La proposta del direttore Dante Freddi
Aree interne e Contratto di fiume, le occasioni per rilanciare lo sviluppo
“Dai fondi previsti per le aree interne e il contratto di fiume le risorse necessarie a rilanciare lo sviluppo dell’Orvietano. È questo il succo dell’affollato incontro organizzato il 26 ottobre a Orvieto da Cna Umbria per esaminare le opportunità per il territorio derivanti dalla nuova tranche di finanziamenti di provenienza europea, e non solo. Ad oggi sono oltre 15 i milioni di euro disponibili per l’area interna dell’Orvietano, mentre altri 20 sono quelli previsti per il contratto di fiume: risorse importanti, una parte delle quali potrà essere intercettata dal territorio orvietano solo con progetti specifici.” (http://orvietosi.it/2015/10/cna)
L’opinione di Franco Raimondo Barbabella
Sì, i soldi ci sono. Non si sa esattamente quanti, né sono tutte chiare le modalità di attivazione dei diversi canali di finanziamento, né è stabilito chi fa che cosa. Ma i soldi ci sono e questo è ok. Attenti però, l’area di riferimento è vasta, e soprattutto il processo di coordinamento politico dei comuni interessati (20 per la Strategia Aree Interne) è partito solo in funzione di questa operazione, ciò che significa pericolo di prevalenza del particolarismo rispetto ad una logica progettuale d’area, che appunto non c’è. E non c’è non perché non ci si è pensato o perché non era possibile, ma perché quel modo di pensare e di fare è stato combattuto per anni nella convinzione che da questo venissero vantaggi politici e personali.
L’ho ripetuto ormai tante di quelle volte che mi censuro da solo: il più grave delitto compiuto nell’area orvietana negli ultimi due decenni è stata la liquidazione della politica progettuale che aveva caratterizzato gli anni ottanta. Così, quando è venuto il momento della necessaria ripresa della progettualità, ci si è trovati spiazzati, non solo perché non c’erano i progetti, ma perché non c’era più una cultura progettuale, e non c’era nemmeno l’intenzione di recuperarla attraverso coloro che tale cultura comunque e nonostante tutto erano riusciti a mantenere in vita. Non c’era una visione di territorio. Non c’era una strategia. Perciò i nuovi strumenti di programmazione (Contratti di fiume, Strategia delle Aree Interne), che invece presuppongono appunto visioni strategiche (leggi cultura progettuale), sono come piombati addosso ed hanno creato scompiglio.
Ora si sta cercando di recuperare. D’altronde da due anni agisce un coordinamento delle associazioni, che non si è limitato a sollecitare le istituzioni a passare dalla logica emergenziale a quella strategica, ma ha elaborato un vero e proprio pacchetto coerente dello sviluppo territoriale, sia con riferimento al contratto di fiume che alla strategia dell’area interna dell’orvietano. Unico reale contributo progettuale partecipato, come norme e buon senso in effetti richiedono. Così nessuno poteva far finta di niente. Poi, sollecitati da preoccupazioni e fatti diversi, si sono mosse le organizzazioni imprenditoriali, rivendicando un ruolo per lo sviluppo, seppure senza indicare scelte impegnative. Da ultimo è intervenuta l’iniziativa di CNA per superare il gap di sviluppo complessivo del territorio.
Dunque ora c’è movimento. Perciò bene, anzi benissimo. Ma a quando un confronto aperto, e a tutto campo, sulle idee chiave, portanti, appunto strategiche, per ridefinire la funzione dell’area orvietana nel contesto attuale? Attenzione, non solo per utilizzare i fondi che oggi calano dall’alto, ma per darsi una strategia che consenta di utilizzarne altri, attivando canali di finanziamento pubblico e insieme mobilitando i necessari investimenti privati. Perché la storia, comunque vada, non finisca con questa fase convulsa. Anzi, perché questa sia un’occasione di svolta nel modo di concepire e di praticare il governo del territorio.
Qualche segnale di cambiamento si intravede, ma è flebile. Credo che ci sia da lavorare molto per ottenere quello che il sindaco Germani ha detto nell’incontro con CNA. Soprattutto, per la conquista di una libertà intellettuale che è prodromica per la libertà politica, che a sua volta serve al fine di una decisa spinta verso uno sviluppo moderno. Oggi le trasformazioni sono molto rapide. Chi non le padroneggia è fuori, ed è inutile poi piangerci sopra.
L’opinione di Pier Luigi Leoni
Per fortuna, ma anche per scelta di vita, non spetta a me l’elaborazione di progetti per la valorizzazione dei nostri territori. Come commentatore, a gentile richiesta del Direttore Dante Freddi, constato con soddisfazione che un’altra pioggia di denaro pubblico sta per cadere su questa nostra città e sul suo territorio di riferimento, con qualche aggiunta che credo debba servire a spingere la collaborazione intercomunale oltre gli scontati e stretti confini di un comprensorio che rischia di diventare un gabbia. Tutto questo ben di Dio scalda i cervelli di amministratori pubblici, imprenditori privati e operatori del non profit. E prima o poi qualche straccio di progetto uscirà fuori col suo seguito di polemiche. Tutto ciò mi fa ricordare l’insegnamento di un politico saggio appartenente alla generazione precedente alla mia e quindi da tempo passato a miglior vita. Secondo quel saggio il vero politico deve avere sempre pronti nel cassetto progetti ben meditati, pronti per ogni evenienza. Perché, come capitano tra capo e collo alluvioni, terremoti, leggi sbagliate, strategie politiche sovranazionali, nazionali e regionali deleterie, crisi economico-finanziarie ecc., così possono capitare fortune come piogge di denaro pubblico per la costruzione di un’autostrada o di una diga, o per tenere su una città costruita su una rupe non abbastanza stabile, o per stimolare lo sviluppo di una invenzione chiamata area interna. Se gli enti pubblici territoriali si organizzassero per prepararsi in tempo ad affrontare sia le disgrazie che le fortune, sarebbe molto meglio per tutti.
La proposta di Barbabella a Leoni
In medio stat virtus, ma quanto è difficile!
“La verità è che l’Occidente, con tutti gli errori che ha commesso, non è la causa di un conflitto che scaturisce da una vera e propria guerra civile interna all’Islam; ma non può disinteressarsene solo perché ne è la periferia. La presunzione di voler lasciare il mondo com’è, congelando la storia, solo perché così conviene al nostro quieto vivere, non è meno «imperialista» della presunzione di poterlo cambiare a piacimento, giocando alla guerra. Nella politica, come nella morale, non far niente può essere talvolta più pericoloso di far troppo.” (Antonio Polito, L’Occidente si pente troppo, Corriere della sera, 28 ottobre 2015)
Prevale in una parte del mondo, a mio avviso, la convinzione che la civiltà occidentale, il capitalismo e la democrazia diano ai popoli il massimo che si possa ottenere in questo mondo complicato, abitato da sette miliardi di mammiferi che hanno cervelli enormemente complicati. Certo, nel cosiddetto mondo occidentale, sono numerosi coloro che contestano questo modo di pensare, essendo convinti che possa essere edificato il paradiso in terra. Ma non riescono a mettersi d’accordo sulle ricette; infatti è diventata proverbiale la rissosità delle sinistre, che combinano qualcosa solo quando vengono a patti col capitalismo. Questo mondo occidentale ha trovato però sulla sua strada l’Islam, turbolento e impegnato in lotte fratricide che fanno impallidire le passate guerre di religione fra cristiani, ma unito dalla convinzione che la civiltà occidentale è il Satana. Inevitabile che l’Occidente, anche se evita di sbandierarlo ai quattro venti, consideri barbari i musulmani, governi barbarici i loro governi e atti barbarici le loro politiche. Purtroppo non se ne esce senza una accorta politica diplomatica accompagnata da atti di guerra. L’Impero Romano d’Occidente crollò perché i cittadini romani erano stanchi di combattere e perché alla brutalità con cui avevano costruito un grande impero non avevano sopperito con una evoluta diplomazia. L’impero Romano d’Oriente visse mille anni di più grazie alla raffinatissima diplomazia, con la quale riusciva a mettere i popoli barbari l’uno contro l’altro, e grazie a un esercito molto ben organizzato. Dovette soccombere all’Islam perché la parte occidentale dell’Europa era allo sbando. Quindi l’Occidente può cavarsela solo con la diplomazia e la guerra, comprese le guerre interne contro gli islamici non allineati nei loro comportamenti, anche privati, ai principi della democrazia. Tutto questo per dire che l’Occidente, se vuole conservarsi e durare, è costretto a compiere anche azioni molto sgradevoli.