di Mario Tiberi
Ma, davvero, vogliamo insistere nel perseverare a voltare le nostre spalle di fronte ad un mondo ricolmo di odio e di violenza? Davvero il livello della sensibilità, individuale e collettiva, ha raggiunto lo stadio arido dell’assuefazione? E vogliamo davvero che un tale stato psichico continui stancamente a ristagnare fino ad imputridirsi? Sono domande, le più atroci e terrificanti che dobbiamo porci.
Guardiamoci attorno, posiamo il dito indice su un qualsiasi mappamondo e giriamolo: intorno a noi avanza inesorabile un’umanità incredibilmente aggressiva la quale, in luogo di consolidate categorie di civiltà, è dedita ad imporre l’atrocità della barbarie. Si tagliano teste di donne e di uomini dall’Africa all’Asia, si costringono le vittime ad inginocchiarsi e le si sacrificano alla maniera di chi, mille e mille anni fa, così si comportava con le bestie.
Vorremmo, all’opposto, inginocchiarci per pregare, per implorare il perdono delle nostre colpe, per invocare misericordia. Il credente si sottomette alla volontà e alle magnificenze divine del suo Dio, convinto e certo che il Dio del perdono lo farà rialzare dopo averlo assolto dai suoi peccati. I nuovi barbari, al contrario, obbligano ad inginocchiarsi come estremo atto di sottomissione alle loro volontà terrene prima dell’immolazione e, mentre il coltello viene affondato nella gola dei martiri, neniano bestemmie osando proferire aggettivi come “il misericordioso, il compassionevole, il santo” riferendoli al loro dio da essi stessi bestializzato.
Sul palcoscenico lugubre di codeste barbarie, sommando malvagità a malvagità, è sempre più spesso presente la figura di un bambino e, quel bambino, diviene così il simbolo dell’oltraggio ostentatamente esibito e, contestualmente, indica che non vi è speranza di salvezza nel domani.
Dove sono finite le nostre coscienze? Non ribollono e né si ribellano, non sussultano nel veder morire giorno dopo giorno esseri umani innocenti; si cullano e si rifugiano invece in un esasperato egoismo pensando, stoltamente, di trovarsi al difeso ed inespugnabile riparo da ogni e qualsiasi pericolo.
Ma non è così. Non è più così. Il seme dell’odio, infatti, si estende al mondo come un morbo contagioso e la pandemia appare inarrestabile come l’ebola, la peste del XXI° secolo.
Tentiamo di tranquillizzarci, dicendo a noi stessi: “…è questione che non ci riguarda, è roba di popolazioni primitive tipica dei paesi sottosviluppati, non arriverà mai da noi…”. E invece sta arrivando, anzi è già arrivata anche da noi!
L’undici settembre del 2001 avrebbe dovuto definitivamente farci risvegliare e comprendere che nessuno, e ancora nessuno, è oramai più al sicuro nemmeno tra le proprie mura domestiche.
Abbiamo provato brividi intensi nel momento dello schianto degli aerei sulle torri gemelle, ma sono durati un sol battito di ciglia e, appena dopo, ci siamo illusi che rintanandoci sotto le copertine raggrinzite della nostra civiltà occidentale, quella diversa e soprattutto lontana dai terroristi, saremmo stati senz’altro coperti, protetti ed inattaccabili.
Illusi, illusi, illusi. E Dio non voglia che arrivi il giorno in cui, disgraziatamente, saremo costretti a sollevare terrorizzati quel dito indice dal mappamondo perché circondati da un commando di folli criminali con in pugno i loro coltelli seghettati e luccicanti.
Quando decideremo di aprire gli occhi sull’inferno che è davanti a noi e a riportare la civiltà dell’amore dove amore non è più?