La proposta del direttore Dante Freddi
Spara e uccide ladro in casa nel Milanese: 65enne indagato per omicidio volontario. Maroni: “Paghiamo noi l’avvocato”
“E’ accusato di omicidio volontario il pensionato che ha sparato uccidendo un giovane ladro che era entrato nella sua casa a Vaprio d’Adda, in provincia di Milano. Rispetto a una prima ipotesi di eccesso colposo in legittima difesa, la Procura ha formulato la nuova contestazione per poter svolgere tutti gli accertamenti sulla vicenda. E’ emerso infatti che il giovane era disarmato. Il caso accende le polemiche, con il centrodestra che si schiera in massa a difesa della legittima difesa, e l’avvocato Giulia Bongiorno che interviene nel dibattito online e su Twitter scrive: “La legittima difesa va cambiata! Ma in materia di giustizia vedo idee scarse e confuse!!!” E poi spiega: “Va ampliata”.” (http://milano.repubblica.it/cronaca/2015/10/20/)
L’opinione di Pier Luigi Leoni
Ogni persona, a seconda della condizione sociale, dell’età, della cultura e della sensibilità individuale ha una opinione sulla legittima difesa e sui suoi limiti. La legge non può contentare tutti e quindi s’impone una soluzione conforme al senso morale, alla tradizione giuridica e alle caratteristiche della società attuale. La sicurezza assoluta non esiste, ma l’adozione di alcune misure migliorerebbe la situazione senza dover ricorrere allo stravolgimento dei principi di civiltà faticosamente confluiti nel codice penale: a) obbligo di misure di sicurezza e di impianti di allarme in tutti gli alloggi e relativi controlli (come avviene per le caldaie del riscaldamento); b) perfezionamento delle misure di controllo sulle persone che hanno precedenti in materia di furto e di rapina (il sistema italiano è antiquato, basandosi troppo sugli informatori e poco sull’informatica e l’addestramento del personale di polizia); c) maggiore severità nell’applicazione della detenzione (è diffusa nell’opinione pubblica l’impressione di una certa pigrizia della magistratura). Quanto al pensionato che ha ucciso il ladro disarmato, mi sembra corretto che il magistrato accerti se l’uccisore aveva motivo di temere per la propria incolumità. Per quello che se ne sa, l’ipotesi dell’omicidio volontario mi sembra eccessiva. A meno che il magistrato non abbia qualche elemento che tiene segreto. Quanto al battage politico e mediatico c’è poco da meravigliarsi e scandalizzarsi: i partiti hanno bisogno di voti e i media hanno bisogno di lettori e ascoltatori.
L’opinione di Franco Raimondo Barbabella
Io mi definirei, provvisoriamente s’intende, un pacifista relativo, nel senso che in generale non amo la detenzione e l’uso delle armi, ma sono disposto ad ammetterne la legittimità/necessità per la difesa, individuale e collettiva. Forse perché ho presente la Costituzione, o perché sono stato allievo di Guido Calogero, il filosofo italiano che ha riproposto senza false ingenuità la filosofia socratica del dialogo, o forse perché a suo tempo ho fatto parte del gruppo degli amici di Don Marcello, anche lui allievo di Guido Calogero, un legame rimasto intatto fino alla sua scomparsa.
Così mi viene in mente anche in questa occasione uno dei suoi tanti insegnamenti paradossali. Lui diceva: se uno ti dà uno schiaffo, tu porgi l’altra guancia; prendi l’altro schiaffo, ma dopo un bel pugno in faccia non glie lo leva nessuno. E giù una bella risata, e noi a ridere con lui compiaciuti della sua arguzia.
Ecco, io applicherei anche al caso in questione quello che si potrebbe chiamare il “lodo Don Marcello”: se si verifica che un povero cristo ha porto non una sola ma addirittura più volte l’altra guancia, cosicché alla fine ha “sbottatto” di brutto appena qualcuno ha fatto il gesto di picchiare, seppure a mani nude, e gli ha fatto male (in questi casi più per paura che per volontà di far male), la reazione va considerata normale e legittima, non voglio dire degna di lode avendo pienamente assolto anche ai doveri cristiani.
Resta il pianto per una giovane vita che se ne è andata così in una fino ad oggi sconosciuta località del Milanese, Vaprio d’Adda. Francesco Sicignano non ha ucciso per legittima difesa? Lo appureranno i giudici. Ma nel frattempo sarà legittimo chiedersi se è sensato accusare di omicidio premeditato per la sproporzione tra offesa e difesa un poveraccio che era al quarto assalto di casa sua. E chiedersi anche se si può chiamare Stato quello che espelle un delinquente patentato e, quando se lo ritrova cadavere per aver tentato di notte una rapina, accusa di omicidio chi gli ha sparato contro, con tutta evidenza, fino a prova del contrario, più che per difendere la proprietà (peraltro atto legittimo), per paura per sé e per i suoi. Sarà poi anche il caso di ricordare come oggi siano mutati i valori e i comportamenti, per cui tutti sappiamo che non solo si uccide per un niente, ma si può essere massacrati di botte se magari per istinto tenti di difendere te stesso e chi ti sta vicino. Come non avere paura, allora? E come non capire chi si premunisce di fronte ad una tale condizione di insicurezza?
Non accenno nemmeno alla questione giuridica del rapporto tra doveri dello Stato e diritti del cittadino (per questo meglio leggere quanto dice Carlo Nordio sul Messaggero di giovedi scorso). Né mi voglio occupare delle strumentalizzazioni, che mi appaiono una miserevole occupazione a fronte di una tragedia che lascia comunque sul terreno un giovane morto e un cittadino qualunque con sulla testa un’accusa, a lume di naso esagerata, di assassinio. Certo, un eroe no, ma una seconda vittima molto probabilmente si.
Sarebbe, credo, non solo il caso di chiarirsi qualche idea su diversi aspetti: il clima culturale e sociale che viviamo, l’adeguatezza della legislazione circa la legittima difesa del cittadino, le condizioni di sicurezza che lo Stato è tenuto a garantire, e anche il comportamento degli organismi statali nei confronti di chi delinque.
La proposta di Leoni a Barbabella
Abolire le gite scolastiche o fare viaggi di istruzione?
“Sospesi da scuola per un episodio di bullismo, durante la gita scolastica a Roma, ma difesi a spada tratta dai genitori, per i quali la punizione è esagerata. «Rischiano di perdere un anno per uno scherzo», è la difesa dei ragazzi, tutti minorenni, studenti di un liceo del liceo scientifico piemontese. Sono stati sospesi in 14, e riceveranno il 4 in condotta, che significa perdere l’anno.
La scuola difende comunque la decisione: «Episodio grave. Siamo dovuti intervenire con fermezza per far capire quali sono i limiti, il rispetto delle norme». Gli studenti, 15 e 16 anni, erano in gita a Roma. Una notte si sono ritrovati in una delle stanze dell’albergo all’insaputa dei professori. Dopo risate e scherzi, un gruppo ha preso di mira un compagno, forse ubriaco. Lo ha spogliato, depilato e «decorato» con caramelle e marsh mellows. Il tutto è stato filmato con un cellulare.
La ripresa, al loro ritorno a Cuneo, ha iniziato a circolare via Whatsapp. I professori se ne sono accorti e hanno convocato i genitori prima di far scattare la punizione, con una sospensione che durerà dai 5 ai 15 giorni. Gli stessi genitori hanno chiamato il quotidiano La Stampa per difendere i propri ragazzi: «Li condannano a perdere l’anno, una rovina per molti con quello che oggi costa frequentare un liceo». Il provveditore: «Decisione giusta, valuteremo l’operato degli insegnanti»
La preside dell’istituto, raggiunta dall’agenzia Ansa ha ribadito: «Nessuna marcia indietro da parte della scuola, ma ora si deve voltare pagina: i ragazzi avranno tutto il sostegno necessario per superare gli scrutini di giugno». La dirigente ha anche precisato che «la maggior parte dei genitori sta collaborando con noi». L’istituto ha il pieno appoggio del provveditore scolastico: «Appoggio pienamente la decisione della scuola, che peraltro è stata presa dall’intero Consiglio d’Istituto. Mi riservo di valutare, appena riceverò la relazione della preside, se ci sia stata una mancata vigilanza da parte dei docenti durante la gita».” (http://www.corriere.it 3 aprile 2015)
Quando nello scorso aprile lessi questa notizia non mi meravigliai né della notizia in sé, né della reazione di difesa di alcuni genitori: c’ero abituato, anche per esperienza diretta. Mi meravigliai invece della sanzione comminata dalla scuola e del piglio con cui le autorità scolastiche tenevano il punto, per la semplice ragione che per lungo tempo ero stato uno dei pochi presidi/dirigenti a sostenere e ad applicare una linea di rigore sui doveri (e non solo sui diritti, come da classico costume italiano) sia all’interno che all’esterno della scuola. Rigore educativo, beninteso, fatto di molti aspetti coordinati, una visione e una linea di azioni. Una fatica naturalmente, spesso non capita, ma comunque praticata perché connessa alla funzione, e dunque un esercizio dovuto di responsabilità.
Ora leggo che altri episodi di bullismo e fatti più gravi, come la morte dello studente in visita all’Expo, stanno generando iniziative per l’abolizione delle cosiddette gite. Siamo chiari, il fatto che si continui a parlare di gite e non di viaggi di istruzione la dice lunga su molte cose. Ad esempio sulla pigrizia mentale, diffusa non solo tra i giornalisti, di persone che quando hanno imparato un termine continuano ad usarlo vita natural durante, anche quando la realtà è cambiata (detto di striscio, l’articolo che sto commentando contiene tutti i termini del vecchio armamentario linguistico scolastico). Ma soprattutto la dice lunga sul fatto che in effetti da molto tempo quelli che dovrebbero essere viaggi di istruzione sono stati trasformati appunto in gite (per cui questa volta, probabilmente senza volerlo, è stato usato il termine giusto), una specie di attività dopolavoristiche. Ovviamente sempre con le dovute eccezioni.
Il fatto che questa sia la realtà prevalente comporta poi tutto il resto: il comportamento sciatto degli studenti, il lasciar fare degli accompagnatori, l’offerta e l’accettazione di servizi scadenti, ecc. Tutto un po’ alla stracca, nella speranza che non accada nulla. È il clima sociale che viviamo. Poi, quando accade qualcosa (e qualcosa può sempre accadere, anche quando si fosse nel massimo della possibile attenzione), apriti cielo, esplode l’estremismo italiota, si sprecano le accuse a questo e a quello, e si invocano provvedimenti definitivi. Mai pensare. Mai attestarsi su quello che deve essere ritenuto normale quando si ha a che fare con i problemi della crescita e dell’educazione: lungimiranza progettuale, preparazione, competenza, pazienza e fermezza. E ognuno al suo posto. Quasi mi vergogno a dirlo, tanto mi sembra che queste siano ormai parole blasfeme.
Per fortuna però non sono solo. In una lettera a Tuttoscuola, Giorgio Rembado e Mario Rusconi, rispettivamente presidente e vicepresidente ANP (l’associazione più importante dei dirigenti scolastici), chiariscono che, prima di pensare all’abolizione, “è necessario che si avvii un serio dibattito nei collegi dei docenti e nei consigli di istituto, che tenda a riportare nell’alveo formativo queste iniziative, coinvolgendo studenti e genitori”. È la cosa più seria che abbia sentito in un mare di scemenze. Si farà? Sinceramente ne dubito, ma se fosse così si continuerebbe nell’errore.
Le gite esistono solo nella mente e nella prassi di chi fa un mestiere inappropriato. Laddove i viaggi di istruzione si fanno come gite, lì c’è una qualche malattia. Perché le uscite organizzate dalla scuola sono sempre e comunque attività formative ed educative. Richiedono dunque coordinamento con l’indirizzo di studio, coerenza con precisi obiettivi di apprendimento, rapporto consapevole con l’educazione ai doveri civici. Di conseguenza richiedono anche un progetto discusso collegialmente e approvato, attività di preparazione, organizzazione e gestione attenta, verifica seria degli esiti. Il che non significa che devono per forza essere attività barbose, prive di sani aspetti ludici. Deve essere solo chiaro che l’aspetto ludico è l’interesse di apprendimento, l’emozione dell’intelligenza, il gusto di fare qualcosa di ben fatto tutti insieme, non lo sfogo istintuale, lo sgarro e lo sballo.
I viaggi di istruzione sono un aspetto caratteristico delle scuole serie. Sono momenti eccezionalmente importanti del percorso di crescita a tutte le età scolastiche, ovviamente in modo graduato e appropriato. Perciò, se non vi sono le condizioni necessarie, non si facciano. Se tutto deve diventare licenza di sbrago per gli studenti e pericolo di conseguenze spiacevoli e talvolta gravi per i docenti, che si caricano sulle spalle tutti gli oneri, avendo anche sulla testa la spada vendicatrice che li colpirà quando magari non per loro colpa qualcosa non ha funzionato, allora il dirigente scolastico si assuma le sue responsabilità e non permetta che si faccia ciò che non è logico fare. Ma la si smetta di invocare sempre, in questo come in altri casi, la via più facile, quella della fuga dalle responsabilità.
C’è da fare altro, poiché la fuga è sempre un fallimento. C’è da garantire i docenti stabilendo l’ambito delle loro responsabilità. C’è da attribuire valore giuridico e non solo morale alla liberatoria dei genitori per il tempo nel quale oggettivamente gli accompagnatori non possono esercitare la sorveglianza. E c’è da attribuire responsabilità dirette, graduate secondo l’età, a partire dai 16 anni, anche gli studenti. Soprattutto, va dato peso realmente vincolante al contratto educativo, con il quale si stabiliscono diritti e doveri di ciascuno.
Dalla scuola si vuole tutto, possibilmente senza riconoscimenti e senza spesa, e soprattutto senza fare la fatica di pensare e di assumersi ognuno gli oneri della funzione, ciò che vale per tutti, compresi i genitori e la società complessivamente intesa. Francamente mi pare una via fatta a T.