La proposta del direttore Dante Freddi
Telefonata di papa Francesco a Scalfari. Raccontata da Scalfari.
“È vero – ha risposto papa Francesco – è una verità e del resto la famiglia che è la base di qualsiasi società cambia continuamente come tutto cambia intorno a noi. Noi non dobbiamo pensare che la famiglia non esista più, esisterà sempre perché la nostra è una specie socievole e la famiglia è il puntello della socievolezza, ma non ci sfugge che la famiglia attuale, aperta come lei dice, contiene alcuni aspetti positivi ed altri negativi. E come si manifestano queste diversità? Gli aspetti negativi sono l’antipatia o addirittura l’odio tra i nuovi coniugi e quelli di prima, se un divorzio c’è stato; lo scarso sentimento di fratellanza specie tra figli di genitori parzialmente o totalmente diversi; un diverso contenuto della paternità che oscilla tra l’indifferenza reciproca o la reciproca amicizia. La Chiesa deve operare in modo che gli elementi positivi prevalgano sui negativi. Questo è possibile e questo faremo. Il diverso parere dei vescovi fa parte della modernità della Chiesa e delle diverse società nelle quali opera, ma l’intento è comune e per quanto riguarda l’ammissione dei divorziati ai Sacramenti conferma che quel principio è stato accettato dal Sinodo. Questo è il risultato di fondo, le valutazioni di fatto sono affidate ai confessori ma alla fine di percorsi più veloci o più lenti tutti i divorziati che lo chiedono saranno ammessi.” (http://www.repubblica.it/politica/2015/11/01/news/)
L’opinione di Pier Luigi Leoni
Vediamo che cosa aveva detto Scalfari al Papa.
“[Il Papa] mi ha chiesto che cosa pensavo delle conclusioni del Sinodo sulla famiglia. Ho risposto – come avevo già scritto – che il compromesso che il Sinodo aveva raggiunto non mi pareva tenesse conto dei mutamenti avuti dalla famiglia negli ultimi cinquant’anni, sicché puntare verso un recupero della famiglia tradizionale era un obiettivo del tutto impensabile. Ho aggiunto che la Chiesa aperta da lui voluta si trova di fronte ad una famiglia altrettanto aperta nel suo bene e nel suo male ed è questa che la Chiesa si trova di fronte”.
I colloqui tra il Papa ed Eugenio Scalfari mi fanno venire in mente il proverbio nostrano: “Uno come si mette sta”. Il Papa fa il Papa. Sa che la Chiesa cattolica è la conseguenza della fedeltà, ma anche delle infedeltà al Vangelo. Da duemila anni, la Chiesa cattolica tramanda lo stesso Vangelo e ciò ha avuto una profonda influenza sull’umanità; secondo il Papa (ma anche secondo me e forse qualche altro, compreso Scalfari) altamente positiva nel mitigare la malvagità umana. Ma il Papa conosce i vizi della Chiesa e la sua coscienza gl’impone di porvi rimedio, ma non può farlo al modo di Cecco Angiolieri: “S’i fosse papa, allor serei giocondo, ché tutti cristiani imbrigarei”.
Però non perde occasione per raccomandare la fedeltà al Vangelo, sia sul piano pratico che sul piano dottrinale. A una domanda provocatoria, rispose evangelicamente con un’altra domanda: “Chi sono io per giudicare? Un duro colpo al moralismo autoritario che tradisce le ultime parole di Cristo: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Per quanto riguarda la famiglia, ha aperto un varco alla misericordia nella disciplina del rito eucaristico, perché la misericordia deve essere più forte della disciplina, che a volte è al servizio dell’organizzazione sociale e non della persona.
Eugenio Scalfari, dal canto suo, ha scelto di fare il genio del giornalismo progressista politicamente corretto, ha avuto successo di fama e di soldi e si concede il gusto di pontificare anche col pontefice. Papa Francesco se lo tiene come interlocutore perché è un prestigioso intellettuale laico che scrive su uno dei quotidiani più letti d’Italia e un po’ perché (ma questa è una mia malignità) è meno antipatico di Ignazio Marino.
L’opinione di Franco Raimondo Barbabella
Scalfari ricorda anche la frase che papa Francesco ha pronunciato nel suo discorso conclusivo e nell’Udienza generale del 28 ottobre, che è la vera continuità di pensiero con il Concilio Vaticano II: “Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati”. E cita opportunamente più sotto le indicazioni del Concilio che figurano nei discorsi di Francesco: “La crescente interdipendenza dei popoli; la ricerca umana di un senso della vita, della sofferenza, della morte, interrogativi che sempre accompagnano il nostro cammino; la comune origine e il comune destino dell’umanità: l’unicità della famiglia umana; lo sguardo benevolo e attento della Chiesa sulle altre religioni: la Chiesa non rigetta niente di ciò che in esse vi è di bello e di vero; la Chiesa guarda o stima i credenti di tutte le altre religioni, apprezzando il loro impegno spirituale e morale”.
Il pensiero di papa Francesco è di una semplicità, e quindi di una limpidità, disarmante. Ma il fatto davvero straordinario è che ad esso segue un’azione costante di coerente attuazione. Per questo si deve parlare di una rivoluzione che sta avvenendo sotto i nostri occhi e che pone questo papato nella storia come quello che sta interpretando come pochi altri soggetti lo spirito e la necessità del tempo.
Non a caso al Sinodo appena concluso seguirà tra poco il Giubileo della misericordia. Io interpreto dunque il pensiero e l’azione di questo papa come un esempio per tutti. Non certo nel senso di un invito a schiacciarsi su di esso, come troppo spesso hanno fatto con altri papi esponenti di centro, di destra e di sinistra, nel tentativo o di approfittarne in modo strumentale per un facile consenso o di rimediare in modo acritico alle proprie debolezze di pensiero e alla cattiva coscienza di malgoverno o di mala amministrazione. Ma al contrario, nel senso di una consapevole compartecipazione da un punto di vista coerentemente laico (non laicista) a quella che possiamo definire, nel nostro ambito proprio – nel senso del luogo e del tempo – di un’azione comune di ricostruzione di uno spirito civico solido e operativo per impegno costante e per senso della responsabilità personale e comunitaria.
In questa direzione, la conclusione del Sinodo sulla famiglia con l’ammissione dei divorziati ai Sacramenti, che ad alcuni appare un timido compromesso, in realtà è una svolta significativa sul cammino di riconciliazione di cui abbiamo tutti bisogno e di cui non può comunque fare a meno una società nella quale oggi spesso prevalgono gli spiriti più particolaristici, con le conseguenze che abbiamo di fronte e che ci toccano nella vita di tutti i giorni.
Cozzano con questa visione tante cose, e tra esse la stanchezza ideale, l’acquiescenza al degrado fisico e morale delle città e, va detto anche questo, la propensione non solo di chi pur proclamandosi cattolico fa finta che nulla stia cambiando col magistero di papa Francesco, ma di chi, sempre cattolico, continua a perseguire obiettivi di orticello mascherati da purismo ideologico. Il cammino dunque è certamente lungo e sicuramente tortuoso, ma è l’unico che vale la pena percorrere, anche consumandoci tutte le scarpe che sono necessarie.
La proposta di Leoni a Barbabella
Il Piano Nazionale per la Scuola Digitale è buono. Ma spendere soldi per la formazione dei docenti è giusto o è uno spreco?
“Il Piano Nazionale per la Scuola Digitale presentato dal Ministro Giannini qualche giorno fa è, secondo me, un piano molto buono.
Intanto si tratta di un documento concreto: la scuola e la tecnologia si prestano moltissimo alle digressioni poetiche sul futuro dei nostri figli mentre qui gli autori sono riusciti per una volta a rimanere con i piedi sul terreno. La scuola riguarda gli studenti, come facciamo a renderla adeguata ai tempi, punto. Bravi non era facile.
Di tutto il piano un solo tema, fra quelli importanti, non mi convince per nulla. Ma proprio per niente. Ed è quello che riguarda la formazione dei docenti. Comprendo perfettamente le logiche che lo sottendono, ma si tratta di idee vecchie e di un’ottima maniera per buttare soldi. Sarò brutale ma la formazione diretta degli insegnanti verso le competenze digitali è inutile, è un errore ed uno spreco di soldi (ed anche un riflesso automatico del tempo in cui i piani scolastici si facevano prima per gli insegnanti e poi eventualmente per gli studenti). Proprio perché ci riferiamo ad un tratto di contemporaneità che riguarda tutti, gli insegnanti oggi si dividono in due grandi categorie: quelli che sono già addentro alle pratiche digitali e quelli che le hanno rifiutate. Per i primi non serve granché, per i secondi non ci sarà molto da fare.” (http://www.ilpost.it/massimomantellini/2015/11/05/)
È vero, il Piano Nazionale per la Scuola Digitale è finalmente una cosa apprezzabile. Ma non certo perché o solo perché si stanzia un miliardo di euro per la fornitura di adeguati strumenti informatici e un collegamento Internet con banda larga a tutte le scuole (speriamo che sia fatta sul serio e presto perché in altri paesi, ad es. la Gran Bretagna, già da quest’anno tutte le scuole potranno disporre di 100 Mbps in download), ma perché non è concepito come “assalto” della tecnologia alla didattica, quanto piuttosto come occasione per l’innovazione dell’intero sistema educativo.
Non è da sottovalutare la dotazione di banda larga, perché da li passano potenzialità di innovazione notevoli, ma soprattutto ciò che è ultraurgente è la penetrazione e la diffusione nella cultura degli operatori scolastici, tutti, dell’innovazione di sistema. Dunque non una generica disponibilità ad innovare, ma una consapevole, operativa, capacità di usare le tecnologie digitali come occasione di modernizzazione organizzativa e didattica in funzione della crescita intellettuale, sociale e umana dei nostri giovani, in sostanza per possedere le competenze necessarie per vivere nel 21mo secolo, alla pari con i loro colleghi europei.
In questo senso il Piano ha come obiettivo strategico quello di mettere finalmente la scuola in condizione di essere il motore fondamentale della crescita del Paese, compito di cui si era persa addirittura coscienza. E questa non è certo una “digressione poetica sul futuro dei nostri figli”, ma la condizione che deve diventare normale per chiunque si occupi di istruzione e formazione. E qui sta il punto critico, non nella formazione dei docenti.
Il punto critico è la condizione reale delle scuole italiane nelle cui vene si vuole iniettare in modo accelerato una dose massiccia di innovazione. È chiaro che prima o poi bisognava decidersi a farlo. Ma è anche chiaro che accanto a scuole che hanno fatto coraggiose esperienze di innovazione anche quando nessuno lo imponeva, ci sono scuole che nemmeno hanno iniziato e forse nemmeno hanno voglia di iniziare. Per cui, siccome so per esperienza vissuta che cosa vuol dire fare innovazione di sistema, sarebbe stato lungimirante far precedere o almeno accompagnare sia la legge sulla Buona Scuola che questo Piano con una iniziativa generalizzata di formazione obbligatoria e rendicontata dei dirigenti.
Sono convinto non da oggi che da qui, innanzitutto e naturalmente non solo, passa la possibilità di attuare nei tempi e nei modi giusti le riforme necessarie, le quali possono essere impostate nel modo più intelligente, ma se non sono preparate bene, ben organizzate e controllate nei loro esiti, difficilmente producono gli effetti desiderati nei tempi programmati. I dirigenti rappresentano per questo lo snodo essenziale del cambiamento. La questione della formazione dei docenti non può essere dunque ritenuta l’aspetto critico più rilevante, e tanto meno può essere scissa dal contesto.
Ci saranno pure quelli che non hanno bisogno di formazione perché già sanno, e quelli che al contrario non ne hanno bisogno perché sono refrattari a questa tipologia come ad altre, ma sono pur sempre i dirigenti che dovranno valutare lo stato di preparazione del personale e decidere il da farsi per far funzionare l’istituzione.
È ora che ai nomi corrispondano i fatti: se uno si chiama docente deve saper insegnare e se uno si chiama dirigente deve saper dirigere. Ma appunto temo che ancora si sia lontani da questa situazione. Confermo però che a mio giudizio il Piano in questione è un serio provvedimento in direzione dell’innovazione di sistema, sia dal punto di vista culturale che di politica scolastica operativa.