprio mentre scrivo sento riferire del Rapporto CENSIS 2015 che descrive l’Italia come un Paese fermo, nel limbo, a causa soprattutto di un individualismo esasperato che impedisce quella cultura progettuale, quel guardare al di là del proprio orticello, che è la spinta verso un futuro possibile. Ovvio dunque che perché si cambi e si esca dal limbo ci vogliono tante cose, ma soprattutto occorre una svolta culturale, che consiste innanzitutto nel non cercare di piegare la realtà né solo ai propri interessi né ai propri schemi mentali.
Per cui alla Mannoia si può rispondere che si, i morti sono sempre morti, di qualunque colore siano le bombe o le cartucce che li hanno resi tali. E che sia raro trovare un innocente tra gli individui e forse nessuno tra gli Stati è senz’altro da concedere. Immagino che anche Fiorella Mannoia conoscerà la storia di Lawrence d’Arabia e del patto segreto con cui Inghilterra e Francia, tradendo lui e gli arabi suoi amici, decisero di spartirsi l’impero ottomano alla fine della prima guerra mondiale tirando linee geometriche sul terreno senza nemmeno preoccuparsi di chi lo abitava. Molti guai di oggi nascono da lì, e le responsabilità dei Paesi occidentali non finiscono certo lì.
Ma, riconosciuto questo, qui ci si deve fermare, giacché le verità storiche si riferiscono ai fatti storici e non possono essere trasformate né in principi universali di spiegazione né tantomeno in criteri di giustificazione. Se si fa questo, semplicemente si sostituisce l’analisi col moralismo, che in genere o è frutto dell’inversione di pancia e cervello o di una persistente volontà di mettere ad ogni costo le braghe al mondo. Ma abbiamo fiducia: se anche Adriano Sofri (Il Foglio di sabato) alla luce della strage di San Bernardino invita a non usare schemi rigidi, anche la Mannoia si potrebbe convertire almeno al buon senso. Certo però che per ora la posizione che sto commentando non ci aiuta ad uscire dal limbo, come vorrebbe invece De Rita e come sarebbe necessario e urgente.